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Autore: Miss Yuri    13/07/2013    3 recensioni
Idril Seregorn è una ragazza intraprendente, figlia di uno dei più esperti domadraghi del regno di Lìndal. Come tale, vuole seguire le orme del padre. Il suo drago è bianco, colore insolito e raro e il suo nome è Dyurnith. I due credono di conoscersi a vicenda, ma Dyurnith non ha una razza, non ha un passato prima del loro incontro e non ricorda nemmeno il suo vero nome.
Un avvenimento inaspettato, mescolato ad una serie di stranezze avvenute nel corso degli anni precedenti, porteranno Idril e il suo drago a intraprendere un viaggio nelle terre del loro regno di appartenenza. Perchè Dyurnith è anche qualcun altro e non è solo all’interno del suo corpo...
Il tutto mentre le rivalità tra il regno di Lìndal e quello di Oropher diventano sempre più accese, poiché il secondo dominio cerca disperatamente il suo principe, di cui si sono perse le tracce molti anni prima...
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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White and Black Dragon
 

Prologo 


Sentiva freddo. Tanto freddo e il calore stava lentamente scivolando via dal suo corpo, scosso da fremiti involontari e continui. Il plasma color cremisi gli scendeva a fiotti da innumerevoli ferite, tingendogli le scaglie bianche del dorso di un rosso scarlatto. Non riusciva ad alzarsi e a reggersi sulle sue zampe e il terreno sassoso non faceva altro che infettare i tagli aperti sull’addome, sul collo e sul ventre. Sentiva sotto di sé le pietre premere contro la sua pelle di rettile, dure e appuntite.
La testa gli girava e gli doleva incredibilmente, forse per l’eccessiva diminuzione di sangue nel suo organismo.
La sua memoria era completamente vuota e grigia. Come aveva fatto a ridursi in quel modo così pietoso? Non lo ricordava, come non rammentava neanche chi fosse. Il suo nome? Qual’era il suo nome? Buio totale anche lì.
Tentò di aprire gli occhi, ma anche sollevare le palpebre gli costò uno sforzo enorme. Faticava a mettere a fuoco le cose e sentiva che i suoi sensi lo stavano lentamente abbandonando. Tutto ciò che riusciva a distinguere erano solo immagini sfocate e ombre scure e indistinte, probabilmente appartenenti a qualche formazione rocciosa lì vicino.
Il respiro gli si stava smorzando pian piano, ogni minuto che passava. Non avrebbe resistito ancora per molto senza le giuste cure. E chi avrebbe potuto aiutarlo in un luogo così sperduto e desolato? Nessuno, sarebbe morto lì dissanguato, immerso nel dolore più atroce.
Un urletto spaventato lo fece destare, ogni nervo del suo corpo si era teso come una corda di violino. Chi o cosa poteva essere? A giudicare dal timbro della voce, doveva essere un cucciolo o qualcosa di simile.
Mosse la testa appena per riuscire ad avere una visuale maggiore, notando un esserino seminascosto dietro ad una roccia lì vicino. Lo sentiva respirare flebilmente, nonostante tentasse di nascondersi alla sua vista e al suo udito.
Dopo svariati secondi, il cucciolo si sporse leggermente in avanti, sbirciandolo di nascosto con i suoi occhietti vispi. Si decise ad avvicinarsi a lui, ormai certo che fosse completamente innocuo. Neanche volendo, avrebbe potuto fargli del male. Zoppicava leggermente e poteva dedurlo dalla sua andatura barcollante e malferma.
Quando gli fu a meno di un metro di distanza, capì che si trattava di un piccolo essere umano. Era basso e gracile, i lunghi capelli scuri avevano una strana sfumatura tendente al bluastro e gli ricadevano un po’ sulle spalle e davanti al viso, bagnato dalle lacrime. I suoi occhi erano blu cobalto, penetranti e profondi. Indossava una tunica scura che lasciava scoperte le gambe nivee e sottili. Sopra quest’ultima, vi era allacciata una giacca in cuoio, larga e che gli arrivava fin sotto il bacino. Alle mani portava dei guanti marroni e calzava degli stivaletti di pelliccia. All’interno di un fodero a tracolla, era riposta una spada, forse un po’ troppo pesante per lui o per lei da maneggiare. Riusciva chiaramente a distinguere il bagliore dell’elsa che luccicava al sole. Non sapeva se era maschio o femmina. Ma non gli interessava più di tanto.
L’essere umano gli si inginocchiò davanti al muso, senza portare il peso sul piede sinistro. Sembrava che non provasse ribrezzo per il suo corpo mutilato.  Cautamente, gli carezzò la testa cornuta con le piccole mani guantate, come per rassicurarlo che non era lì con cattive intenzioni. Con lentezza, poggiò la fronte delicata sulla sua, chiudendo gli occhi color zaffiro e sorridendo.
Il drago imitò il suo gesto, abbassando le palpebre e rilassandosi. Ogni fibra del suo corpo non stava più urlando dal dolore e ogni sensazione sgradevole spariva, attimo dopo attimo. Era paradisiaco trovare un po’ di sollievo dopo tutte quelle sofferenze.
La stanchezza lo prese lentamente, facendolo assopire e trascinandolo nel mondo dei sogni. Se fosse morto nel sonno, sarebbe stato molto meno doloroso e le braccia della morte lo avrebbero portato via delicatamente, senza fretta o prepotenza.
 
 
Passeggiò cauto per la stanza dell’infermeria, massaggiandosi talvolta la radice del naso e passandosi una mano tra i capelli castani e ribelli. Era nervoso e mille dubbi gli attanagliavano la mente.
Gettò un breve sguardo al drago bianco che sua figlia gli aveva chiesto di soccorrere poche ore prima. Giaceva dormiente su un pagliericcio, apparentemente sereno. Quando lo aveva trovato in quel crepaccio, era ridotto ad uno straccio sanguinante. Non sapeva a chi appartenesse e tanto meno se avesse un cavaliere. Aveva le scaglie bianche e pure, che brillavano argentee se esposte ad una qualsiasi fonte di luce. Il collo e la schiena erano percorsi da placche ossee, appuntite come un pugnale. La testa era sormontata da due corna grigiastre, incurvate leggermente sulla punta. La coda era lunga e uncinata e le quattro zampe di cui disponeva erano armate di artigli grossi e letali. Le ali erano ben sviluppate e presentavano varie creste spinose. Alzandogli leggermente la palpebra, era riuscito a verificare anche il colore degli occhi: erano dello stessa lucentezza metallica dell’argento. Poteva avere intorno ai dieci anni d’età, quindi, era ancora molto molto giovane. Il dilemma era riuscire a identificare a quale razza appartenesse. Un Silinde? No, loro avevano il corpo e il muso più affusolato e le loro ali non erano così sviluppate. Un Galdor? Nemmeno, le loro zampe erano corte e tozze e la coda era molto più corta. Un Ener? Neanche, non presentavano corna sul capo e le loro scaglie erano di colori totalmente diversi. E proseguì così, elencando altre decine di nomi e anche più, ma nessuna combaciava perfettamente. L’unica con cui aveva trovato una corrispondenza soddisfacente, era la razza degli Oroph, i quali governavano la terra che confinava con il regno di Lìndal. Il nome di quel dominio era Oropher ed era abitato dai draghi che appartenevano solo alla razza Oroph, da negromanti dediti alla magia nera e da altre creature dell’ombra e del male. In quel reame oscuro, non esisteva la perfetta armonia che assicurava l’amicizia e la collaborazione tra draghi, umani, elfi, ninfe, silfidi, fate, nani, fenici, grifoni e ogni altra creatura magica e non. Si era diffusa tra il popolo la convinzione che gli Oroph fossero la razza dominante tra i draghi, poiché possedevano capacità fisiche inarrestabili utili in battaglia. I cuccioli venivano catapultati sin dalla nascita nel mondo della guerra e addestrati a diventare delle efficienti macchine distruttive. Il re di Oropher aveva sempre mirato ad espandere i suoi domini su Lìndal e sugli altri regni circostanti e i due reami erano tutt’ora in lotta.
Ma non era sicuro che fosse un Oroph, perché le loro scaglie erano rigorosamente nere e il colore dei loro occhi variava dal rosso al giallo. Non era mai nato un drago, appartenente a quella razza, bianco. Fu costretto a scartare anche quell’ipotesi a causa di queste considerazioni.
«Papà! Posso uscire fuori?»
La voce della figlia interruppe le sue riflessioni, costringendolo a girarsi verso di lei.
«Idril! Torna subito in camera tua! Hai la caviglia slogata e, in questo modo, peggioreresti la situazione!» Le ordinò lui severo, puntando il dito in direzione della porta in legno.
«Ma papà! Io mi annoio in casa, lo sai anche tu!» Protestò la figlia, incrociando le braccia.
Il genitore sospirò, passandosi una mano sulla fronte e andandosi a sedere su una sedia posta vicino ad una scrivania in mogano.
«La prossima volta, allora, non prendere di nascosto il mio equipaggiamento per andarti ad avventurare fuori dai nostri possedimenti. Se non fossi uscito fuori a cercarti, a quest’ora potrebbe esserti accaduto qualcosa di grave.»
La bambina lo ignorò e attraversò l’infermeria, zoppicando sulla gamba destra per non poggiare il peso su quella infortunata.
Il padre tentò nuovamente di convincerla.
«Idril, per favore, riposati. Se la caviglia non ti guarirà entro una settimana, non potrai scegliere il tuo drago.»
La scelta del drago era una tappa importante per ogni bambino che volesse diventare un domadraghi e avveniva all’età di sei anni. Ma non era una cosa semplice. Entrambi dovevano scegliersi reciprocamente mediante un processo che aveva origini lontane e sconosciute, mistiche e speciali. Non aveva nome, ma era conosciuto da tutti e consisteva nell’unire la propria fronte all’unisono con quella del drago. Se ogni tua emozione, sensazione o pensiero veniva annullato, significava che avevi compiuto la scelta giusta ed eri stato ricambiato.
Idril proseguì la sua lenta avanzata, sdraiandosi vicino al rettile bianco deposto sul giaciglio.
«Ti sbagli, papà. Io ho già scelto il mio drago e lui ha scelto me.» Dichiarò, sorridendo serena.
Il padre, improvvisamente, capì. Rimase leggermente spiazzato davanti a tale risposta. Sua figlia aveva scelto proprio il drago dalla razza sconosciuta che lo aveva messo in ansia per tutte quelle ore. Ormai era fatta e non poteva contraddire le scelte della sua bambina. Significava compromettere la sua felicità. Il legame con il tuo primo drago è per sempre e rimane saldo per tutta la vita.
Ricambiò il sorriso dopo qualche secondo. In fondo, non c’era assolutamente nulla di cui preoccuparsi.
«Dovresti dargli un nome. Appena si sarà svegliato, lo deciderete insieme.» Le consigliò il genitore, poggiandole una mano sulla spalla.
«Lo abbiamo già deciso.» Replicò lei, avvicinando la testa a quella del rettile.
«E quale sarebbe?» Si incuriosì lui, osservando la figlia.
Idril poggiò nuovamente la fronte a quella del drago, accarezzandogli il collo con la manina.
«Dyurnith.»


Ciao!
Grazie per aver aperto questa pagina e per essere arrivati fin qui.
In questo fandom io sono, come dire, una novellina e quindi accetterò consigli o critiche da chi è più esperto di me.
Ditemi se vale la pena di continuarla oppure di buttarla nel cestino.
Più avanti ci potrebbe essere un cambiamento di rating, ma non andrò oltre l'arancione.
Recensite e recensite per farmi sapere la vostra opinione!
Bacioni!


 

  
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