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Autore: Lynn Lawliet    11/07/2013    3 recensioni
Dal testo: "Erano quattro anni che era rinchiusa in quel luogo che l’aveva privata di un’infanzia e di una famiglia, ma lei non lo sapeva. Non ricordava altro che le celle buie, i giorni che si succedevano infiniti l’uno dopo l’altro, le frustate del Carceriere quando non si comportava bene. Ma soprattutto ricordava, e le avrebbe ricordate per sempre, le urla dei prigionieri nel laboratorio."
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le manette stringevano dolorosamente i polsi di Piccarda.
Ogni volta che il Carceriere, per tirarla avanti, dava uno strattone alla catena a cui era legata le scappava un gemito.
Le si erano già formate alcune piaghe dalle quali colavano saltuarie gocce di sangue.
Lacrime bollenti le scivolavano giù per le guance lerce; avrebbe voluto gridare, reazione istintiva per una qualsiasi bambina di sei anni in quel tipo di situazione, ma sapeva di non poterselo permettere: aveva imparato sulla propria pelle ad essere forte.
Erano quattro anni che era rinchiusa in quel luogo che l’aveva privata di un’infanzia e di una famiglia, ma lei non lo sapeva. Non ricordava altro che le celle buie, i giorni che si succedevano infiniti l’uno dopo l’altro, le frustate del Carceriere quando non si comportava bene, come quella volta in cui aveva provato a scappare.
Ma soprattutto ricordava, e le avrebbe ricordate per sempre, le urla dei prigionieri nel laboratorio. Lo stesso laboratorio dove lei, trascinata dal Carceriere, si stava recando adesso.
Aveva paura, inutile negarlo; erano anni cha sapeva che, come per tutti lì dentro, prima o poi sarebbe arrivato il suo turno, ma aveva paura lo stesso. Nessuna delle persone che erano entrate in quel laboratorio ne era mai uscita. O ne era mai uscita viva, perlomeno.
Lì dentro c’era il Dottore.
Come per il Carceriere, Piccarda non aveva mai saputo il suo vero nome; che ricordasse, l’aveva visto solo una volta, una quantità indefinibile di tempo prima, quando aveva visitato le celle. Era un uomo abbastanza alto e terribilmente magro, quasi uno scheletro; era calvo, ma sul viso ossuto cresceva una barbetta ispida e brizzolata. Il Dottore, a differenza del Carceriere, non aveva mai fatto del male a Piccarda, però erano stati il suo sguardo, freddo e calcolatore, e le sue parole, questa è troppo piccola, riferite a lei e rivolte al Carceriere, ad inquietarla. Però era proprio quel suo essere troppo piccola ad averla salvata fino a quel momento: tutti gli altri erano adulti, ed erano stati portati al laboratorio dopo qualche mese di prigionia al massimo, mentre lei, lei era lì da una vita.
Poi però, qualcosa nel modo di lavorare del Dottore era cambiato: per i suoi esperimenti pareva aver bisogno di gente sempre meno anziana. Da vecchi, era passato a giovani donne e uomini, adolescenti, e persino un ragazzo di dodici anni, la settimana prima.
E ora toccava a lei.
Il Dottore doveva aver capito che sui giovani i suoi esperimenti, quali che fossero, funzionavano meglio.
Piccarda avanzava a piccoli passi nel corridoio buio, verso il laboratorio. Era un mistero cosa la aspettasse la dentro. Tra i prigionieri circolava la voce che centrassero spiriti elementari: il dottore era di sicuro un alleato del Diavolo che trafficava con la magia nera. Questi pensieri avevano terrorizzato Piccarda ancora di più.
La porta del laboratorio si avvicinava ad ogni passo cha faceva, e lei aveva iniziato ad agitarsi tanto che il Carceriere aveva dovuto prenderla in braccio e trascinarla di peso verso il suo destino. Poi aveva aperto quella porta che da sempre era parte degli incubi di Piccarda, e la bambina si era ritrovata in un sala piuttosto grande e buia, piena di strumenti dall’aria minacciosa e di pentacoli tracciati sul pavimento. Il Carceriere a quel punto l’aveva adagiata su un lettino e l’aveva legata con delle cinghie, perché lei continuava ad agitarsi.
Poi Piccarda aveva notato il Dottore nell’angolo più buoi della stanza: era al centro di un di quegli strani pentacoli e guardava fisso davanti a sé. Inizialmente Piccarda non capì cosa osservasse così intensamente, mai poi notò nel pentacolo di fronte a quello del Dottore un giovane. Lui era alto e aveva membra sottili e longilinee; il viso era incredibilmente bello e fiero, tanto che non lo si sarebbe potuto prendere per un umano nemmeno se non fosse fatto completamente d’aria. Si, aria: il giovane aveva contorni indistinti che di dissolvevano costantemente in riccioli di vapore, ed era trasparente e luccicante come le ali di una libellula.
Però il ragazzo d’aria pareva disperato ancor più di Piccarda: batteva i pugni di vapore contro un muro invisibile che correva tutto intorno al pentacolo, la bocca aperta in un grido silenzioso, i bei lineamenti del viso deturpati da un’espressione di puro terrore. Ha perso la sua libertà, si disse Piccarda, non può più volare. Chiunque fosse quel giovane, qualunque cosa fosse, era evidente che condivideva il suo stesso destino; e Piccarda, pur nella sua mente di bambina, provò pena per lui.
La sua espressione disperata fu l’ultima cosa che vide: il Carceriere le mise una benda sugli occhi, stringendo forte. Piccarda sentì degli aghi penetrarle la pelle, che la fecero strillare di dolore. Iniziò di nuovo a piangere, prima piano, poi sempre più forte: non voleva morire, non voleva che il giovane d’aria morisse con lei.
Al Dottore, però, questo non importava: Piccarda lo sentì iniziare a cantilenare in una lingua che non conosceva; diceva cose strane, dalla pronuncia spaventosa, che le diedero i brividi. Il mormorare del Dottore si faceva sempre più forte, gli strumenti alle spalle di Piccarda rumoreggiavano forte, e la bambina piangeva terrorizzata.
Poi lo sentì. Improvvisamente, più doloroso di quanto avrebbe mai immaginato, qualcosa penetrarle il petto, dritto al suo cuore, e interrompere il suo pianto in un singulto strozzato.
Era stato strano: l’aveva sentito spingersi a fondo, oltre il livello fisico, diventare parte di lei, parte della sua mente, fondersi con i suoi pensieri, esplorare i suoi ricordi. Poi ne era stata certa: era lui, il giovane d’aria, dentro la sua testa, che si espandeva per tutta la sua coscienza. E Piccarda aveva dimenticato il dolore, la disperazione, si era sentita forte, libera.
Aveva capito troppo tardi che qualcosa non andava: lui non poteva essere rinchiuso nel suo corpo, che non era altri che una prigione di carne. Era… troppo. Troppo forte, troppo libero, perché un corpo umano potesse contenerlo.
E allora aveva realizzato che non sarebbe sopravvissuta. Niente ragionamenti contorti, sarebbero stati impossibili per una bambina della sua età; fu una semplice constatazione dettata dagli eventi. Però, per quanto avesse avuto paura prima, ora si sentiva serena: accettava la situazione con una calma che nessuno, lei stessa per prima, si sarebbe mai potuto aspettare.
E tutto perché c’era lui. Il ragazzo d’aria che per un attimo era stato un tutt’uno con lei, la guidava fuori dal suo corpo, fuori da quel laboratorio maledetto, alla luce di un sole che lei non aveva mia visto.
L’ultime parole che Piccarda sentì furono pronunciate con tono lugubre dal Dottore. Esperimento fallito, disse.
Però la bambina non ci prestò attenzione: non avrebbe più avuto nulla a che fare con quell’uomo. Era libera ora, e il giovane d’aria lo sarebbe stato con lei. E mentre se ne andava, sparendo nella luce, per la prima volta in vita sua si sentì felice.
 
Angolo dell’autrice:
Sì, vabbè, che dire?… tanto per cominciare, qui serve una spiegazione: la bambina della storia, in caso non si fosse capito, sta per essere unita con uno spirito d'aria. In caso ci fossero errori per quanto riguarda il modo in cui vengono creati i simulacri, ditemelo, perché ho letto gens arcana un casino di tempo fa e non mi ricordo nulla! ^-^
Poi… il nome Piccarda è piuttosto assurdo, me ne rendo conto, ma è l’unico che un po’ medioevale che mi sia venuto in mente… XD
Spero che vi piaccia, nonostante i livelli esagerati di disperata tristezza che ci ho inserito dentro ;)
Bacioni,
Lynn

  
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