Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: Jailer    17/07/2013    5 recensioni
"Ma sai: io non sono arrabbiata con te.
Forse semplicemente non sono stata abbastanza per poterti tenere completamente al mio fianco, forse non ti ho mai capito.
Non sono nemmeno arrabbiata con quella donna (o con quelle). Per te anche io avrei fatto follie, senza guardare in faccia nessuno.
È con me che ce l'ho: non sono sufficiente per nessuno, né per te, né per me.
Guardami: persino ora, persino ora non riesco ad odiarti."

Ci sono mille motivi validi per tradire. Non ce n'è nessuno per perdonare.
[CielxLizzy]
(STORIA IN FASE DI REVISIONE, VEDRÀ LA FINE ANCHE LEI. PROMESSO.)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciel Phantomhive, Elizabeth Middleford, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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THE BITTER END

L’INNOCENTE

 





CAPITOLO PRIMO
LES FLEURS DU MAL



 

Appena si erano sposati –avevano diciassette anni- era stato bello. 
Ancora più di quando si amavano e basta, perché avevano cominciato a poter condividere stanze, silenzi e notti solo per loro.

Appena si erano sposati, Ciel si concedeva più spesso momenti di debolezza, di dolcezza e distrazione. Nella quiete di un’intimità sicura, egli aveva cominciato a sorridere più spesso e a sussurrarle qualche volta –quasi lasciandoselo sfuggire per sbaglio- che l’amava.
Erano parole strette fino all’ultimo fra le labbra, fino a quando Ciel non riusciva a trattenerle più, perché tutto quello che provava era troppo e non riusciva a serbarlo solo per se stesso: e allora glielo diceva di notte all’orecchio, con un tono talmente basso da sembrare solo un soffio o poco più.

 Alcune volte Lizzy temeva di esserselo immaginato, quel suono ovattato. Non aveva mai pensato che delle parole potessero dare vita e stordire a quella maniera. Non sembrava possibile una cosa del genere.
Spesso avrebbe voluto chiedergli di ripeterle, perché quel suono flebile le riempiva il cuore, ma sceglieva sempre di non rompere la bellezza evanescente di quelle confessioni.

La prima volta che Elizabeth fu sicura di aver capito bene pianse di gioia fra le sue braccia per almeno un’ora.

Ciel capì quella notte il significato dell’essere amati.
Si svegliarono il mattino dopo lei con gli occhi gonfi ed entrambi con le occhiaie. Un altro tempo sarebbe stato nervoso tutto il giorno, allora semplicemente la portò in campagna, loro soli. Risero, risero, risero e si baciarono tutto il dì.

 

Erano bravi a fare l’amore, loro due.
Non importava il luogo o l’occasione: sapevano farlo in silenzio senza lasciarsi sfuggire nemmeno un respiro di troppo; in piedi, sdraiati; nudi o vestiti; in uno sgabuzzino o in un letto.

Non importava.
Non importava a Lizzy, che in quei frangenti si disinteressava completamente del fatto che i suoi abiti potessero rovinarsi.
Non importava a Ciel di cosa potesse pensare la gente a vederli sparire.

Le persone avrebbero pensato giusto, per una volta. Perche negargliene la possibilità?

Non era esattamente un comportamento idoneo a un Conte al servizio della Regina, ma non importava nemmeno questo.
Dopo anni, Ciel Phantomhive si sentiva nuovamente vivo e felice e non aveva voglia di tornare al grigiore dei vecchi giorni precedenti.
Se l’infanzia gli era stata bruciata, perché rovinarsi anche l’età adulta?

Sebastian non sembrava propriamente d’accordo con questo pensiero, ma seppe pazientare perché conosceva l’indole umana e l’infamia con cui il mondo fa girare le ruote del Fato.
E infatti ebbe ragione.

***


Non erano passati molti mesi che la Regina richiamò Ciel al proprio dovere con un nuovo incarico.
La lettera arrivò allo stesso modo in cui erano arrivate tutte le altre, tutti gli anni precedenti, a tutti i Conti Phantomhive, da parte di tutte le regine: chiusa con la ceralacca con impresso il sigillo della casata reale, portata su un vassoio d’argento e posata al centro della scrivania dello studio.


Sebastian la annunciò con voce neutra, aveva però un sorrisetto compiaciuto sul volto.
«Perché ridi?»
«La vecchia routine mi fa sorridere, Signore.»
Ciel aggrottò la fronte e si concentrò sullo scritto.

Partirono dieci minuti dopo, senza dire nulla ad Elizabeth che seppe dell’incarico solo alla sera dalla servitù. 
Tornarono solo una settimana dopo.

Ciel non le aveva scritto nemmeno un bigliettino e per quei giorni Elizabeth si sentì sola e impaurita come lo era stata anni prima dopo la tragedia.

 

Lizzy ritrovò gli occhi di Ciel in quelli del bambino orfano, arrabbiato e terrorizzato da una vita che gli era franata addosso di pochi anni prima. La curva della bocca era una smorfia, le labbra spaccate dai morsi.
Rientrato a casa, non la salutò né la guardò negli occhi.

Era sua moglie ma sembrava essere diventata invisibile, o peggio, fastidiosa.
Quell’intimità che avevano condiviso e l’aveva addolcito ora sembrava diventata uno spazio valido per ferirla.

Ordinò di preparare il bagno e poi andò subito a dormire.
Sebastian, dietro di lui, gli fissava le spalle - ancora esili malgrado l’età – con lo sguardo di uno sparviero a caccia.

Quando il padrone si avviò verso le scale del piano superiore, si rivolse ad Elizabeth e dopo un inchino: «Il padrone è stanco. Vi prego di portare pazienza.»
Lizzy di pazienza ne aveva, ma aveva anche le lacrime agli occhi. Aveva sofferto la sua mancanza e il timore per lui, e al suo rientro nemmeno uno sguardo, una parola, nulla.
«È stanco… 
 » ripeté come se ciò avesse potuto dare un senso e una giustificazione a quei comportamenti.

***

Quella sera cenò da sola perché Ciel, finito il bagno, aveva detto di non avere appetito e si era addormentato subito.
Adesso anche lei, superata la tristezza iniziale, provava per lui comprensione ma allo stesso insofferenza. Rimase fino a tarda sera nella biblioteca della villa a leggere: trovò consolante il buio un po’angosciante di quella sala stipata di libri, illuminato solo dalla luce calda e tremula di un candelabro.

Si era alzata per deporre un libro prima di dirigersi a letto, quando sentì i suoi passi irrompere nel silenzio della stanza. Dalla posizione in cui era gli dava le spalle. Non si girò.

Non aveva voglia di vederlo.

Ciel si avvicinò e la strinse da dietro, facendo scivolare le mani lungo i suoi fianchi, e appoggio la fronte sulla sua spalla. Poi strofinò il naso contro il suo collo, respirandone il profumo, imprimendole qualche bacio o semplicemente passandovi le labbra.

Elizabeth provò un misto di emozioni indefinite: una parte di lei avrebbe voluto semplicemente lasciarsi andare fra quelle braccia, forse sarebbe bastato quello per cancellare tutto il dolore di quel giorno: perdonarsi a vicenda, ritornare all’amata quotidianità. L’altra parte rispondeva che no, non sarebbe bastato.  Ella era ferita e offesa dal suo comportamento, avrebbe voluto allontanarlo perché non era giusto.

Era perché lo amava che sentiva di non poterlo perdonare così.
Perché andava bene che lui stesse male, ma quello che chiedeva lei era solo il suo rispetto, quello minimo che il marito
 deve alla moglie.
Elizabeth rimase rigida, con il libro nella mano, senza assecondare i desideri di Ciel né i propri.

«Fermati, Ciel, te ne prego.»
«Perché?» chiese lui con voce roca.
«Così mi fai sentire solo la tua puttana.»

Ciel lasciò cadere le mani lungo i propri fianchi senza sapere cosa dire. Le osservava la linea del collo e i capelli biondi, legati in una coda bassa e morbida, scivolare lungo la schiena.
Elizabeth sentiva le lacrime pungerle gli occhi e si morse le labbra. Posò il libro e uscì dalla stanza lasciandolo indietro.

L’orologio batté le tre del mattino e il suono rimbombò a causa dei soffitti alti e dell’ampiezza delle sale della residenza. Elizabeth si sentì un’estranea in quella casa e scoppiò a piangere.
Un’ora dopo Ciel si stese a letto accanto a lei, ma entrambi si davano le spalle, e il vuoto nel centro sembrò un oceano.

 Alle cinque del mattino seguente Elizabeth era già sveglia ma era rimasta nel letto. Osservava le spalle e la schiena di Ciel, con le scapole appuntite, a volte sollevava lo sguardo in direzione della finestra coperta dal pesante tendaggio.
Ella aveva le ginocchia portate al petto, vi appoggiava il mento e si abbracciava le gambe.
Aveva anche un mal di testa terrificante.

L’unico rumore di quella stanza era il suono lento e regolare del respiro del marito. Un paio di volte lo aveva sentito mugolare e aveva sorriso per la tenerezza.
Egli si svegliò a un certo punto con un sussulto, e si voltò subito a gettarle un’occhiata, ruotando solo il collo, senza mutare però posizione. Probabilmente anche lui si era offeso.

Elizabeth trovò tenerezza anche in quello, perché le ricordò un bambino. E perché forse quello era semplicemente l’amore.
Allora si distese dietro di lui, aderendo alla posizione del corpo di lui, incrociando le gambe alle sue, appoggiando la testa alla sua schiena e posando la mano destra sul suo fianco.

 Sorrise: che gambe esili, che belle gambe. 
Poggiò la fronte fra le sue scapole, Ciel profumava di buono.

 «Sei arrabbiato?»
«Tu sei arrabbiata.»

Ciel le prese una mano con la sua e cominciò ad osservarla come una cosa nuova.

«Non ti permettere mai più a dire una cosa del genere.»
«Cosa?»
«Che ti faccio sentire la mia puttana. Non dirlo mai più.»

Restarono quasi un minuto in silenzio, poi Ciel scelse di voltarsi.

Teneva l’occhio destro, sempre coperto da una benda, chiuso; con il sinistro la guardò con intensità. Ciel le strinse nuovamente la mano e la sollevò in alto. Era un gesto senza significato che si sentiva di fare perché si ricordava che, oscillando le mani legate in quel modo, quasi come due che ballano da sdraiati, avevano riso senza motivo il primo risveglio da sposati.

Elizabeth gli carezzò con l’indice lo zigomo e le ciglia.

«Mi hai offeso profondamente ieri sera, dicendo così, lo sai?»
«Anche tu ieri pomeriggio, senza nemmeno guardarmi dopo una settimana che non tornavi e non davi nemmeno tue notizie, mi hai ferita.»

 
Silenzio.

«E adesso quindi?»
«E adesso andiamo a fare colazione perché ieri sera non hai mangiato nulla.»
«Basta così?»
«Basta così.»

Ma forse non basta così.
Forse bastava così quel giorno, ma non tutti i successivi.

 ***

L’inverno di quell’anno fu terribilmente lungo e freddo: quando non nevicava pioveva quasi tutti i giorni e talvolta per molti di seguito. Non si poteva fare molto.
Un pomeriggio grigio come molti altri Ciel le fece una richiesta che non avrebbe mai immaginato.

«Tiriamo di spada.»
«Come, scusa?»
«Per stare qui ad annoiarci, duelliamo. Tanto sei brava.»

Avrebbe voluto rispondere di sì immediatamente. 
Perché, anche se non era femminile, amava la scherma e amava pure Ciel. Una volta le aveva anche detto di trovarla bella mentre impugnava l’elsa.
Malgrado tutto non poteva dimenticare le parole della zia Anne: una donna amabile era una donna indifesa.

«Non so…»
Con la spada rivolta verso di lui, Ciel avrebbe potuto vederla aggressiva, non bella.
Il fioretto non era per le donne.

Ciel sorrise. Le prese la mano e la accompagnò nella stanza più grande, quella in cui per anni si era esercitato con Sebastian.

Elizabeth non aveva il proprio fioretto perché di solito lo teneva vicino al letto, come aveva fatto sua madre prima di lei: come le aveva insegnato per proteggere i propri cari.

La donna le aveva mostrato la propria spada per la prima volta una notte buia di pioggia e tuoni.
«Per proteggere tutti quelli che amo anche dalle tenebre stesse»,
 le aveva sussurrato da piccola sua madre, quando per un incubo era andata a piangere nel suo letto.
«Anche dai mostri del sogno?»
«Se non se ne andranno presto, anche da loro»,
 le aveva sussurrato per poi baciarle le lacrime.
«Posso restare a dormire qui? Qui non verranno di sicuro.»
«Solo questa notte, però.»

La madre l’aveva stretta al petto fino al giorno dopo. Elizabeth ricordava ancora il profumo di pesca dei capelli, del seno, della pelle di sua madre.

Nel riporre la spada accanto al talamo, ogni sera, ricordava quella scena. Poi si stringeva a Ciel, che aveva un odore più intenso e maschio, e sorrideva pensando che la felicità aveva sempre un buon profumo.

Scelse una spada ben decorata che era appartenuta a Ciel, un po’ più corta di quella che usava di solito. 
All’inizio, malgrado la sua abilità si sentì impacciata, e il marito riuscì per un certo tempo a tenere il suo passo. Poi, quando smise di essere titubante, sorrise e cominciò a schermare con più vigore, talvolta ridendo.
Era divertente perché in quella stanza vi era tutto ciò che amava di più al mondo: Ciel, le spade e il ricordo di sua madre.

Era una Middleford - l’orgoglio del casato Middleford! -, ed ebbe facilmente ragione sul proprio marito. 
Quando, quasi senza accorgersene, lo disarmò, sentì di doversi vergognare. Per un momento Ciel mostrò un’espressione di disappunto.


Ella corse a raccogliere la spada e gliela riportò scusandosi con gli occhi bassi. Sicuramente non l’aveva trovata in alcun modo bella, e sicuramente era sembrata irrispettosa.

Il Conte sorrise teneramente.
«Perché ti scusi, Lizzy?»
Le sollevò il mento con due dita e le baciò sulla fronte.
«Hai giustamente vinto.»
«…»
«Che cosa succederebbe se la moglie del Cane da guardia della Regina non riuscisse a vincere con la spada?» 

***

 Appena si erano sposati –avevano diciassette anni- era stato bello. 
Due anni dopo, però, qualcosa cominciò a spezzarsi.
Forse il cuore di Ciel durante uno dei suoi incarichi per la Regina.
Come quella volta, tornò a casa funereo e non la guardò negli occhi. Sebastian, dietro di lui, non disse che il padrone era stanco.
Non disse nulla.

Elizabeth restò sola anche quella sera. 
Sebbene lo aspettasse (era arrabbiata, ma lo aspettava comunque), Ciel non andò a cercarla. Lei restò sveglia tutta la notte ad attenderlo, fosse anche solo per rifiutarlo; lui dormì fino alla sera del giorno dopo. In quella stessa uscì senza dire a nessuno dove andava. Tornò a notte fonda e puzzava d’alcool.

«Che cosa è successo, Sebastian? Ti prego dimmelo…»
Chiese Lizzy in lacrime al maggiordomo nero, dopo che Ciel aveva sbattuto la porta uscendo.
«Non posso risponderle, My Lady.»
«Te ne prego…»
«Solo il passato che torna, Mia Signora. Torna sempre.»
Aveva gli occhi freddi e lo sguardo di un predatore.

Quando Ciel tornò, si stese accanto a Elizabeth.
Ella non lo strinse e l’unica cosa che sentì fu quel terribile odore di alcolici.
 
L’infelicità aveva un odoraccio.

***

Se Ciel Phantomhive non era bravo a chiedere scusa, Elizabeth Middleford era brava a perdonare spontaneamente. 
Dopo una settimana, tornò la normalità –perché con il tempo qualcosa si aggiusta sempre- ma tornò tiepida.

Tiepida era anche la primavera delle campagne inglesi, che il Conte però non guardava, troppo concentrato a rigirarsi l’anello del padre fra le dita. 
Il cielo era terso, ma il blu della pietra era per i suoi occhi una calamita più attraente.
Ciel in quei giorni taceva spesso.

Ci sono due tipi di silenzi: quello della quiete, delicato e gradevole, che anche Elizabeth chiacchierona amava, perché significava poter sentire i loro respiri e il frusciare delle lenzuola al mattino; e c’è quel mutismo doloroso, denso e pesante come una benda sugli occhi, che maschera i pensieri mentre logora ogni cosa.

Il tacere di Ciel era una trincea.
Una volta Lizzy gli aveva chiesto che cosa avesse, che cosa fosse successo ed egli si era messo a urlare.
Elizabeth aveva sentito gli occhi pizzicare ma non aveva pianto. «Non farò più domande ma adesso hai finito?»
Era rimasta ad attendere la fine di quella lunga agonia che erano stati i suoi bruschi rimproveri.
Ciel non aveva risposto, se ne era andato sbattendo la porta. Nella stanza vuota Elizabeth si era portata una mano al ventre.

Il giorno prima della sua partenza avevano deciso di avere finalmente un erede –fino ad allora avevano scelto di seguire i loro tempi al di là delle pressioni esterne.
I loro tempi che sembravano essere giunti erano tornati indietro?
No,
 erano fuggiti via, mille miglia avanti a loro.

 Se l’uomo non riesce a tenere il passo, il passato lo supera ed inghiotte anche il futuro.

 

   
 
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