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Autore: VahalaSly    14/07/2013    1 recensioni
Non posso, non posso.” aveva sussurrato tra le lacrime, una mano sullo stomaco quasi a reggere un peso invisibile che cercava di trascinarla a terra.
Lui le si era avvicinato, devastato, impaurito. Non capiva. Andava tutto così bene. Perché piangeva?
Janette ti prego, ti prego guardami.” l'aveva supplicata, la voce rotta.
Lei aveva scosso la testa, rifiutandosi di alzare lo sguardo “Non posso.” aveva ripetuto, voltandosi per andarsene. Lui le aveva afferrato delicatamente il polso, ma aveva subito lasciato la presa non appena l'aveva sentita sobbalzare spaventata, rilasciando un lieve singhiozzo.
Lei aveva paura. Aveva paura di lui. E lui non aveva potuto fare niente mentre lei si allontanava se non accasciarsi a terra, il petto squarciato da un'enorme ferita che solo lei, lei che ne era la causa, avrebbe potuto curare.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Adam si sistemò nuovamente la cravatta, lo sguardo fisso sul suo riflesso allo specchio. Non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato in quel maledetto pezzo di stoffa, che non sembrava proprio voler stare al suo posto ma continuava ad allentarsi e spostarsi di lato.

“Ohh, al diavolo!” sbottò lui alla fine, togliendosela con uno strattone. Cravatta o no, che importanza aveva? Quell'incontro sarebbe stato un disastro comunque, ne era sicuro.

Da quando la sua agenzia aveva deciso di nominarlo vice-direttore della filiale della sua città, la sua vita aveva subito una svolta decisamente positiva: casa migliore, stipendio migliore, lavoro migliore. Eppure... eppure non lo sapeva nemmeno lui.

Era sicuro però che quelle stramaledette riunioni mensili non facessero parte della parte positiva. Ogni volta si doveva presentare lì, fingendo di essere qualcuno che non era: un uomo d'affari sicuro di sé, elegante, pienamente consapevole di ogni sua scelta. La cosa peggiore era che la gente sembrava pure crederci, in qualche assurdo modo.

“Guardati, sembri un pagliaccio.” disse al suo riflesso, sospirando demoralizzato.

Lanciò uno sguardo all'orologio, sussultando piano quando si accorse che erano già le nove. Afferrò veloce la giacca dalla sedia e stava per precipitarsi fuori, quando vide il suo cellulare privato sul comodino. Erano cinque giorni che non suonava più – non una chiamata, non un messaggio – ma lui ancora non ci aveva rinunciato, non ancora.

Quando si chiuse la porta alle spalle, il telefono era al sicuro nella tasca dei suoi pantaloni.

 

L'incontro andava avanti da ormai due ore, i soliti vecchi soci che sembravano avere un'infinità di argomenti di cui parlare.

Adam non riusciva a seguire la metà dei discorsi che facevano e, quando ci riusciva, raramente aveva un'opinione in merito, colpa probabilmente anche della sua poca voglia di mettersi a litigare con tutti i presenti nella sala.

Senza che potesse evitarlo, si ritrovò a controllare per la decima volta il telefono, quasi sperando di non essersi accorto che aveva suonato. Era da giorni che andava avanti così, ma non poteva farne a meno, non da quando lei aveva deciso di sparire, lasciandolo nella più completa disperazione.

Non posso, non posso.” aveva sussurrato tra le lacrime, una mano sullo stomaco quasi a reggere un peso invisibile che cercava di trascinarla a terra.

Lui le si era avvicinato, devastato, impaurito. Non capiva. Andava tutto così bene. Perché piangeva?

Janette ti prego, ti prego guardami.” l'aveva supplicata, la voce rotta.

Lei aveva scosso la testa, rifiutandosi di alzare lo sguardo “Non posso.” aveva ripetuto, voltandosi per andarsene. Lui le aveva afferrato delicatamente il polso, ma aveva subito lasciato la presa non appena l'aveva sentita sobbalzare spaventata, rilasciando un lieve singhiozzo.

Lei aveva paura. Aveva paura di lui. E lui non aveva potuto fare niente mentre lei si allontanava se non accasciarsi a terra, il petto squarciato da un'enorme ferita che solo lei, lei che ne era la causa, avrebbe potuto curare.

“Mr Green, è ancora con noi?” lo richiamò una voce, riportandolo al presente.

Adam si riscosse, sorridendo garbato “Ma certo, scusatemi, stavo solo riflettendo su quanto detto da il signor Rons.” mentì, cominciando poi a ricamare sulle poche parole che ricordava aver sentito utilizzare da quest'ultimo. Era piuttosto sicuro si parlasse dei tassi di interesse, perciò si dilungò su di essi, utilizzando come al solito la sua ottima parlantina e godendosi le espressioni concentrate dei presenti, che sembravano non aver ascoltato un discorso più interessante in vita loro.

In quel momento lo sentì, sentì il suono che aveva sperato di udire per giorni. Si affrettò a tirare fuori il telefono dalla tasca e quasi si sentì scoppiare quando vide il suo familiare numero sullo schermo.

Si alzò di scatto, guadagnandosi una serie di occhiate perplesse “Chiedo scusa, è importante” spiegò, lasciandogli pure credere che si trattasse di chissà quale telefonata di lavoro.

Senza aspettare una risposta si allontanò dalla sala e si rifugiò nel corridoio deserto, rispondendo finalmente al telefono.

Adam” sussurrò quella voce così familiare. Lui si posò con le spalle al muro, espirando rumorosamente “Janette.” rispose semplicemente, incapace di dire altro.

Seguì un lungo silenzio, quasi nessuno dei due avesse davvero bisogno di parlare ma solo di ascoltare il lento respiro dell'altro.

Quando era diventato così dipendente da lei? Come aveva potuto permetterglielo?

Adam, perdonami.” sussurrò infine lei, singhiozzando piano. Lui sentì il bisogno di tenerla tra le sue braccia, di sentire di nuovo il familiare profumo di shampoo all'arancia dei suoi capelli. Avrebbe voluto dirle che gli mancava, gli mancava come può mancare la vista ad un pittore, come può mancare l'acqua ad una pianta.

“Shhh, va tutto bene” si limitò invece a dire, impedendo a stento alla sua voce di tremare.

La sentì piangere fievolmente dall'altra parte del telefono, una mano che tentava di coprire i singhiozzi. “Non volevo che mi sentissi piangere. Perdonami.

“Dove sei, Janette?” le chiese, incapace di trattenersi. Doveva vederla. Doveva accertarsi che stesse bene.

Io... sono nella nostra stanza.” rispose lei, facendolo sorridere. La loro stanza. Era così che chiamavano la 221^ camera del loro hotel preferito, che fortunatamente si trovava a pochi chilometri da lì.

Ma ti prego, non venire. Non rendere le cose più difficili.” bisbigliò lei in un filo di voce.

Lui si sentì gelare e una morsa d'acciaio gli si attanagliò allo stomaco, rendendogli difficile perfino respirare “Cosa... cosa vuoi dire?”

Ti ho chiamato per dirti addio, Adam.

A quelle parole, Adam avrebbe giurato che il suo intero corpo si spezzò. Era divertente come tutti asserissero che le delusioni amorose ti spezzassero il cuore, quando invece lui si sentiva come se gli si fossero appena frantumati l'anima, il fisico, la mente.

“No...” disse in un sussurro a malapena udibile.

Ti prego, perdonami” ripeté lei per l'ennesima volta, poi attaccò.

Adam non riusciva a muoversi, era incapace perfino di emettere un respiro, come se temesse che se avesse compiuto anche un solo gesto il tempo avrebbe ripreso a scorrere e quello che era appena accaduto sarebbe diventato reale.

Poi, improvvisamente, si raddrizzò e afferrò le chiavi della macchina. Sapeva che lei gli aveva detto di non andare a cercarla, ma lui non poteva. Aveva bisogno di vederla, di sentirle pronunciare quelle parole guardandola negli occhi, per poter davvero credere che lei... che loro...

In meno di dieci minuti era arrivato all'hotel. Si precipitò all'interno, lanciandosi verso le scale e salendole due a due, ignorando i commenti furibondi delle persone che scostava malamente per passare.

Poi, quando finalmente si trovò davanti alla camera 221, si bloccò. Cosa aveva intenzione di fare? Bussare supplicandola di aprirgli? Si era davvero ridotto così?

Improvvisamente, un tonfo.

Adam lo sentì chiaramente e proveniva proprio dall'interno della camera.

“Janette?” chiamò preoccupato, il cuore che gli martellava in petto.

Un mugolio in risposta, poi un gemito di dolore. “Janette!” gridò lui, tempestando di pugni la porta.

“Janette, apri!”

“Signore, ha bisogno di aiuto?” gli domandò un giovane inserviente piuttosto spaventato dal suo comportamento, che sembrava pronto a chiamare la sicurezza da un momento all'altro.

“Sì, sì! La mia ragazza è qui dentro, credo si sia sentita male.” gli spiegò Adam che quasi non era più in sé dalla paura. “Janette!” chiamò nuovamente, sempre più terrorizzato.

Il ragazzo sembrò percepire il suo panico, perché subito si apprestò ad avvicinarsi alla porta, bussando piano “Signorina, sono Paul, lavoro nell'hotel. Si sente bene?” domandò. Adam avrebbe voluto strozzarlo. Perché non si decideva ad aprire la maledetta porta?

Dall'altra parte non giungeva altro che un inquietante silenzio.

Paul tirò fuori una chiave magnetica dalla tasca e si apprestò a infilarla nell'apertura “Stiamo entrando” annunciò.

Non appena la porta fu aperta, Adam si precipitò all'interno e quasi crollò a terra quando vide Janette riversa sul pavimento, circondata da una pozza di sangue.

“Mio Dio, Janette!” esclamò, accasciandosi accanto a lei. Le osservò i polsi ricoperti di cicatrici che ora presentavano due profonde ferite fresche, le quali sanguinavano pesantemente.

Paul da parte sua pareva immobilizzato, fermo a fissare il sangue che sembrava aumentare ogni secondo.

“Cosa hai fatto, amore mio, cosa hai fatto?” chiese Adam in una specie di cantilena, stringendo Janette fra le braccia “Resisti, ti prego. Ti prego.”

Paul sembrò finalmente riscuotersi e prese un asciugamano dal bagno, porgendolo all'altro uomo che si affrettò a usarlo per fermare l'emorragia “Vado a chiamare un ambulanza.” lo avvertì poi, la voce tremante, il volto mortalmente pallido.

Adam non sembrò nemmeno sentirlo, ma continuò a stringere lei, la sua unica ragione di vita.

“Non morire, non morire.” la implorò, le lacrime che gli solcavano il volto.

Lei a quelle parole aprì piano gli occhi, sorridendo debolmente quando lo vide “Ti avevo detto di non venire”

Lui sorrise a sua volta, lasciandosi scappare un singhiozzo “Quando mai ho fatto quello che mi hai chiesto?” la guardò dritta negli occhi, felice come non mai di vederli “Perché lo hai fatto, Janette?”

Lei abbassò lo sguardo, l'espressione piena di vergogna “Non odiarmi.” disse semplicemente.

“Non potrei mai odiarti. Io ti amo. Ti amo più della mia stessa vita, perciò ora, fallo per me. Resisti, d'accordo?”

Lei annuì piano, nuove lacrime che le scendevano lungo le guance. Quanto aveva pianto negli ultimi mesi? Non lo sapeva più nemmeno lei. Sembrava non riuscisse a fare altro. Vedeva tutto così nero, così orribile, come se non vi fosse più niente per cui essere felici.

L'unica cosa che le portava un po' di gioia era lui, Adam. Era sempre stato capace di strapparle un sorriso, anche quando lei pensava che niente avrebbe più potuto farlo.

Tuttavia, andando avanti, si era resa conto di come la sua presenza, invece, lo rendesse triste; era come se lei fosse circondata da un'enorme cappa di incubi e dolore e chiunque ne venisse a contatto ne fosse lentamente risucchiato. Aveva cercato di negare l'evidenza, ma alla fine aveva dovuto ammettere che lo stava intossicando, rendendolo sempre più cupo e infelice. Così, se ne era andata.

Una settimana. Ecco quanto era durata senza di lui. Poi, aveva ceduto nuovamente all'inebriante dolore che le provocava la piccola lametta che teneva ben nascosta nella tasca del suo beauty-case. Questa volta però non aveva intenzione di alzarsi di nuovo. Voleva semplicemente dormire, dormire e non svegliarsi più, lasciandosi dietro tutto il nero.

Ora però Adam era di nuovo lì e lei non riusciva a accettare il pensiero di lasciarlo di nuovo. Aveva bisogno di lui, ne aveva bisogno come l'aria.

“Ti amo.” gli sussurrò frenetica, sentendosi sempre più debole. Ora aveva paura. Non voleva morire. Non più.

“Adam, non lasciarmi andare.” lo implorò, al che lui la strinse ancora più forte e le baciò i capelli.

“Non ti lascerò andare. Mai.”

“Me lo prometti?”

“Sì, te lo prometto”

E Janette, finalmente tranquilla, chiuse gli occhi.

  
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