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Autore: Niglia    11/07/2013    6 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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A Sylphs,
che mi ha fatto scoprire il lato più "oscuro" della mia scrittura,
e senza la quale questa storia non avrebbe visto la luce.
Questo, fondamentalmente, è per te. :)





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Prologue

separatore











Yet from those flames
No light, but rather darkness visible.
[John Milton, Il Paradiso Perduto, x. 62-63]



Pemberley Manor, 25 ottobre 1889.

Nora si sforzava di trattenere i singhiozzi, ma le lacrime colavano impietose e pesanti come pece sulle sue guance. La treccia disfatta giaceva scompostamente sulla sua spalla, la camicia da notte era sgualcita e strappata nel punto in cui lui l’aveva afferrata, e i piedi scalzi sanguinavano ove si era tagliata con i frammenti di uno specchio, nella frenesia della fuga.
Tutto era avvenuto in modo troppo rapido perché lei potesse rendersene conto, e ogni cosa pareva essere avvolta dalla stessa irrazionalità di un sogno. Aveva appena terminato di prepararsi per la notte: aveva congedato la sua cameriera, Anne, e aveva già soffiato sulla candela di fianco al letto, spegnendola, quando all’improvviso aveva udito un tremendo trambusto provenire dal piano di sotto. Vetri che andavano in frantumi, sedie rovesciate, vasi lanciati contro le pareti, e poi grida, urla, che di umano non avevano più niente: sembravano i versi di un maiale al macello.
Aveva gridato a sua volta nel riconoscere le voci di suo padre e dei suoi fratelli.
Il primo istinto fu quello di andare da loro per sincerarsi che stessero bene, ma in un flebile lampo di lucidità si era resa conto che una mossa del genere non sarebbe stata saggia: perché offrirsi di sua spontanea volontà come agnello sacrificale? Allora, terrorizzata, si era precipitata a chiudere a chiave la porta della sua stanza.
Buon Dio, che cosa sta succedendo? Singhiozzava, aggrappata alla maniglia, timorosa di spostarsi, sperando che il suo peso contro la porta bastasse a tener lontano chiunque fosse irrotto in casa. Intimamente iniziava ad intuire che cosa fosse accaduto – poteva ancora sentire le loro grida rimbombare nelle orecchie – ma la sua mente, il suo cuore, non voleva accettarlo. C’era un che di terribile nell’idea che lei fosse al sicuro nella sua stanza mentre i restanti membri della sua famiglia venivano assassinati al pianterreno: se si fosse fermata a rifletterci un istante di troppo avrebbe strillato fino a perdere la voce, e non poteva permetterselo. Per quanto possibile, voleva mettersi in salvo – voleva perlomeno provarci. Era orrendo anche solo pensare una cosa del genere, eppure l’istinto di sopravvivenza andava ben oltre quello di correre come un’ingenua a morire insieme al padre.
Poi, così com’erano iniziate, le grida cessarono; quel silenzio la spaventò se possibile ancora di più, giacché qualcosa le diceva che adesso sarebbero venuti a cercare lei. Chiunque, nel raggio di miglia, conosceva i conti di Pemberley, e tutti giù al villaggio erano a conoscenza della giovane lady che gestiva un circolo di beneficienza in memoria della madre: era impossibile, dunque, che coloro che erano entrati nel maniero se ne andassero senza cercarla. Nora chiuse gli occhi e pregò, tra le lacrime, come se rivolgersi a una qualche entità invisibile potesse bastare, in quel momento.
Infine giunse il terribile rumore attutito di passi che percorrevano il corridoio. Era una camminata lenta, pesante, come se il proprietario faticasse a reggersi in piedi e ogni passo fosse una fatica, e pur tuttavia continuava ad avanzare, inesorabile, verso di lei. I passi parvero volatilizzarsi una volta giunti di fronte alla porta della sua stanza, e per un attimo lei trattenne il respiro, sperando… Ma poi, tutt’ad un tratto, il chiavistello della serratura aveva scattato dall’esterno, strappandole un grido. Indietreggiò rapidamente verso l’interno della stanza mentre un’ombra si affacciava sull’uscio – l’ombra di un uomo, senza alcun dubbio, che camminava leggermente incurvato come se si trovasse a disagio nel suo stesso corpo, che ciondolava il capo come un animale e che era macchiato di sangue da cima a fondo, come un carnefice. Attraverso una cortina scarmigliata di capelli corvini, Nora aveva intravisto gli occhi rossi, iniettati di sangue, febbrili del mostro, circondati da ombre scure, incastonati in un volto che pareva giungere dal più profondo e maledetto degli inferni.
Un volto che lei conosceva bene, poiché era stato l’incubo della sua infanzia.
Non ebbe neanche più la forza gridare; e non l’aveva fatto neppure quando lui era scattato in avanti per ghermirla, graffiandola con unghie lunghe e sporche e lacerando una spallina della sua camicia da notte, pur di trattenerla. A quel punto lei aveva raccolto gli ultimi residui di coraggio rimastole e gli aveva lanciato addosso il primo oggetto su cui si era posato il suo sguardo, ossia il pesante scrigno nel quale conservava i suoi gioielli; e, senza degnarlo di un secondo sguardo, approfittò della sua distrazione per spingerlo via e sgusciare fuori dalla camera, piangendo di sollievo quando si trovò, libera, a scappare nel corridoio.
Eppure il buio era pressoché totale – il maledetto doveva essersi preso la briga di spegnere anche i pochi lumi che la servitù teneva accesi durante la notte – sicché non si accorse dell’improvviso ostacolo che parve materializzarsi in mezzo al corridoio, in mezzo ai suoi piedi. Cadde miseramente attorcigliandosi con la propria camicia da notte – non aveva mai odiato prima quel pregiato indumento di cotone, ma adesso se lo sarebbe strappato di dosso con le unghie se fosse servito a rendere più agili i suoi passi – e per un momento rimase sdraiata a terra, scombussolata, mentre attendeva di riprendere a ragionare con maggior lucidità.
Si accorse solo dopo alcuni secondi di essere caduta addosso ad un corpo. Strillò disgustata, e in quel momento riuscì ad intravedere qualcosa nell’oscurità, nella penombra, qualcosa che le permise di riconoscere le fattezze del cadavere nel quale era inciampata. Una cuffia scomposta da cameriera, capelli rossicci, una gola che si apriva da parte a parte in una rossa voragine e un paio di occhi sbarrati che conservavano ancora l’espressione scioccata di chi ha guardato in volto il proprio assassino. Un groppo le si formò in gola.
«Dio mio, Anne», gemette, tremando. Avrebbe voluto mostrarle il rispetto che meritava chiudendole almeno gli occhi, ma l’orrore l’ebbe vinta su quel desiderio. Si rimise in piedi a fatica, sentendosi la camicia sporca di sangue; barcollò e lanciò un’occhiata alle sue spalle, ma il corridoio, immerso nel buio, era fortunatamente vuoto. Non sapeva per quanto ancora lo sarebbe rimasto, così riprese a correre, perché correre era mille volte meglio che rimanere ferma ad aspettare che il mostro dell’incubo la catturasse.
La cosa più logica sarebbe stata scendere al pianoterra ed uscire di casa, sperando di incontrare qualcuno nelle proprietà intorno al maniero; ma le scale si trovavano oltre la sua camera da letto, e per raggiungerle sarebbe dovuta tornare indietro, rischiando di gettarsi esattamente tra le braccia dell’assassino. L’altra soluzione era trovare un luogo in cui nascondersi fin quando non fosse giunto qualcuno ad aiutarla – il resto dei domestici non poteva dormire ancora dopo tutto quel baccano, vero? – e a scacciare quel folle.
Si infilò quindi dietro la prima porta che trovò socchiusa, facendo attenzione a rimetterla esattamente come l’aveva trovata per evitare di fornire indizi sul suo nascondiglio, e solo pochi attimi dopo dal corridoio provenne il rumore cadenzato dei passi pesanti del mostro che aveva ripreso a seguirla.
Mordendosi con furia l’interno della guancia per non scoppiare in lacrime, Nora si fece il segno della croce e, nel buio, cercò un cantuccio dove nascondersi. Scioccamente ne scelse uno dietro una pesante tenda di broccato, ma era il meglio che era riuscita a trovare – aveva pensato anche ad andare sotto il letto, ma se si fosse chinato e l’avesse vista… Il cuore le batteva così forte in petto da farle temere che lui potesse trovarla solo rimanendo in silenzio.
Rimase in attesa, e pregò.
«No-o-ra?» Il sangue le si gelò nelle vene quando udì per la prima volta la sua voce cantilenante, diversa da come la ricordava eppure inequivocabile, provenire da un punto imprecisato del corridoio. «Nora, dove sei? Dove sei, dolce sorella? Ti nascondi? Vuoi giocare con il tuo fratellino? Bene, allora… Sto venendo a prenderti…»
Istintivamente la ragazza trattenne il respiro, cercando di non fare nessun movimento, sperando che la tenda fosse abbastanza lunga e spessa da nasconderla agli occhi del folle che la stava inseguendo e che presumibilmente aveva già ucciso il resto della sua famiglia.
«Pensi di poterti nascondere per sempre? Qui, in casa mia? O speri di poter scappare? Ormai nessuno verrà a salvarti…»
Non si soffermò sul senso delle sue parole: non udiva niente, fuorché il rumore della sua voce raschiante; si limitò a chiudere gli occhi e rafforzare le sue preghiere, silenziosamente, recitando tutti i salmi e i canti e le invocazioni che le erano stati insegnati. Cercare di non farsi scappare il più piccolo singulto era un’impresa terribilmente difficile.
Nel frattempo, lui aveva ripreso a parlare.
«Ma guarda… Non è forse la camera da letto del conte, questa? E quello… non è il ritratto della cara, compianta contessa, là, sopra il camino? Mi chiedo che cosa penserebbe adesso, se vedesse in che condizioni versa la sua casa… il conte e i suoi figli l’hanno già raggiunta, sai? Ma dubito che finiranno nello stesso luogo dove è lei…» Malgrado lo scherno grondante dalle sue parole, nel nominare la defunta Lady Rochester qualcosa nella voce del ragazzo s’incrinò, ed egli rimase in silenzio così a lungo da far credere per un attimo a Nora che potesse essersene andato.
Ma no, sentiva il suo respiro roco, ansimante – lì, farsi sempre più vicino a lei…
Una mano l’afferrò all’improvviso con forza inusitata, strappandole un grido mentre veniva trascinata fuori dal suo nascondiglio, alla completa mercé del mostro.
«Trovata», soffiò, a poche spanne dal suo volto atterrito.
Nora sollevò le mani e cercò di colpirlo alla cieca, gli occhi serrati con forza – l’ultima cosa che voleva vedere era il suo orrido viso – le mani arcuate come artigli, ma ottenne l’unico effetto di farlo infuriare di più; inoltre, non era riuscita a sfiorarlo neppure con la punta di un dito. Per l’amor di Dio, come poteva essere così forte?
«Sono ancora indeciso sul tuo destino, mia cara, dunque ti consiglio di non rendermi facile la scelta», ringhiò, scrollandola e strattonandole il braccio.
«No, no… Ti supplico, ti scongiuro… pietà…»
Gli occhi del giovane si strinsero ancora di più. «Pietà? Con quale coraggio implori pietà, adorata sorella? Intendi forse quella stessa pietà che né tu, né i tuoi fratelli, né tantomeno tuo padre mi ha mostrato? Parli della pietà che il povero Edgar ha dimostrato, rinchiudendo il proprio figlio nel sottotetto e negando al mondo la sua esistenza, per poi venderlo come un animale, no!, come cavia da laboratorio, pur di non averlo più intorno? Intendi quella pietà, mia cara?» La sua voce era sibilante e roca, il tono basso e pericoloso, e Nora era pietrificata.
«Oh Dio, Dio mio, Adam, ti prego…»
Una mano le afferrò la treccia con furia, strattonandola ancora fino a estorcerle un grido. «Guardami!» Le intimò, furioso. Lei gemette, eppure socchiuse gli occhi umidi e li puntò coraggiosamente in quelli del giovane. «Io non sono Adam», sibilò lui, con feroce soddisfazione. Godette, nel vederla impallidire ancora di più. «Il mio nome è Faust.»
«Cosa, io… non capisco…» Balbettò tremante, la testa ancora piegata all’indietro, incapace di distogliere lo sguardo da quel volto orrendo anche se l’avesse voluto.
Il ghigno fu mostruoso sulle sue labbra. «Non è necessario che tu capisca», ribatté; quella voce le metteva i brividi. «Voglio solo un po’ di giustizia, capisci… Ma tu, tu, in che modo potresti servirmi? In fondo la tua unica colpa è quella di essere stata tanto stupida da lasciarti traviare dai tuoi adorati fratelli… Vi divertivate a torturare l’altro, non è così? A picchiarlo, a deriderlo, come se non foste dello stesso sangue… Adam si ricorda di come ridevi, di come ti piaceva quel piccolo gioco!» Con un dito percorse i lineamenti del volto di Nora, lentamente, studiandoli con meticolosità chirurgica. «Il che mi porta a considerare che anche tu hai avuto le tue parti di colpa, cara sorella. Posso chiamarti così, non è vero? Dopotutto siamo molto intimi io e Adam, davvero molto, molto intimi… Potresti quasi dire che nessuno lo conosce meglio di me! Ed è per questo motivo, vedi, che sarò io ad avere il piacere di vendicarlo», aggiunse, stavolta con un tono pacato, quasi ragionevole, come se stesse spiegando i rudimenti della matematica a un bambino.
Inevitabilmente, a Nora sfuggì un singhiozzo. «Ti prego, ti prego, io non ho fatto niente, non ho mai voluto… non sapevo…»
«Ma capisci, è proprio questo il punto! Tu sapevi, mia cara! Sapevi, come d’altronde sapevano tutti in questa casa… ma adesso, grazie a me, nessuno sa più nulla. Ho provveduto personalmente… E adesso è arrivato il momento di pagare anche per i tuoi peccati, sorella», sibilò ancora, avvicinandole la bocca all’orecchio.
«No, no, no… No!» Con un urlo disperato Nora si ribellò, cogliendo il mostro tanto impreparato che la lasciò andare di scatto, come se si fosse bruciato. La ragazza finì per terra, ma si rialzò quasi subito inciampando sull’orlo della sua stessa camicia da notte: lo fissò come se avesse voluto aggredirlo, benché sapesse perfettamente di non essere in grado di affrontarlo in una lotta così impari – eppure lui ricambiò lo sguardo come se la considerasse capace di un gesto simile.
«Preferisco uccidermi da sola piuttosto che darti la soddisfazione di completare la tua vendetta!» Strillò, gli occhi che brillavano di una luce invasata, folle. Era impazzita.
Quello che accadde dopo Faust non riuscì a prevederlo, né tantomeno ad evitarlo. Nora gli diede le spalle e corse verso la finestra, spaccando il vetro sottile con la forza del suo slancio e precipitando nel vuoto senza neppure un gemito. Il boato del cristallo che andava in frantumi rimbombò nelle sue orecchie come l’eco di un tuono, e solo dopo, quando udì il tonfo del corpo che toccava terra, riuscì a muoversi di nuovo.
Ancora piuttosto scioccato, egli si affacciò alla finestra, aggrappandosi al telaio dal quale spuntavano pezzi di vetro taglienti come lame e guardando giù: il corpo di Eleanore Rochester giaceva scomposto come una bambola rotta sull’erba bagnata dalla rugiada notturna, circondato da frammenti di cristallo, una macchia bianca su un prato nero. Il collo era piegato in una posizione innaturale, e gli occhi sbarrati, aperti verso il cielo, sembravano piantarsi nelle profondità stesse della sua anima.
Su, nello studio, il mostro indietreggiò debolmente, osservando senza vederle le proprie mani grondanti sangue, lo stesso che gocciolava dall’intelaiatura della finestra. Non riuscì a trattenere un conato, e inginocchiandosi per terra riversò l’esiguo contenuto del suo stomaco sul tappeto. Lo sforzo, seppur minimo, lo indebolì al punto da lasciarlo infreddolito e tremante, e quando si rialzò, a fatica, cercando di reggersi sulle sue gambe, lo specchio che si trovava sopra una cassettiera gli restituì l’immagine di Adam e non più quella di Faust.
Il mostro lo aveva abbandonato quando più aveva bisogno di lui. Gli lasciò l’incombenza di occuparsi di suo padre, dei suoi fratelli, di sua sorella, mentre lui rimaneva rintanato chissà dove, come un serpente dietro un sasso, in attesa di tornare nel momento più impensato.

Adam aveva cercato di restituire una parvenza di dignità a quella famiglia che non lo aveva mai voluto né tantomeno amato, sistemando i corpi senza vita sui divani con una cura maniacale che aveva parvenze di follia, posando addirittura un libro tra le mani del padre e dei fiori tra quelle di sua sorella.
Dopodiché aveva appiccato il fuoco, ed era rimasto a guardare.

























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Angolo Autrice.
Appena finito una storia e ne inizio già un'altra... yeah, chiamatemi pure folle, ma cosa ci vogliamo fare? Ormai dovreste aver capito con chi avete a che fare :D
Scherzi a parte, benvenuti in questo nuovo esperimento! Vi ho incuriositi, mh? Almeno un pochetto? *-* Se sono approdata in questa sezione, il merito (o la colpa, deciderete voi :p) va alla mia cara, carissima Sylphs, che anche da poco mi ha detto che dovevo assolutamente inventarmi un "mostro" tutto mio; e siccome questa idea mi turbinava in mente già da un po' - e ci ho lavorato parecchio prima di riuscire a trovare un qualcosa di definitivo - alla fine non ho resistito e ci sono cascata... Così, eccomi qua :D [Ad ogni modo, andate anche a leggere del suo, di "mostro": storie del genere non devono rimanere in un angolo della soffitta a prendere muffa, per cui correte, su!]
Come già accennato nell'introduzione, diverse opere hanno ispirato questa storia. In particolar modo, devo assolutamente citare:
- Il fantasma dell'Opera, di Gaston Leroux
- La Bella e la Bestia, Disney e Beaumont
- Frankenstein, di Mary Shelley
- The Others, di Alejandro Amená
bar
- Follia d'amore e d'oscurità, di Sylphs (x)
- Downton Abbey, serie TV
- Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mister Hyde, di Robert Louis Stevenson.
(Per quanto riguarda le altre influenze bisogna prenderla con Edgar Allan Poe, Victor Hugo, Andrew Lloyd Webber, film, libri, musical e soggetti con maschere vari.)
Quindi sì, insomma, aspettatevi roba del genere. Okay, detto questo... Niente, credo che per ora lascerò così. Spero che qualcuno voglia imbarcarsi insieme a me in questa ennesima avventura - sono sempre parecchio emozionata quando pubblico il primo capitolo di una long e straparlo, non fateci caso - e nell'attesa vi lascio! Alla prossima carissimi, grazie di essere passati per di qua - per uscire seguite pure il sentiero luminoso.
Baci e abbracci, dalla vostra
Niglia.

   
 
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