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Autore: ____Faxas    16/07/2013    2 recensioni
Lo sparo esplose come un fulmine a ciel sereno, e il proiettile giunse dritto in mezzo al petto del ragazzo, in direzione del cuore, perforando un polmone.
Calò un silenzio di tomba, squarciato da un urlo straziante di dolore.
Il cielo si incupì, e la pioggia cominciò a cadere piano.

[Death!Fic; Clack;]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Cloud Strife, Zack Fair
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
- Questa storia fa parte della serie 'Nostalgia e altre storie'
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Nota dell'autrice: Finalmente questo parto è terminato e questa fanfiction è finalmente online. Che liberazione! 
Tornando a noi... Buonsalve, miei carissimi (e ignari) lettori, se siete qui a leggere questa mia fanfiction vuol dire che oggi vi sentite particolarmente masochisti e in vena di piangere; vi comprendo, mi sono sentita io così mentre la scrivevo, in particolare le due parti in corsivo (alla seconda sono scoppiata a piangere perché stavo ascoltando "Winter Sleep", e non è stata una cosa carina). Ma tralasciando ciò, vi vorrei parlare un momentino della genesi di codesta... tragedia.
Era cominciato tutto da un giorno di maggio in cui avevo avuto l'insana idea di voler scrivere una one-shot rossa (e vorrei sottolineare ROSSA) su *brividi* Sephiroth e Cloud. E dato che NON E' COSA BUONA, mi sono punita: mi sono letta una doujinshi Clack che si chiama "Nostalgia" (da cui ho preso il titolo per la tragedia) con di sottofondo "Aerith's theme", quella originale, di Final Fantasy VII. Sapete, quella soundtrack che ogni volta che la ascolti dopo aver visto il video della teoria sulla morte di Aerith è ancora più traumatica da ascoltare.
Potete immaginare il mio stato d'animo.
Fatto sta che quella notte ho sognato la storia di questa fanfiction (diversa, ovviamente), e non ho perso tempo. Ho cominciato a scrivere e già sapevo che sarebbe stata una tragedia. E così è stata <3
Dopo averv annoiata con questa cosa inutile, passo ai miei INFINITI ringraziamenti per la mia amata e adorabile Beta che oggi ha lavorato davvero tantissimo per fare sì che questa tragedia fosse pubblicata entro questa giornata. Non preoccupatevi, mia cara, vi ricompenserò <3
PREPARATE I FAZZOLETTI.
Con ciò, vi auguro una buona (?) lettura. <3
P.S.: Hermann Hesse deve starci in ogni mia fanfiction in un modo o nell'altro <3




 


Nostalgia.

 
 
 
 
 

«Il richiamo della morte è anche un richiamo d’amore. La morte è dolce, le facciamo buon viso, se la accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell’amore e della trasformazione.»
-Narciso e Boccadoro // Hermann Hesse;

 
 
 
 
 
In quel campo enorme, quasi senza fine, non si sentiva nient’altro che il rumore delle spade che si scontravano tra loro, e delle mitragliatrici che sparavano. La luce del mezzogiorno picchiava dura sui capi dei soldati, accaldati e sporchi di fango e sangue, impossibilitati a distinguere il proprio da quello degli avversari. Vaghe nuvole plumbee oscuravano il sole di tanto in tanto, dando una piccola tregua alla la calura di piena estate. In mezzo a quel caos, due uomini, o per meglio dire ragazzi, combattevano energicamente, l’uno accanto all’altro, coprendosi le spalle a vicenda, muovendosi con grazia in una danza macabra e micidiale, simili ad un’unica macchina da morte. Restavano vicini, restii ad allontanarsi per paura di perdersi di vista e non poter proteggere il proprio partner, la paura di morire sempre dietro l’angolo.
Passarono ore interminabili e la battaglia giunse al termine, con la sconfitta dell’esercito avversario.
I due ragazzi, con il fiato pesante e la stanchezza nel corpo, si guardarono negli occhi, sorridendosi. Si avvicinarono e si abbracciarono.
«È finita» disse il più alto dei due, accarezzando i capelli biondi dell’altro con la mano libera, la spada nell’altra.
Il biondo annuì, ugualmente sollevato che anche quella volta entrambi fossero sopravvissuti. Intorno a loro, il campo si riempiva delle risate dei commilitoni, dei loro festeggiamenti e delle urla di gioia. Ma la felicità di quel momento era passeggera. Nessuno si era accorto di un superstite nascosto vicino ai due ragazzi abbracciati, la cui arma era ancora carica. Si guardò intorno con cautela e prese la mira, puntando la canna del fucile verso la schiena del biondo. Nessuno si sarebbe accorto di lui mentre lo colpiva, e anche se dopo lo avrebbero ucciso, tutta la felicità ormai sarebbe stata perduta, il bel momento rovinato, i suoi compagni vendicati.
Nel momento in cui stava per caricare il colpo, il moro lo vide e capì all’istante che cosa sarebbe successo. Non avrebbe lasciato che qualcuno uccidesse davanti ai suoi occhi il suo compagno, quindi agì d’istinto, scostandolo e parandosi davanti a lui, coprendolo con il proprio corpo.
Il biondo capì troppo tardi cosa sarebbe accaduto.
Lo sparo esplose come un fulmine a ciel sereno, e il proiettile giunse dritto in mezzo al petto del ragazzo, in direzione del cuore, perforando un polmone.
Calò un silenzio di tomba, squarciato da un urlo straziante di dolore.
Il cielo si incupì, e la pioggia cominciò a cadere piano.

 
 

Cloud, dopo quella missione funesta, si rinchiuse in camera per due giorni, seduto sul letto di Zack, a guardare le pareti. Quella stanza gli sembrava troppo spoglia e silenziosa, e nonostante sentisse tantissimo la mancanza del suo partner, non aveva neanche più la forza di piangere, o di fuggire da quel luogo pieno di ricordi. Rimaneva lì, immobile, a rivivere quei fatali ultimi istanti, senza mai riuscire a capacitarsi della sua perdita, nonostante avesse assistito con i suoi occhi ad ogni singolo momento.
Quando aprì la porta dell’alloggio, i commilitoni lo videro con lo zaino in spalla e lo sguardo spento, tanto che sembrava non essere più lui. Loro avevano sempre visto che, quando Zack non era con lui, se ne stava sempre sulle sue, senza salutare o guardare mai nessuno quando camminava per i corridoi; ma nonostante questo, il suo sguardo era sì pensieroso, ma almeno era vivo. In quel momento i suoi occhi non avevano espressione, come se la morte di Zack l’avesse svuotato del tutto, si muoveva disinteressato, un corpo senz’anima. Nessuno osava dirgli qualcosa, il silenzio tombale lo avvolgeva, sembrava un fantasma. Arrivò spedito all’ufficio di Angeal e rimase impassibile durante tutto l’incontro.
«Signore, il mio servizio è giunto al termine» disse Cloud di fronte alla scrivania del superiore, lasciando su di essa delle chiavi «Ho tolto dalla camera tutto quanto. Non c’è più nulla dentro, signore».
L’uomo lo guardò con apprensione «Quindi … te ne vai?».
«Sissignore».
«È davvero necessario?».
«Sissignore. Non ha più senso per me restare qui. Sarei solo d’impiccio».
Angeal, ascoltando la voce atona di Cloud, avvertì ancora più forte il dolore che stava provando. Zack era stato come un figlio, e averlo perso così presto gli faceva male. L’aveva visto crescere, maturare e insegnare agli altri ciò che lui stesso aveva inculcato nella sua testaccia dura. Come un padre con il proprio figlio, era stato orgoglioso di lui. Il solo pensiero che non avrebbe mai più rivisto il suo sorriso sincero e vivace, gli causava un dolore immenso; e ora, vedere Cloud, il partner, migliore amico e compagno di Zack, in quello stato così pietoso lo uccideva. Sapeva quanto Cloud avesse tenuto a lui, e poteva capire la sua reazione e la sua decisione, però gli dispiaceva comunque.
Anche Cloud era stato come un figlio, per Angeal. Aveva imparato a volergli bene e ad affezionarsi grazie a Zack. Aveva imparato ad apprezzare quel suo carattere riservato e silenzioso e vederlo andare via era come perdere un ulteriore parte di sé. Ma non poteva trattenerlo contro la sua volontà.
Sospirò e volse lo sguardo per un momento sulla foto di Zack e del biondo che teneva incorniciata accanto al monitor del computer. Si alzò e si avvicinò al ragazzo.
«Non posso certo costringerti a rimanere, anche se ne ho l’autorità» disse, poggiandogli una mano sulla spalla «Sei un soldato eccellente, potresti dare ancora tanto».
«Con tutto il rispetto, signore, non credo di essere all’altezza delle sue aspettative» disse Cloud, la voce atona, quasi robotica.
Angeal sorrise lievemente e gli diede una pacca sulla spalla «D’accordo, come vuoi tu. Puoi andare quando vuoi».
Cloud chinò il capo per riconoscenza «Grazie mille, signore».
Girò sui tacchi e si diresse verso la porta, ma il capo lo fermò poco prima che uscisse.
«Ieri abbiamo lasciato la sua spada nell’armeria» disse, guardandolo negli occhi. Non c’era bisogno di fare il suo nome per capire «Se vuoi, hai il permesso di prenderla. So che ci tenevi molto a lui».
La maschera di apatia di Cloud sembrò incrinarsi, gli occhi che d’improvviso si inumidirono, ma nessuna lacrima cadde. Fece per dire qualcosa, ma si interruppe, il fiato gli si bloccò in un singhiozzo soffocato, e rimase in silenzio a guardare il mentore del suo partner.
Angeal sorrise «Arrivederci, Cloud. E buona fortuna».
Cloud stirò leggermente le labbra in quello che sarebbe dovuto sembrare un sorriso «Grazie, signore. Arrivederci».
La porta si richiuse alle spalle del biondo con un piccolo rumore. Angeal andò a risedersi, sospirando, dietro la scrivania. Guardò la foto dei due ragazzi e, con un groppo in gola, la rivolse verso il basso, per non doverla vedere mai più.
 
 
 
Camminava velocemente, lasciando che le pareti spoglie e sporche e i volti dei compagni d’arme gli scorressero accanto, senza soffermarvisi davvero. Preferiva evitare i loro sguardi: era certo che i suoi nervi non avrebbero retto il contatto con un’amarezza e un dolore così simili ai suoi. E lui aveva bisogno di restare saldo. 
Giunto di fronte alla porta dell’armeria, si ritrovò a chiedersi la ragione per cui volesse farsi del male nel prendere con sé quella spada. Un masochista, ecco cos’era. Voleva una traccia materiale di lui, che gli desse l’illusione che fosse ancora vivo, ancora accanto a sé, con il suo sorriso vivace e i suoi occhi brillanti. Lo desiderava ardentemente, anche se questo significava ricordare in ogni istante ciò che aveva perso. Abbassò il capo, chiuse gli occhi e fece un piccolo sospiro nell’aprire la porta.
La stanza era ampia e molto cupa, illuminata a intermittenza dagli ultimi bagliori di un neon a un passo dal fulminarsi. Le pareti presentavano svariati chiodi piegati sui quali erano appoggiate e conservate le armi più pregiate o di militari importanti caduti in battaglia. Come in tutte le stanze sempre chiuse, l’aria era acre e pesante. Questo, oltre all’atmosfera inquietante, era uno dei motivi per cui aveva sempre odiato quel posto, e raramente vi era entrato. 
Cloud si guardò intorno, passando lo sguardo lungo le varie armi da fuoco, fucili, pistole, mitragliatrici e armi di precisione fino ai lanciarazzi, arrivando a quelle da taglio. In un angolo, in fondo, quasi completamente al buio, c’era lei. Quasi trattenne il fiato nel vederla: il cuore che cominciò a battere più freneticamente, e con titubanza avanzò lungo la stanza e si avvicinò alla spada, osservandola più da vicino. 
L’avevano pulita, notò, accarezzando il profilo leggermente ruvido della lama.
“Prima della missione l’aveva levigata”, pensò e il suo sguardo si perse nel vuoto, mentre ricordava la notte prima di quella maledettissima battaglia. L’aveva osservato per tutto il tempo, guardando con attenzione i suoi movimenti delicati, ammirando la dedizione con cui il ragazzo rendeva più affilata la lama. Quando, poi, si era accorto di essere osservato, gli aveva sorriso e lo aveva incoraggiato, dicendogli che tutto sarebbe andato per il meglio.
«Resisti ancora un po’» gli aveva detto «Ancora qualche altra missione e lasceremo questo lavoro. Andremo in città, e apriremo un’agenzia tuttofare. Lavoreremo insieme, e con i soldi che guadagneremo ci prenderemo un appartamento per noi due soli. E allora tutto sarà perfetto, non è vero, Cloud?».
Quello gli aveva sorriso e, dopo aver controllato che nei paraggi non ci fosse nessuno dei loro commilitoni, gli si era seduto accanto appoggiando la fronte sulla sua «Sì, Zack. Sarà tutto perfetto» gli aveva risposto, immergendo lo sguardo negli occhi sognanti del compagno. E anche Cloud gli aveva sorriso, aveva chiuso gli occhi e l’aveva baciato, forte, carico di tutto l’amore che provava per lui. 
Un velo di lacrime gli appannò la vista per qualche momento, e Cloud fu costretto a chiudere gli occhi per cercare di non piangere di nuovo. Scosse il capo per riprendersi e si schiarì la gola. Con il cuore in subbuglio prese la spada per l’elsa e la sollevò, staccandola dalla parete. Sorrise, mentre avvertiva una sensazione di calore nell’impugnare quella spada, come se sentisse sulla sua mano la stretta ferma e decisa di lui quando lo allenava da solo.
«Tieni gli occhi fissi sul bersaglio e mantieni la stretta sull’elsa, la lama sempre davanti a te, puntata verso l’obiettivo» gli aveva sempre detto, circondandolo con il proprio corpo per stringergli le mani sull’elsa della spada, il suo fiato che gli solleticava l’orecchio e la sua voce calda e decisa che sembrava letteralmente scioglierlo.
Sospirò, sopraffatto dai ricordi, e, dopo essersi assicurato sulla schiena la spada, si diresse verso l’uscita, chiudendosi la porta alle spalle, lasciando dietro di sé quel museo di guerra.
Tornò in quei corridoi sempre uguali e spogli, la cui semplicità e i ricordi che evocavano di quel mestiere odioso, sembravano urlargli in faccia il suo nome, riportandogli alla mente tutte le memorie più dolorose. In tutto ciò che vedeva di sfuggita, c’era lui. 
Camminò con passo più spedito, nelle orecchie il suono dolce e caldo della sua voce che lo punzecchiava, scherzava, gli sussurrava di nascosto qualcosa di imbarazzante per farlo arrossire e sentire a disagio davanti agli altri, che raccontava speranzoso dei progetti che avrebbero realizzato insieme dopo aver racimolato il denaro necessario. Senza accorgersene, aveva iniziato a correre. 
In poco tempo raggiunse l’ingresso della caserma e quasi sospirò per il sollievo. Fece per raggiungere la porta, quando un foglio appeso alla bacheca attirò la sua attenzione. Sentì il proprio cuore fermarsi in gola.
C’era una sua foto, del suo sorriso e dei suoi occhi brillanti, in bianco e nero, al di sotto della quale erano elencate tutte le informazioni circa il suo decesso e il luogo dove era stato sepolto. Cloud si fermò a guardare quell’immagine con il fiato a metà, tremante per il pianto che tratteneva con tutte le sue forze. Dopo la missione l’avevano portato nella sua città natale, dai suoi parenti, e lì l’avevano seppellito. Gli si strinse il cuore nell’immaginare il dolore profondo dei suoi genitori nel saperlo senza vita. Avrebbe tanto voluto andare lì, a Gongaga, per abbracciare quella donna che aveva conosciuto anni prima, quando … Zack (Dio, era difficile anche solo pensare il suo nome), allora da poco il suo fidanzato, l’aveva invitato a casa per conoscere i suoi genitori. Desiderava cercare di consolarla, dicendole che poteva capire il dolore che stava provando, che quel ragazzo gli sarebbe mancato tanto, troppo, e che la sua vita non sarebbe stata mai più la stessa. E avrebbe anche voluto assistere al suo funerale, o almeno andarlo a trovare, per poterlo piangere lì dove era sepolto. Ma non poteva farlo. Il suo cuore non avrebbe retto la vista della disperazione dei genitori e dei familiari, e di quella lapide con incisa il nome dell’uomo che amava circondata dai crisantemi. Sarebbe stata una dolorosa conferma della realtà, e tanto non poteva reggere. Preferiva piangere il suo legame con un vivo, una figura evanescente che sperava di riuscire a dimenticare (invano, lo sapeva benissimo). Sospirò lentamente, e dopo aver dato un’ultima, faticata occhiata alla foto, si voltò e uscì fuori dalla caserma, lasciandosi alle spalle quell’edificio ricolmo di ricordi e sensazioni ancora vive dentro di sé.
 
 
 
Dopo circa un’ora di viaggio a piedi, Cloud raggiunse una locanda pressoché vicina alla città, e dato che il sole aveva cominciato a tramontare, decise di entrare e prendere una stanza per la notte.
Era un posto vagamente malandato, illuminato da una luce gialla talmente flebile che era molto difficile cogliere alla perfezione le caratteristiche dei volti dei clienti, le cui voci, seppur basse, creavano un brusio tale da rendere complicata la conversazione. Cloud si sedette su una sedia di fronte al bancone a sinistra dell’entrata, e attese che l’oste gli si avvicinasse e gli chiedesse cosa volesse ordinare. Nessuno dei clienti, nel vederlo entrare con una spada in spalla, gli prestò molta più attenzione di un’occhiata annoiata, ma questo a Cloud non dispiacque affatto.
L’oste gli si parò davanti, un omaccione dall’espressione truce e gli occhi scuri, e con fare non propriamente ospitale gli chiese «Che cosa vuoi?».
Cloud lo guardò con un’occhiata che sarebbe dovuta essere divertita, ma che in realtà sembrava indifferente e con voce inespressiva gli rispose «Vorrei qualcosa da mangiare e una stanza per la notte», evitando di pronunciare un “grazie” alla fine della frase.
Lo sentì brontolare qualcosa, guardandolo male, quindi il ragazzo aggiunse con un sorriso sarcastico quasi invisibile «Stai tranquillo, ti pagherò».
«Sarà meglio per te» gli rispose l’uomo con fare rude, voltandogli le spalle e avviandosi verso la cucina sbraitando ordini ai cuochi.
Cloud sospirò piano, lasciando il borsone per terra accanto a sé, e si guardò intorno, i clienti che mangiavano con calma il loro pasto, parlando con una cerca circospezione, coprendosi le labbra per non farsi comprendere dagli estranei alla conversazione. Di certo a Cloud non importava un bel niente di quello che i vari gruppetti di clienti avessero da parlare. Il suo obiettivo, in quel momento, era di riuscire a trovare un qualsiasi lavoro che gli tenesse la mente occupata. Gli sarebbe andato bene qualunque cosa, anche un lavoro che dovesse portarlo a compiere azioni illegali, non gli importava. Certo, con sé aveva i soldi che insieme a “lui” aveva messo da parte per il futuro, ma aveva deciso che quella somma, o almeno la “sua” parte, non l’avrebbe mai toccata né usata. L’avrebbe conservata come ricordo di quel sogno che avevano coltivato insieme per tutto quel tempo.
Abbassò il capo e si strofinò gli occhi, nascondendo il rossore delle sue guance e cercando di mandare indietro le lacrime. Dio, era così difficile cercare di non pensare a quei giorni felici, sì lontani ma ancora vividi nel suo cuore. Ma soprattutto era un’impresa anche solamente provare a distrarsi dal ricordo di quegli ultimi attimi di vita del suo compagno; dell’espressione disperata del ragazzo mentre Cloud lo stringeva a sé, gridandogli di resistere; e soprattutto della consapevolezza che la “sua” morte era stata solamente a causa della sua disattenzione. Se non avesse abbassato la guardia, avrebbe visto prima quel soldato nemico, avrebbe protetto il suo partner, e a quest’ora, invece di stare in quella locanda fatiscente e lugubre, sarebbe stato con “lui” nella loro camera, sorridente e con la gioia di essere a un passo dalla libertà.
A un passo dalla realizzazione della sua vita insieme a Zack.
Sospirò di nuovo, questa volta quasi con un lamento e alzò il capo, con di nuovo sul volto la sua espressione imperturbabile.
In quel momento, un uomo con un lungo mantello nero, e il capo oscurato dal cappuccio ampio, entrò nella locanda e, dopo essersi guardato intorno per un momento, la sua attenzione venne attirata dal ragazzo seduto al bancone. Cloud, vedendolo avvicinarsi e notando che lo stesse fissando, avvertì un brivido gelido corrergli lungo la schiena. L’uomo si sedette accanto a lui, continuando a guardarlo. Ora che era più vicino, il ragazzo poteva vedere quasi distintamente il sorriso stampato sulle labbra dell’uomo e gli occhi gelidi che lo scrutavano con strano interesse.
Cominciò a sentire un po’ di disagio, ma lo nascose mentre chiedeva all’uomo con quanta più cortesia gli riuscisse «Posso aiutarla?».
«Sei un soldato?» chiese l’uomo, indicando con un cenno del capo la spada.
Cloud cercò di non badare al fatto che non avesse risposto alla sua domanda per non innervosirsi di più «Non più. Il mio servizio è finito oggi».
Tra i due interlocutori cadde un silenzio pesante durante il quale entrambi osservarono l’oste servire a Cloud con molta poca gentilezza una misera ciotola di minestra fredda e un tozzo di pane, per poi tornare a guardarsi non appena anche l’uomo incappucciato ordinasse la cena e chiedesse anche lui una stanza.
«Perché me lo chiede?» fece Cloud, adesso non più a disagio ma stranamente incuriosito.
«Mi serve un uomo rapido e abile nel combattimento. Ne ho bisogno per svariati lavori che non posso svolgere io stesso» ripose l’uomo sempre con le labbra curvate in un sorriso «Sono molto rischiosi, ma la paga è molto alta, posso assicurartelo».
«La parola “rischioso” spesso può essere associata a quella “illegale”» disse il biondo con un lievissimo sorriso.
«Non accetteresti se così fosse?».
«Certo che sì. Questo ed altro per un po’ di pericolo».
«E i soldi?».
«Non mi interessano. Mi interessa solo il lavoro» rispose Cloud con decisione. Stava per ottenere ciò che desiderava e non poteva non sentirsi felice per questo.
Fare il mercenario l’avrebbe aiutato a distrarsi dai suoi ricordi.
 
 
 
Cloud cadde a terra sulle ginocchia, sconvolto, accanto al suo compagno, sangue, fango e pioggia sul suo viso. Gli scostò i capelli dalla fronte, le mani sporche che tremavano, e gli accarezzò le guance, quando un velo di lacrime cominciò ad appannargli la vista.
«Zack» sussurrò, senza distogliere mai lo sguardo da quegli occhi sempre più spenti, sempre più vuoti «Resisti, Zack».
Tutto ciò che Zack riuscì a dargli fu l’ombra di un sorriso nel dolore, così con fatica prese la mano di Cloud nella propria e la strinse forte, per mostrargli che era ancora lì, ancora presente. Voleva essere rassicurante, voleva dirgli che tutto sarebbe andato per il meglio, che si sarebbero salvati entrambi, ma tutto in lui trasmetteva solo disperazione. 
Intanto i commilitoni dei due ragazzi avevano circondato il superstite e l’avevano ucciso senza esitazione, riempiendogli il petto di pallottole, come se torturarlo in quel modo avesse potuto alleviare il loro dolore e cancellato ciò che era appena successo. Non volevano credere che Zack, il ragazzo che tutti conoscevano e rispettavano, quello che alleggeriva l’atmosfera quando c’era troppa tensione prima di una battaglia e che faceva ridere tutti alla mensa, stesse per morire proprio davanti ai loro occhi senza che potessero fare qualcosa.
Cloud cominciò a piangere, silenziosamente, lottando con tutto se stesso per cacciare indietro le lacrime, per poter trasmettere un po’ più di coraggio al suo compagno morente, stringendoselo a sé con delicatezza, baciandogli la fronte, infischiandosene del fango e del fatto che gli altri lo stessero guardando. Non voleva capire, non voleva accettarlo. Non poteva credere che quelli sarebbero stati gli ultimi momenti passati insieme a lui. Era troppo presto. In tutto quel tempo in cui erano stati insieme e avevano progettato il loro futuro, aveva sempre immaginato che gli ultimi giorni della loro vita li avrebbero trascorsi assieme, seduti fuori dalla porta della loro casa a guardare la gente passeggiare lungo la strada, parlando dei vecchi tempi e di quanto i giovani d’oggi fossero dannatamente assurdi. 
«Non lasciarmi, Zack» sussurrò Cloud, baciando i capelli sporchi di Zack con dolcezza, soffocando un singhiozzo nell’odore del fango «Abbiamo ancora tante cose da fare. Non ricordi la casa, quella casa che dobbiamo ancora trovare?».
Zack tossì, il sangue che fuoriusciva dalle labbra sporcando la spalla del biondo «Non ti lascerò… mai» gracchiò con fatica, abbandonandosi all’abbraccio disperato. Neanche lui voleva accettare il fatto che stesse per morire e che, soprattutto, avrebbe lasciato Cloud da solo. Sentiva il suo respiro rarefarsi, le lacrime e sangue sul suo volto.
Cloud si guardò intorno, i suoi compagni intorno a lui, sconvolti, immobili, ed espresse urlando tutta la rabbia che sentiva consumarlo: «Chiamate i rinforzi, avanti! Non vedete che sta morendo? Chiamate un medico, sbrigatevi!».
La pioggia continuava a cadere veloce e fitta, le gocce che al contatto con i vestiti e la pelle facevano male come milioni di pugnalate, amplificando il dolore dei due ragazzi abbracciati.
«Stanno arrivando i soccorsi» mormorò Cloud, più a se stesso che a Zack «Resisti ancora un po’. Tra poco starai meglio» aggiunse, ma la voce gli si strozzò in gola per colpa dei singhiozzi.
Stava mentendo, lo sapeva. Lo sapevano entrambi. Ma voleva far finta di non sentire le voci dei commilitoni che gridavano e imprecavano per colpa delle interferenze che impedivano loro di mettersi in contatto con l’accampamento. Era la pioggia a tenerli lontani, maledetta pioggia che cadendo faceva sempre più male. 
Si sentiva disperato. Zack era a un passo dalla morte, il suo respiro sempre più affannoso, sempre più frequenti i colpi di tosse e sempre di più le macchie di sangue sulla spalla di Cloud. Però negava l’evidenza. Zack non poteva morire.
Zack non
doveva morire.
«Non ti lascerò… Cloud» mormorò Zack, alzando lentamente le mani verso il suo volto e accarezzandolo delicatamente, guardandolo negli occhi «Anche se… fisicamente non sarò accanto a te».
Cloud scosse il capo in segno di diniego «Non dirlo, ti prego. Tu non morirai».
«Io sarò sempre con te…» lo ignorò il moro, gli occhi ancora fissi su di lui, anche se ormai incapaci di guardarlo davvero. 
Cloud distolse lo sguardo. Non riusciva più a sostenerne il contatto. Troppa tristezza. Tutto questo era successo solamente a causa sua. Avrebbe voluto dire a Zack quanto gli dispiaceva, che se fosse stato più attento in quel momento sarebbero stati ancora abbracciati, ancora insieme; ma non riusciva a spiccicare una singola parola, il respiro spezzato da fin troppi singhiozzi.
Quando Zack chiuse gli occhi, mentre le gocce di pioggia continuavano a bagnargli i vestiti, Cloud ebbe la certezza che non si sarebbero riaperti. Il dolore al petto era insopportabile e la testa gli girava forte. Pian piano, le forze cominciarono ad abbandonarlo, e capì che non mancava più molto. C’era ancora qualcosa che voleva fare, il suo ultimo desiderio prima della morte.
«Cloud…» mormorò con fatica, il sangue che a ogni movimento della lingua gli riempiva la bocca, sporcandogli le labbra.
Singhiozzò ancora, appoggiò lentamente la fronte su quella di Zack e attese che parlasse di nuovo, pronto ad ascoltarlo.
«Ti amo» disse con un filo di voce, il volto contratto in un’espressione di dolore «Ti … ho sempre amato».
«Ti amo anch’io, Zack» sussurrò Cloud tra le lacrime, trattenendo un singhiozzo.
Il suo ultimo sorriso rimase congelato sul volto. 
Il dolore era sparito e l’oscurità lo avvolse.
Un tuono ruggì per il campo, soffocando l’urlo disperato di Cloud, il corpo esanime di Zack stretto tra le sue braccia.

 
 
 
Cloud si svegliò di soprassalto, il cuore che batteva all’impazzata in gola, impedendogli di respirare correttamente. L’aveva sognato di nuovo. Ancora quella stessa identica scena, vivida come se fosse accaduto il giorno precedente, quelle sensazioni forti che ancora non lo abbandonavano. Sospirò pesantemente, coprendosi il viso con le mani per asciugare il sudore e per cercare di calmarsi.
Erano passati cinque anni, e nonostante tutto quel tempo e il lavoro che gli riempiva le giornate, ricordava ancora alla perfezione quel momento. Se chiudeva gli occhi poteva vedere distintamente la schiena di Zack che gli copriva la vista e lo proteggeva dal proiettile; e se si concentrava aveva quasi l’impressione di sentire la voce di Zack spezzata dal dolore mentre gli diceva per l’ultima volta che lo amava.
Sospirò di nuovo e scostò le mani dal viso, guardando verso la finestra. Si sentiva un po’ disorientato, non riconoscendo quella camera, ma non ci badò più di molto. Da quando aveva accettato di lavorare come mercenario si era abituato a doversi spostare di città in città, di locanda in locanda, senza mai fermarsi permanentemente per evitare che qualcuno potesse riconoscerlo. Quello che faceva era sempre pericoloso, e più volte aveva rischiato di essere catturato o, peggio, ammazzato; però era sempre riuscito a cavarsela e a svignarsela appena possibile senza lasciare alcuna traccia. La maggior parte degli incarichi che gli venivano affidati consistevano nell’introdursi in qualche palazzo di un uomo prestigioso e vicino alla vita politica del paese, e rubare dei documenti; altre volte invece gli veniva ordinato di uccidere lo stesso proprietario. Un personaggio scomodo, probabilmente. Cloud non si era mai interessato del contenuto dei fogli che recuperava, in generale non si era mai preoccupato di sapere “perché” glielo facevano fare. Non aveva intenzione di scoprire l’obiettivo dell’uomo per cui lavorava e degli altri mercenari insieme a lui; gli interessava solamente poter occupare la mente, fare qualcosa e distrarsi dai propri fantasmi.
Per questo odiava la notte quando non lavorava. Durante quelle ore buie la sua mente e i suoi pensieri erano liberi di torturarlo e di ricordargli il suo errore più grave. Zack era morto solo e solamente a causa sua, perché non si era accorto dell’imminente pericolo e aveva abbassato la guardia, permettendo di diventare un bersaglio facile. Gli incubi lo agitavano, e la mattina, quando si svegliava, si ritrovava sudato, con il viso rigato dalle lacrime e la gola indolenzita per le grida soffocate nel cuscino.
Quando era in missione, però, stava meglio. Dormiva poche ore e in quel tempo la sua mente era sempre vigile, alla continua ricerca di un possibile nemico intorno a lui, la mano sempre pronta a scattare verso la spada. Durante il lavoro dimenticava ogni cosa, anche il fatto che la spada che impugnava fosse quella di Zack. Spesso, quando gli capitava di ingaggiare un combattimento, gli sembrava quasi di avvertire il contatto contro la sua schiena di quella di Zack, come se lui fosse ancora al suo fianco a combattere. Sorrideva, in quei momenti. Ma quando, poi, si guardava intorno e non vedeva altro che cadaveri, la realtà lo colpiva come un pugnale dritto al cuore, e non poteva fare altro se non chinare il capo e cacciare indietro le lacrime. 
Cloud scosse la testa e decise di alzarsi, ormai non aveva più sonno e cominciava a farsi giorno: i raggi del sole che filtravano delicati dalla finestra, come per incitarlo a muoversi. Si strofinò il viso e sospirò. Doveva essere più lucido che mai quel giorno: stava per attraversare quel campo in cui la sua metà l’aveva abbandonato.
Sarebbe stata una questione di un’ora al massimo e sarebbe arrivato alla sua destinazione, una piccola dimora, impenetrabile a detta di molti, per un grande signore della regione. Non ne ricordava neppure il nome per quanto gliene importasse. Avrebbe dovuto solamente trovare lo studio e prendere un fascicolo. 
Niente di complicato.
Eppure, qualcosa andò storto.
In quegli ultimi tempi, i ricchi signori minacciati da questi continui furti di documenti e delle aggressioni in casa e anche in pubblico, si erano ingegnati per far evolvere i loro sistemi di sicurezza, aumentando il numero delle guardie e spostandosi frequentemente in diverse dimore. In particolare, il bersaglio di Cloud era talmente ossessionato dalla sicurezza che aveva anche installato delle trappole che, appena scattavano, avrebbero dato un segnale alle guardie che avrebbe indicato loro il luogo della casa in cui era l’intruso era penetrato. Cloud non riuscì a scoprirlo fino a quando, dopo essere riuscito a recuperare il fascicolo, le finestre non si sbarrarono all’improvviso e dalle cornici dei quadri appesi nello studio non spuntarono delle mitragliatrici in miniatura che cominciarono a sparare.
Cloud si abbassò appena in tempo, e notò con una certa stizza come una mattonella del pavimento vicina alla scrivania fosse leggermente più rialzata rispetto alle altre. “Dovrebbe essere l’interruttore che aziona questa trappola” pensò, accorgendosi quasi con terrore del rumore di passi veloci che si stava avvicinando.
Cominciò a guardarsi intorno con il cuore che batteva all’impazzata, alla ricerca di qualcosa che avrebbe potuto scagliare contro la finestra a lui più vicina per poter rompere il vetro e scappare via. Non riuscì a trovare nulla che facesse al caso suo e imprecò, i colpi delle mitragliatrici che sembravano essere infiniti e i passi e le voci delle guardie che si facevano sempre più vicini.
Sospirò pesantemente per calmarsi e ritornare lucido, decidendo di nascondere il fascicolo e tenerlo al sicuro. Mentre la porta si apriva, Cloud sentì un rumore lieve provenire dalle finestre: si erano aperte. Non ci pensò due volte e, nonostante le guardie fossero entrate nella stanza e gli avessero puntato contro le armi, scattò verso la finestra davanti a sé e saltò, il vetro che si era già frantumato per colpa degli spari delle guardie.
Attutì la caduta con una capriola, ma sentì comunque un dolore lancinante che gli annebbiò la vista. Il dolore proveniva dal suo braccio sinistro che cominciava a sanguinare velocemente: una pallottola l’aveva colpito mentre saltava giù dalla finestra del primo piano. Imprecò sottovoce e cominciò a correre, ignorando il dolore lancinante. Si inoltrò nel bosco che circondava la villa, l’unica luce di cui disponeva era la luna, che splendeva limpida nel cielo stellato. Trattenne i gemiti di dolore per non farsi sentire dalle guardie che lo inseguivano, i respiri pesanti e il tintinnio delle spade e dei fucili erano gli unici suoni che si potevano udire, insieme allo scricchiolio delle foglie sotto i piedi. Doveva resistere un altro po’, al limitare del bosco c’era la sua moto e avrebbe potuto seminare i suoi inseguitori; al centro del campo, oltre gli alberi, ci sarebbe stato un altro mercenario che avrebbe preso il fascicolo, la missione sarebbe giunta al termine e Cloud avrebbe potuto lasciarsi la città alle spalle.
Continuò a correre silenziosamente e finalmente gli alberi si fecero più radi, scoprendolo e rendendolo visibile alle guardie che cominciarono a sparare e a correre con più energia. Cloud strinse i denti e si lanciò verso la moto e con un unico gesto accese il motore e partì velocemente. Si mantenne schiacciato contro il veicolo per cercare di evitare le pallottole, ma una di queste gli colpì la gamba destra. Urlò per il dolore, ma non si arrese, ormai era già lontano e il bosco era solamente una macchia nera alle sue spalle.
Fece un lungo respiro, sia per calmare il suo cuore che batteva all’impazzata, sia per cercare di abituarsi al dolore e non pensare a tutto il sangue che stava perdendo. Doveva stringere i denti e resistere ancora per un po’, qualche minuto e avrebbe raggiunto il suo collega. Accelerò più che poté nella speranza di poter fare prima.
Dopo lunghi e dolorosi minuti che non riuscì a contare, raggiunse finalmente il centro del campo. Come sperava , mercenario lo aspettava, in sella alla sua moto. Rallentò e si fermò accanto a lui, mascherando con fatica l’espressione di dolore sul suo viso, quando mosse il braccio per passare al ragazzo il fascicolo. Il mercenario, però, notò le ferite del biondo.
«Sei ferito» disse, infatti, con un’espressione quasi preoccupata.
«Non è niente, sopravvivrò» mentì.
«Se ne sei convinto» fece il mercenario, infastidito dal suo comportamento. Accese immediatamente il motore, e dopo poco era già lontano. 
Cloud sorrise con amarezza. Stava davvero arrivando il momento della sua morte. L’aveva aspettata e desiderata negli ultimi tre anni, quando la mancanza di Zack era diventata fin troppo dolorosa. Quando non dormiva, la notte, immaginava il momento in cui sarebbe morto, e molte volte aveva desiderato di morire nello stesso luogo in cui era morto Zack.
Quel suo desiderio si stava davvero avverando.
Aveva perso davvero molto sangue, e lo sforzo di guidare aveva fatto in modo che la perdita fosse stata anche più rapida. Il dolore era diventato insopportabile, i vestiti erano sporchi di sangue, e la vista gli si era appannata. Ciò che lo circondava era diventato una massa indefinita di ombre, che cominciarono a vorticare per colpa della testa che gli girava. Il respiro si fece pesante e non aveva più la forza per rimanere seduto sulla moto, la gamba e il braccio gli bruciavano tantissimo e le palpebre sembrarono diventare pesanti.
“La mia ora è arrivata”.
Spense il motore e cercò di scendere dalla vettura senza farsi male, ma non avendo più molta forza, quando provò a sbilanciarsi cadde rovinosamente a terra con un forte gemito di dolore.
Volse lo sguardo già vacuo verso la luna, ormai una macchia biancastra, ma ancora così rassicurante, con un sorriso che sperava sarebbe rimasto congelato sul volto, come era successo al suo compagno. Sospirò leggermente. La certezza di stare per morire nello stesso luogo di Zack gli diede un po’ di serenità, mentre le lacrime gli riempivano lo sguardo, scivolando rapide e cadendo a terra.
Chiuse gli occhi. Il momento stava arrivando.
Il suo cuore smise di battere mentre l’unica cosa che Cloud riusciva a pensare e a ricordare era il volto sorridente di Zack, avvertendo un calore simile a quello che provava quando lo stringeva tra le sue braccia dicendogli che l’amava.
 
 
 
Il buio lo circondava. Non c’era nulla che, intorno a lui, potesse avere una qualunque consistenza. L’unica cosa che vedeva nell’oscurità era il proprio corpo. Si chiese dove fosse, se stesse sognando e se fosse ancora vivo. Riuscì a rispondere solamente alle ultime due domande: no, non stava sognando e, no, non era vivo. Si era portato una mano sul petto, e l’aveva avvertito vuoto, silenzioso.
“È questo l’aldilà?”.
Alle sue orecchie, all’improvviso, giunse un suono distorto, quasi come un’eco lontana. Sembrava una voce, ma non riusciva a riconoscerla bene né a capire cosa stesse dicendo.
«Avvicinati, non ti sento».
La voce si fece più forte ma riuscì a coglierne solo il tono estremamente preoccupato e agitato, ma mentre continuava diventò triste, quasi un lamento.
«Perché stai piangendo?».
Cominciò a distinguere delle parole, e con esse il timbro inconfondibile di quella voce, anche se spezzata da dei piccoli singhiozzi. “Zack”. Sentì una sensazione calorosa, come un’ondata di felicità e tranquillità nel sentire quella voce che tante volte aveva sognato la notte.
«Zack, sono qui. Ti prego, non piangere».
Adesso riusciva a sentirlo chiaramente, e nella sua voce avvertì il dolore.
«Tu non dovresti essere qui» il suo tono duro lo sorprese ma al tempo stesso lo ferì come una lama fredda.
«Perché mi parli così?» la voce gli uscì strozzata, rischiava di piangere.
«Perché non saresti dovuto morire. Non così presto» gli rispose la voce di Zack forse un po’ più addolcita. «Saresti dovuto andare avanti, avere dei figli, invecchiare vedendoli crescere e diventare un nonno bisbetico che si lamenta sempre dei ragazzi della nuova generazione. Avresti vissuto una vita felice anche senza di me, e saresti morto circondato dalle persone che più ti volevano bene».
«Ma io sono morto cinque anni fa, insieme a te» disse Cloud con il fiato spezzato.
Zack non disse niente, ma Cloud sapeva benissimo che sul suo volto ci doveva essere un sorriso triste e, se fosse stato davanti a lui, il moro l’avrebbe guardato con dolcezza. Perché Zack non riusciva mai ad arrabbiarsi davvero con Cloud.
Calò un silenzio che sembrò assordante alle orecchie di Cloud, e una lacrima gli rigò la guancia.
«Voglio vederti» sussurrò con un filo di voce, un’emozione forte nel petto.
«Chiudi gli occhi».
Fece come Zack gli aveva detto, nonostante non ci fosse alcuna differenza, visto che era comunque al buio. Prese un lungo respiro e aspettò, un lieve sorriso che si stirò sulle labbra per l’emozione. L’avrebbe davvero rivisito. Dopo cinque anni durante i quali non aveva fatto altro se non pensare a lui e sognarlo la notte, sopraffatto dai ricordi. Finalmente l’avrebbe visto sorridere di nuovo, avrebbe avvertito il calore delle sue braccia che lo stringevano con dolcezza e avrebbe sentito il suo fiato calmo sul collo.
All’improvviso ci fu una lieve folata di vento fresco che gli scompigliò i capelli, portando con sé un delicato profumo di vaniglia. Sentì, alla sua destra un piccolo crepitio, come il rumore del legno che bruciava in un camino, diffondendo un odore caldo e travolgente che si mischiava a quello di vaniglia. Poi, sentì il suono di un paio di passi, davanti a lui.
«Ora puoi aprirli» mormorò Zack con la voce spezzata per l’emozione.
Trattenne il fiato e pian piano aprì gli occhi, la vista un po’ sfocata per il repentino cambiamento della luce. E nonostante le lacrime gli impedissero di vedere bene, riconobbe all’istante il volto sorridente del ragazzo in piedi davanti a lui.
«Zack…» sussurrò, le guance bagnate dalle lacrime di gioia.
I loro sguardi si incrociarono, finalmente, e vennero avvolti da emozioni talmente forti e travolgenti che non avevano la forza di avvicinarsi l’uno all’altro e abbracciarsi forte, per poter cominciare a recuperare quei cinque lunghissimi anni in cui erano stati separati, senza alcuna speranza di potersi incontrare di nuovo.
Cloud sorrise, per la prima volta dopo un tempo che gli era sembrato infinito, e fece un passo in avanti verso il suo compagno, con una certa timidezza, perché aveva quasi il timore che, avvicinandosi troppo velocemente, Zack sarebbe scomparso e l’avrebbe perso per davvero. 
Quel momento era davvero bellissimo, troppo bello per essere vero.
Finalmente rivedeva Zack, il “suo” Zack, che gli sorrideva e lo guardava con una luce brillante e viva nello sguardo, pieno dell’amore che provava per lui. L’immagine di Zack che aveva conservato in tutti quegli anni non gli rendeva affatto giustizia. Nei suoi ricordi non era mai riuscito a cogliere quella radiosità che emanava solamente guardandolo negli occhi, né poteva percepire quel desiderio del moro di annullare all’istante la distanza che li divideva.
Si asciugò velocemente le guance con il dorso della mano e fece un altro passo verso Zack, verso il suo compagno.
«Zack…» sussurrò, stavolta più forte, incapace di pronunciare altro se non quel nome che gli vibrava nella gola, un sorriso talmente ampio che sentiva quasi dolore alle guance.
Fece per fare un altro passo, ma Zack lo anticipò, avvicinandosi velocemente a lui e stringendolo a sé. Cloud chiuse gli occhi, sorpreso dallo slancio improvviso del moro, e inspirò lentamente, affondando il volto nel petto del compagno, assaporando il calore e il profumo intenso della sua pelle, anche attraverso il maglione, quello che indossava sempre perché era il suo preferito. Ricambiò l’abbraccio, avvolgendo la vita di Zack con le braccia tremanti per l’emozione.
«Mi sei mancato tantissimo» mormorò Zack, baciando i capelli dorati del ragazzo tra le sue braccia, stringendogli il volto tra le mani.
Cloud si sentì mancare il fiato sentendo la voce di Zack così vicina, e scostandosi quel tanto che bastava dall’abbraccio, incrociò il suo sguardo «Anche tu mi sei mancato. Così tanto che non ne hai idea».
Zack curvò le labbra in un sorrisetto malizioso, affondando le dita tra i capelli di Cloud «Fammelo intendere, quindi».
Il biondo ricambiò il sorriso e gli avvolse il collo con le braccia, avvicinandosi al suo volto finché le loro labbra quasi si sfiorarono. Esitò un momento, godendo del fiato caldo del moro che si scontrava con il suo, una felicità enorme nel cuore, perché quella era la prima volta che si sarebbero baciati dopo cinque anni. Lo guardò negli occhi per un momento, sentendosi mancare il respiro nel guardare così da vicino quelle iridi che aveva sempre amato, fin dalla prima volta che si erano incontrati.
Poi, chiuse gli occhi e lo baciò dapprima con dolcezza, poi quasi con forza, perché insomma stava baciando il suo compagno dopo aver passato cinque anni della sua vita a piangere la sua morte, aveva bisogno di sentire quel contatto più che poteva. Il senso di colpa sembrava essere ormai scomparso, come se quel maledetto giorno in quel maledetto campo non fosse mai esistito; come se Zack non fosse davvero morto, ma fosse sopravvissuto, e insieme avessero lasciato il servizio militare e si fossero trasferiti in quella casa bellissima dopo aver aperto la loro agenzia tuttofare. 
E sussurrando un «Ti amo» tra i baci, Cloud si sentì, dopo tanto tempo, finalmente felice.
  
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