Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: suni    27/01/2008    15 recensioni
Insomma, Ronald Weasley era un ragazzo che aveva formulato più tipi di ipotesi, anche variegate, per il proprio futuro. Ma nessuna, nemmeno la più strana, di tutte quelle immagini proiettate nel domani aveva previsto la realtà. In nessuno dei suoi futuri ideali Ron s’era mai immaginato come comproprietario e cogestore di un negozio di scherzi. Perché quello…
Quello non era il suo posto. Semplicemente.
(Spoiler 7° libro)
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Famiglia Weasley, George Weasley, Harry Potter, Hermione Granger
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ambitions

Ebbene!

Novità novità. Eccomi qui a confrontarmi per la prima volta con la nuova generazione. Mi scuso anticipatamente per ogni eventuale errore che commetterò e per tutte le imprecisioni e gli atteggiamenti OOC da me descritti che dovessero mai sfuggire alla mia abilissima beta e solita amica che ringrazio come sempre di cuore.

Non fraintendete, non ho affatto abbandonato i miei Marauders, tutt’altro. Ma sentivo di dovere qualcosa a due personaggi che ho molto amato della saga, in effetti gli unici due che veramente ami delle nuove leve.

I gemelli Weasley somigliano un po’ ai Marauders, forse per questo mi sono tanto cari. Sono due bellissimi personaggi. Ogni tanto ripenso alla parte d’inizio del terzo libro, quando si trovavano con Harry e cominciavano a sfottere Percy (Abbiamo cercato di chiuderlo in una piramide, ma la mamma ci ha scoperti). E’ una pagina deliziosa e mi fa davvero ridere.

Per cui, mi sembrava doveroso dedicare loro qualcosa, vista l’infelice scelta di JK nel settimo libro.

Ditemi voi se è accettabile e interessante.

Buona lettura

suni

 

 

 

Ambitions

 

 

 

Ron

 

Ronald Weasley era stato un bambino assolutamente normale. Con un sacco di fratelli maggiori e una famiglia caotica, povera ma tutto sommato abbastanza felice, aveva trascorso un’infanzia agitata ma serena, e s’era dedicato a tantissimi giochi e a un’infinità di passatempi assurdi, a volte rischiosi, comunque entusiasmanti. Nei divertimenti che escogitavano tra fratelli sbrigliava la fantasia ed insieme a Fred, George e qualche volta Percy inventava mondi sfavillanti.

Come tutti i bambini – be’, i bambini di una certa fazione – si era immaginato Auror, avventuriero, domatore di creature letali, guerriero, eroe.

Poi aveva iniziato la scuola e, tra una cosa e l’altra, aveva smesso di essere un bambino normale. Si era trovato, per un’imperscrutabile serie di avvenimenti, nel centro di un ciclone di proporzioni straordinarie. Aveva combattuto in prima linea, affrontato pericoli di ogni sorta e a conti fatti lo si poteva considerare veramente un eroe, a nemmeno vent’anni. E durante quella lotta, durante quegli anni di scontri ma anche di scuola, aveva pensato anche al futuro, s’era dato dei vaghi obiettivi, delle aspirazioni. L’idea di dedicarsi alla carriera di Auror gli era tornata alla mente in più occasioni e con tinte sempre più precise, sebbene si scontrasse con l’evidenza di non essere tagliato per quel mestiere. S’era immaginato anche come Indicibile, cacciatore di mostri, s’era immaginato persino in determinati ruoli ministeriali, come nelle relazioni internazionali.

Insomma, Ronald Weasley era un ragazzo che aveva formulato più tipi di ipotesi, anche variegate, per il proprio futuro. Ma nessuna, nemmeno la più strana, di tutte quelle immagini proiettate nel domani aveva previsto la realtà. In nessuno dei suoi futuri ideali Ron s’era mai immaginato come comproprietario e cogestore di un negozio di scherzi. Perché quello…

Quello non era il suo posto. Semplicemente.

Lo sapeva dal principio, lo sentiva ogni giorno dentro di sé, lo percepiva sulla pelle e nelle dita e lo leggeva in qualunque istante negli occhi vitrei del fratello.

Eppure era così che era andata. Ron Weasley, combattente e braccio destro del salvatore del mondo magico, fido sostegno del grande Harry Potter, stava dietro il banco del negozio “Tiri Vispi Weasley” in piena Diagon Alley. E gli andava bene così, perché in fondo non c’erano altre opzioni da poter scegliere e quella era stata semplicemente una strada segnata, l’unica percorribile.

No, niente di tutto questo era mai rientrato nelle sue ambizioni, ma non era molto importante, non aveva avuto scelta; perchè adesso George perlomeno aveva una vita quasi regolare, dopo un anno e mezzo e tutta la fatica che avevano fatto per rimetterlo in piedi, come diceva la loro madre. Ma Ron si ricordava bene quei primi mesi dopo il fatto, aveva incise nella mente le memorie di quelle settimane di agonia, dell’orrore suscitato dallo strazio negli occhi allucinati del suo fratello dimezzato.

Ci si erano dovuti mettere in cinque per tirarlo via dal cadavere. George aveva le dita conficcate nella carne del gemello e ci si teneva aggrappato come se per staccarlo fosse stato necessario tagliarlo via, nemmeno le sue mani e il braccio di Fred fossero state parti di un corpo unito cui dover amputare una parte.  Ron se lo ricordava, non avrebbe mai potuto dimenticarlo; e ancor meno avrebbe potuto rimuovere il ricordo dell’urlo, un suono che lo perseguitava ancora nelle notti in cui le cose sembravano sprofondare. La voce di George che si elevava ad esprimere un supplizio indescrivibile, che squarciava l’aria come un’esplosione e raggelava il sangue. Un grido che sapeva di morte, agghiacciante al punto che s’era ritrovato a tapparsi quasi le orecchie. Basta! Basta! Smettila, smettila, Merlino, sta’ zitto! 

Aveva sentito il proprio corpo tremare e pregato che smettesse, che la finisse di urlare in quel modo che faceva male. Aveva avuto paura, tutti loro l’avevano avuta, investiti da un terrore inspiegabile e immotivato che veniva sprigionato da quella voce spezzata dalla disperazione. Non era un urlo umano, era oltre.

Sua madre ormai era più calma, perché George aveva ripreso a mangiare abbastanza spesso: per lo meno capitava raramente che facesse meno di un pasto al giorno; inoltre era contenta perché lavorava di nuovo, ed in effetti passava al negozio almeno un paio d’ore al giorno più volte alla settimana, e perché aveva ripreso a parlare alla gente. Ripeteva, appunto, di stare riuscendo a rimettere in piedi George.

Ron su questo non si faceva grandi illusioni: in assoluto, era quello che passava più tempo col gemello sopravvissuto e riteneva, pur essendo un osservatore poco acuto, di saperne qualcosa di più della madre, in merito.

E comunque, per stare in piedi occorrevano due gambe, e a George…a George ne era rimasta una sola; non c’era altro da dire in merito. Molly viveva nell’illusione che prima o poi, col tempo, suo figlio sarebbe tornato quasi quello di prima, ma Ron sapeva perfettamente che George non sarebbe stato mai più nemmeno lontanamente quello di prima. George Weasley, quello che conoscevano loro, non c’era più, per quanto fosse banale: se n’era andato quel giorno al castello, insieme all’altra metà. Questo George era un’altra persona, una persona che partiva mutilata nel costruirsi e che apparteneva a un’altra categoria, una persona che non aveva un fratello gemello. Era diverso, tutto lì. Non poteva tornare ad essere lo stesso perché non era più lo stesso.

Ma la mamma non riusciva ad accettare che uno dei suoi cuccioli avrebbe sofferto per tutta la vita. Per questo, come George stesso lo aveva pregato di fare, Ron affermava di trovarlo in forma ogni volta che Molly gli chiedeva di lui, e poi sosteneva che si stesse riprendendo; e forse era davvero così, ma non nel modo in cui se lo aspettava la mamma. Forse sì, si stava riprendendo, ma per quanto potesse riprendersi qualcuno nella sua situazione, ed era questo che lei non voleva capire.

“Ciao.”

Ron sollevò la testa di scatto dal libro dei conti, sorridendo meccanicamente verso il retrobottega.

“Ciao,” salutò, allegro. “Sei venuto ad aiutarmi a chiudere?” aggiunse, riponendo il libretto.

George gli fece spallucce, storcendo il naso. Ron lo vide sbuffare leggermente, quindi passarsi le dita tra i capelli per ravviarseli invano, perchè il posto vuoto lasciato dall’orecchio mancante impediva quel gesto istintivo. Lo faceva quando era nervoso.

Be’?” borbottò Ron, perplesso.

George sbuffò di nuovo; sbuffava un sacco, del resto.

“Non ho voglia di prepararmi cena,” ammise a voce bassa, rimettendo a posto con cura eccessiva gli articoli allineati sullo scaffale al suo fianco.

“Hermione sarà felice di aggiungere un posto a tavola,” replicò Ron con una formula ormai meccanica. Ho fame ma non ho voglia di cucinare mezza cena, la cena per uno, questo intendeva George. Conosceva il linguaggio del fratello. Era il suo socio, no?

“Non è il caso,” replicò George sistemandosi addosso il mantello.

“Guarda che a noi non cambia niente,” aggiunse Ron, iniziando a mettere via i soldi contati recuperati dalla cassa.

“Non posso venire sempre a cena a casa tua,” ribatté l’altro serio, mostrandosi più restio del solito: a quel punto, normalmente, accettava con una scrollata di spalle.

Ron aggrottò la fronte, con un moto di stanchezza: Merlino, certo che poteva, non erano estranei o lontani conoscenti, e poi l’altro sapeva benissimo che non gli dispiaceva affatto. Preferiva di gran lunga averlo come elemento di disturbo nella sua intima vita coniugale che saperlo solo a casa a guardare il vuoto.

“Sì che puoi,” rispose quasi risentito, molto più seccamente di quanto fosse sua intenzione. “Sono tuo fratello,” aggiunse, chiudendo il cassetto.

“Questo non c’entra,” osservò George voltando la testa di scatto, muovendo istintivamente una gamba in avanti.

“Non c’entra con cosa?” ribatté Ron, appoggiandosi al bancone.

George si accigliò e abbassò lo sguardo, rabbuiato.

“Con niente. Torno di sopra,” rispose, facendo per voltarsi.

Ron si morse la lingua, irritandosi per la scostanza dimostrata.

“Aspetta,” esclamò, allungando un braccio e posandolo sul suo. “Sono stanco, ieri sera sono andato con Gin da Harry e ho bevuto un bicchiere di troppo,” si giustificò, arrossendo leggermente. “Ho voglia di andarmene a casa e rilassarmi davanti al camino, e sarei contento se venissi con me,” aggiunse, più fermo.

George annuì, mordicchiandosi le labbra. Poi nascose il viso, girando di scatto la testa, ma nel tremolio delle sue labbra Ron scorse il segno che qualcosa non andava e si maledisse per non averlo compreso subito, disattento com’era. Guardò il fratello allontanarsi nervosamente di un paio di passi e poi far scorrere tutt’e due le mani nei capelli, tirandoseli quasi.

“George?” mormorò, inquieto.

“Ho trovato…” iniziò il fratello continuando a dargli le spalle, ma la voce gli si ruppe. “Ho ritrovato delle cose stamattina, in una scatola, delle scemenze di scuola.

La voce gli s’era fatta piatta e vacua e Ron poteva indovinare, anche senza vederlo, il vuoto nero del suo sguardo. Tacque per qualche secondo, impotente. Preferì non chiedere quali fossero le cose in questione: probabilmente George non le aveva nominate perché farlo le avrebbe rese ancora più reali, più presenti.

“Ti va di mangiare fuori?” domandò, incerto.

George fece un lungo inspiro.

“Hermione non…” iniziò, esitante.

“Piantala,” lo interruppe Ron, scuotendo la testa. “Hermione non è stupida,” aggiunse, oggettivo.

George sospirò e finalmente si voltò indietro.

Aveva un viso che feriva: tirato e bianco, fremente. Ma compose in qualche maniera un sorriso per cui Ron gli fu riconoscente, perché allentò un pochino la morsa che gli stringeva i polmoni.

“Allora sì, mi andrebbe,” disse poi, annuendo.

Ron sospirò di sollievo.

“Dove?” chiese, gentilmente.

George scrollò le spalle con indifferenza, riacquistando poco a poco l’espressione assorta e distante che gli era diventata propria.

“Dove ti pare,” rispose, noncurante.

Lo portò a mangiare al Paiolo, in mezzo al chiasso e al movimento, e chiacchierò per tutta la cena, continuando a raccontare qualunque cosa gli passasse per la testa, ché tanto sapeva che suo fratello maggiore non aveva molto da dire. Continuò a conversare anche dopo, quando finirono di mangiare e ordinarono un’altra bottiglia.

Stava di nuovo bevendo troppo; anche molto più della sera prima, e George continuava a svuotare bicchieri come se avessero contenuto acqua fresca, ma tanto lui sapeva di non potere altro che lasciarlo fare, non sarebbe comunque riuscito a fermarlo. Lui parlava, e gli stava bene che George stesse almeno ascoltando quel che diceva: spesso non stava nemmeno a sentire quando la gente gli si rivolgeva, e fino a qualche mese prima la cosa era davvero preoccupante, ma pian piano ricominciava a interagire con l’esterno, anche se in modo deludente.

“…E allora il bambino ha detto: no, non è abbastanza esplosivo,” continuò ridacchiando, riferendo uno degli episodi più strani intercorsi con i clienti in assenza del fratello maggiore, “e io ho detto che invece lo è eccome, e lui no, allora gli ho detto di provarlo,” continuò, infervorandosi. “Certe volte la gente al negozio è insopportabile. E comunque allora lui… George?”

L’altro aveva lasciato cadere la testa sugli avambracci d’improvviso, chiudendo gli occhi. Fu un gesto tanto brusco che Ron quasi sussultò di spavento.

Mmh?” fu il suono che gli giunse, soffocato contro il tavolo.

“Ehm…ci sei?” chiese, titubante.

George sollevò la testa con un sospiro.

“Sì,” rispose serio, prima di sbuffare sonoramente e raddrizzarsi in modo sconnesso. “E’ solo che… Ron, questo lavoro ti fa schifo, tu non sopporti di dover stare dietro alla gente e non hai pazienza…” iniziò contrito.

“A me piace lavorare al negozio!” protestò lui vivamente, interrompendolo con fin troppa convinzione. “Mi diverte, mi…” continuò, pensando freneticamente a qualcosa di intelligente da dire per avvalorare quanto asserito.

“Voglio vendere,” lo arrestò George, versandosi altro vino.

Ron rimase a bocca spalancata, gli occhi sgranati dalla sorpresa.

C-cosa?” balbettò, senza fiato, un po’ rallentato dall’alcol.

George annuì fermamente, con la tipica enfasi da ubriaco, prima di fare spallucce.

“Voglio vendere i Tiri Vispi,” ripeté, per poi bere un gran sorso.

“Ma gli affari vanno benissimo,” protestò Ron, ancora spiazzato. Qualcosa gli stringeva lo stomaco e gli faceva quasi digrignare i denti, d’improvviso.

George sospirò con una smorfia ironica.

“Non è questo il punto,” affermò, tamburellando le dita sul tavolo e bevendo di nuovo. “Dai, Ron,” aggiunse esasperato, posando il bicchiere con mano malferma.

Lui chinò lo sguardo, deglutendo a fatica.

“Ma dopo tanta fatica…” mormorò, amaro. “Era il vostro sogno,” aggiunse in un soffio.

“Sì, il nostro sogno,” ribatté George, abbandonando la mano sul tavolo con un gesto disarmonico. “Non il mio,” precisò sottovoce, abbassando lo sguardo sul tavolo. “E nemmeno il tuo, Ron, diciamocelo. Non ricordo di averti mai sentito dire da grande voglio fare il negoziante, o sbaglio?” continuò, gesticolando nervosamente.

Ron si morse le labbra, cupo.

“No, ma a me va bene lo stesso. E’ ok, mi sta più che bene questo lavoro. Mi sono proposto io, ricordi?” aggiunse, con una punta di sarcasmo.

“Avevo perso quindici chili e quasi non dormivo la notte da più di quattro mesi,” osservò George con sufficienza.

“Sedici,” mormorò Ron a testa bassa. “Ma non c’entra,” continuò, caparbio.

“Dai, Ron, e tutte quelle storie sul voler fare l’Auror e…” iniziò George, grattandosi la testa. Pensare, al momento, sembrava risultargli faticoso, e del resto era normale, con quel che aveva bevuto.

“Sono troppo vecchio, e poi non sono tagliato per quello,” obiettò Ron, troncandogli le parole.

“E Indicibile, allora? Anche quello ti interessava,” continuò il fratello, sventolando una mano. Ron scosse il capo, fermo.

“Non sono abbastanza svelto di mente e decisamente poco riservato,” obiettò, con slancio.

“Al Ministero, allora, come quando parlavi di…”

“Mi ci vedi, tu, in politica?” lo contraddisse Ron, ironico.

George sbuffò, grattandosi la fronte.

“Oh, per Godric!” sbottò con accenti disperati. “Ce le hai ben le tue ambizioni, no?” esclamò con enfasi. “Insomma, non vuoi niente, tu?” aggiunse, scettico.

Ron fece una smorfia, allargando un po’ le braccia.

“Voglio mettere su famiglia, essere un padre e avere dei figli da veder crescere,” affermò sicuro. “Il che non esclude il negozio,” aggiunse piccato.

George tacque, pensoso.

“Bello,” commentò piano.

“Perché, invece tu cosa vuoi fare, scusa?” continuò Ron con una certa apprensione.

George chinò lo sguardo, assorto. Le labbra gli si piegarono involontariamente verso il basso, mentre il viso si svuotava d’espressione.

“Io…niente,” borbottò, distante.

Rimasero per qualche istante in silenzio, ciascuno perso nel fissare un diverso punto del tavolo. Infine, non sopportando più quella cupa lontananza, Ron si alzò in piedi, sbuffando.

“E’ tardi, dai, ne parliamo domani,” mormorò, sbrigativo.

George annuì, alzandosi mollemente. Lo seguì alla cassa mentre pagava e poi all’esterno, nella via fredda e buia, senza più parlare né dare alcun segno di essere presente. Fuori Ron si strinse nel mantello, accennando un sorriso.

“Ti accompagno a casa?” chiese, indeciso.

George scrollò la testa. Poi prese un lungo respiro, e il fratello lo guardò con aspettativa.

“Sai di cosa ho voglia, io?” chiese, fissando i propri piedi.

Ron deglutì a fatica, mentre il cuore gli accelerava in petto.

“Di cosa?” sussurrò, stringendo i pugni.

George aprì la bocca per rispondere, ma dovette ripensarci e la richiuse scuotendo la testa, prima di allontanarsi leggermente.

“Niente. A domani,” salutò, atono.

“George?” lo trattenne Ron, con voce un po’ acuta. “Di cosa hai voglia, dai, dimmelo,” insistette, controllandosi.

L’altro sbuffò, senza guardarlo.

“Di andare,” mormorò con voce soffocata.

Le unghie di Ron si conficcarono nel palmo, tanto spasmodicamente serrava i pugni, ma trovò comunque il modo di parlare.

“Andare dove?”

George chinò la testa, mentre il viso gli si distorceva e gli occhi diventavano lucidi. Inspirò, tirando su col naso.

“Voglio andare anch’io,” balbettò, con voce rotta.

Ron chiuse gli occhi, mentre George si copriva il viso con le mani. Strinse forte le palpebre e cercò di respirare, ma non era facile, perché Fred, per Godric, questa volta l’aveva fatta davvero grossa, e lui non sapeva cosa fare.

Cazzate,” ringhiò, con rabbia improvvisa. “Stai dicendo cazzate. Sei ubriaco e devi andartene a dormire, e ti accompagno io.

E non volle sentire ragioni, non se ne andò finché non lo vide a letto. Soltanto a quel punto, finalmente, quando l’altro stava per addormentarsi intontito dall’alcol, si smaterializzò a casa.

Era tutto spento, ed Hermione probabilmente stava già dormendo. Non sapeva se dispiacersi o esserne sollevato, perché non era dell’umore di parlare. Si sentiva solo vuoto, stanco e amareggiato, e quella stretta intorno al suo stomaco era sempre più violenta e dolorosa. Si sedette sul divano, cercando di dominarla, ma rimaneva lì, una catena di dolore e impotenza che lo soffocava. E scoppiò in singhiozzi, lì seduto, senza nemmeno muoversi o sorreggersi il viso; cominciò solo a piangere forte e lasciarsi scuotere dai singulti, perché era semplicemente troppo da sopportare.

Mio fratello ha voglia di morire.

 

   
 
Leggi le 15 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: suni