THE
BITTER END
L’INNOCENTE
CAPITOLO
PRIMO
LES
FLEURS DU MAL
Appena
si erano sposati
–avevano diciassette anni- era stato bello.
Ancora più di quando si amavano e basta, perché avevano cominciato a
poter
condividere stanze, silenzi e notti solo per loro.
Appena
si erano sposati,
Ciel si concedeva più spesso momenti di debolezza, di dolcezza e
distrazione.
Nella quiete di un’intimità sicura, egli aveva cominciato a sorridere
più
spesso e a sussurrarle qualche volta –quasi lasciandoselo sfuggire per
sbaglio-
che l’amava.
Erano parole strette fino all’ultimo fra le labbra, fino a quando Ciel
non
riusciva a trattenerle più, perché tutto quello che provava era troppo
e non
riusciva a serbarlo solo per se stesso: e allora glielo diceva di notte
all’orecchio, con un tono talmente basso da sembrare solo un soffio o
poco più.
Alcune
volte Lizzy
temeva di esserselo immaginato, quel suono ovattato. Non aveva mai
pensato che
delle parole potessero dare vita e stordire a quella maniera. Non
sembrava
possibile una cosa del genere.
Spesso avrebbe voluto chiedergli di ripeterle, perché quel suono
flebile le
riempiva il cuore, ma sceglieva sempre di non rompere la bellezza
evanescente
di quelle confessioni.
La
prima volta che Elizabeth fu sicura di aver capito
bene pianse di gioia fra le sue braccia per almeno un’ora.
Ciel
capì quella notte il significato dell’essere
amati.
Si svegliarono il mattino dopo lei con gli occhi gonfi ed entrambi con
le
occhiaie. Un altro tempo sarebbe stato nervoso tutto il giorno, allora
semplicemente la portò in campagna, loro soli. Risero, risero, risero e
si
baciarono tutto il dì.
Erano
bravi a fare
l’amore, loro due.
Non importava il luogo o l’occasione: sapevano farlo in silenzio senza
lasciarsi sfuggire nemmeno un respiro di troppo; in piedi, sdraiati;
nudi o
vestiti; in uno sgabuzzino o in un letto.
Non
importava.
Non importava a Lizzy, che in quei frangenti si disinteressava
completamente
del fatto che i suoi abiti potessero rovinarsi.
Non importava a Ciel di cosa potesse pensare la gente a vederli sparire.
Le
persone avrebbero pensato giusto, per una volta. Perche negargliene la
possibilità?
Non
era esattamente un
comportamento idoneo a un Conte al servizio della Regina, ma non
importava
nemmeno questo.
Dopo anni, Ciel Phantomhive si sentiva nuovamente vivo e felice e non
aveva
voglia di tornare al grigiore dei vecchi giorni precedenti.
Se l’infanzia gli era stata bruciata, perché rovinarsi anche l’età
adulta?
Sebastian
non sembrava
propriamente d’accordo con questo pensiero, ma seppe pazientare perché
conosceva l’indole umana e l’infamia con cui il mondo fa girare le
ruote del
Fato.
E infatti ebbe ragione.
***
Non erano passati molti mesi che la Regina richiamò Ciel al proprio
dovere con
un nuovo incarico.
La lettera arrivò allo stesso modo in cui erano arrivate tutte le
altre, tutti
gli anni precedenti, a tutti i Conti Phantomhive, da parte di tutte le
regine:
chiusa con la ceralacca con impresso il sigillo della casata reale,
portata su
un vassoio d’argento e posata al centro della scrivania dello studio.
Sebastian la annunciò con voce neutra, aveva però un sorrisetto
compiaciuto sul
volto.
«Perché ridi?»
«La vecchia routine mi fa sorridere, Signore.»
Ciel aggrottò la fronte e si concentrò sullo scritto.
Partirono
dieci minuti dopo, senza dire nulla ad
Elizabeth che seppe dell’incarico solo alla sera dalla servitù.
Tornarono solo una settimana dopo.
Ciel
non le aveva scritto nemmeno un bigliettino e per
quei giorni Elizabeth si sentì sola e impaurita come lo era stata anni
prima
dopo la tragedia.
Lizzy
ritrovò gli occhi di Ciel in quelli del bambino
orfano, arrabbiato e terrorizzato da una vita che gli era franata
addosso di
pochi anni prima. La curva della bocca era una smorfia, le labbra
spaccate dai
morsi.
Rientrato a casa, non la salutò né la guardò negli occhi.
Era
sua moglie ma sembrava essere diventata
invisibile, o peggio, fastidiosa.
Quell’intimità che avevano condiviso e l’aveva addolcito ora sembrava
diventata
uno spazio valido per ferirla.
Ordinò
di preparare il
bagno e poi andò subito a dormire.
Sebastian, dietro di lui, gli fissava le spalle - ancora esili malgrado
l’età –
con lo sguardo di uno sparviero a caccia.
Quando
il padrone si
avviò verso le scale del piano superiore, si rivolse ad Elizabeth e
dopo un
inchino: «Il padrone è stanco. Vi prego di portare pazienza.»
Lizzy di pazienza ne aveva, ma aveva anche le lacrime agli occhi. Aveva
sofferto la sua mancanza e il timore per lui, e al suo rientro nemmeno
uno
sguardo, una parola, nulla.
«È stanco… »
ripeté come se ciò avesse potuto dare un senso e una
giustificazione a quei comportamenti.
***
Quella
sera cenò da sola
perché Ciel, finito il bagno, aveva detto di non avere appetito e si
era
addormentato subito.
Adesso anche lei, superata la tristezza iniziale, provava per lui
comprensione
ma allo stesso insofferenza. Rimase fino a tarda sera nella biblioteca
della
villa a leggere: trovò consolante il buio un po’angosciante di quella
sala
stipata di libri, illuminato solo dalla luce calda e tremula di un
candelabro.
Si
era alzata per
deporre un libro prima di dirigersi a letto, quando sentì i suoi passi
irrompere nel silenzio della stanza. Dalla posizione in cui era gli
dava le
spalle. Non si girò.
Non
aveva voglia di
vederlo.
Ciel
si avvicinò e la
strinse da dietro, facendo scivolare le mani lungo i suoi fianchi, e
appoggio
la fronte sulla sua spalla. Poi strofinò il naso contro il suo collo,
respirandone il profumo, imprimendole qualche bacio o semplicemente
passandovi
le labbra.
Elizabeth
provò un misto
di emozioni indefinite: una parte di lei avrebbe voluto semplicemente
lasciarsi
andare fra quelle braccia, forse sarebbe bastato quello per cancellare
tutto il
dolore di quel giorno: perdonarsi a vicenda, ritornare all’amata
quotidianità.
L’altra parte rispondeva che no, non sarebbe bastato. Ella
era ferita e offesa dal suo comportamento, avrebbe voluto allontanarlo
perché
non era giusto.
Era
perché lo amava che
sentiva di non poterlo perdonare così.
Perché andava bene che lui stesse male, ma quello che chiedeva lei era
solo il
suo rispetto, quello minimo che il marito deve alla
moglie.
Elizabeth rimase rigida, con il libro nella mano, senza assecondare i
desideri
di Ciel né i propri.
«Fermati,
Ciel, te ne
prego.»
«Perché?» chiese lui con voce roca.
«Così mi fai sentire solo la tua puttana.»
Ciel
lasciò cadere le
mani lungo i propri fianchi senza sapere cosa dire. Le osservava la
linea del
collo e i capelli biondi, legati in una coda bassa e morbida, scivolare
lungo
la schiena.
Elizabeth sentiva le lacrime pungerle gli occhi e si morse le labbra.
Posò il
libro e uscì dalla stanza lasciandolo indietro.
L’orologio
batté le tre
del mattino e il suono rimbombò a causa dei soffitti alti e
dell’ampiezza delle
sale della residenza. Elizabeth si sentì un’estranea in quella casa e
scoppiò a
piangere.
Un’ora dopo Ciel si stese a letto accanto a lei, ma entrambi si davano
le
spalle, e il vuoto nel centro sembrò un oceano.
Alle
cinque del
mattino seguente Elizabeth era già sveglia ma era rimasta nel letto.
Osservava
le spalle e la schiena di Ciel, con le scapole appuntite, a volte
sollevava lo
sguardo in direzione della finestra coperta dal pesante tendaggio.
Ella aveva le ginocchia portate al petto, vi appoggiava il mento e si
abbracciava
le gambe.
Aveva anche un mal di testa terrificante.
L’unico
rumore di quella
stanza era il suono lento e regolare del respiro del marito. Un paio di
volte
lo aveva sentito mugolare e aveva sorriso per la tenerezza.
Egli si svegliò a un certo punto con un sussulto, e si voltò subito a
gettarle
un’occhiata, ruotando solo il collo, senza mutare però posizione.
Probabilmente
anche lui si era offeso.
Elizabeth
trovò
tenerezza anche in quello, perché le ricordò un bambino. E perché forse
quello
era semplicemente l’amore.
Allora si distese dietro di lui, aderendo alla posizione del corpo di
lui,
incrociando le gambe alle sue, appoggiando la testa alla sua schiena e
posando
la mano destra sul suo fianco.
Sorrise: che
gambe esili, che belle gambe.
Poggiò la fronte fra le sue scapole, Ciel profumava di buono.
«Sei
arrabbiato?»
«Tu sei arrabbiata.»
Ciel
le prese una mano
con la sua e cominciò ad osservarla come una cosa nuova.
«Non
ti permettere mai
più a dire una cosa del genere.»
«Cosa?»
«Che ti faccio sentire la mia puttana. Non dirlo mai più.»
Restarono
quasi un
minuto in silenzio, poi Ciel scelse di voltarsi.
Teneva
l’occhio destro,
sempre coperto da una benda, chiuso; con il sinistro la guardò con
intensità.
Ciel le strinse nuovamente la mano e la sollevò in alto. Era un gesto
senza
significato che si sentiva di fare perché si ricordava che, oscillando
le mani
legate in quel modo, quasi come due che ballano da sdraiati, avevano
riso senza
motivo il primo risveglio da sposati.
Elizabeth
gli carezzò
con l’indice lo zigomo e le ciglia.
«Mi
hai offeso
profondamente ieri sera, dicendo così, lo sai?»
«Anche tu ieri pomeriggio, senza nemmeno guardarmi dopo una settimana
che non
tornavi e non davi nemmeno tue notizie, mi hai ferita.»
Silenzio.
«E
adesso quindi?»
«E adesso andiamo a fare colazione perché ieri sera non hai mangiato
nulla.»
«Basta così?»
«Basta così.»
Ma
forse non basta così.
Forse bastava così quel giorno, ma non tutti i successivi.
***
L’inverno
di quell’anno
fu terribilmente lungo e freddo: quando non nevicava pioveva quasi
tutti i
giorni e talvolta per molti di seguito. Non si poteva fare molto.
Un pomeriggio grigio come molti altri Ciel le fece una richiesta che
non
avrebbe mai immaginato.
«Tiriamo
di spada.»
«Come, scusa?»
«Per stare qui ad annoiarci, duelliamo. Tanto sei brava.»
Avrebbe
voluto
rispondere di sì immediatamente.
Perché, anche se non era femminile, amava la scherma e amava pure Ciel.
Una
volta le aveva anche detto di trovarla bella mentre impugnava l’elsa.
Malgrado tutto non poteva dimenticare le parole della zia Anne: una
donna
amabile era una donna indifesa.
«Non
so…»
Con la spada rivolta verso di lui, Ciel avrebbe potuto vederla
aggressiva, non
bella.
Il fioretto non era per le donne.
Ciel
sorrise. Le prese
la mano e la accompagnò nella stanza più grande, quella in cui per anni
si era
esercitato con Sebastian.
Elizabeth
non aveva il
proprio fioretto perché di solito lo teneva vicino al letto, come aveva
fatto
sua madre prima di lei: come le aveva insegnato per proteggere i propri
cari.
La
donna le aveva
mostrato la propria spada per la prima volta una notte buia di pioggia
e tuoni.
«Per proteggere tutti quelli che amo anche dalle tenebre stesse», le
aveva sussurrato da piccola sua madre, quando per un incubo era andata
a
piangere nel suo letto.
«Anche dai mostri del sogno?»
«Se non se ne andranno presto, anche da loro», le
aveva sussurrato per poi baciarle le lacrime.
«Posso restare a dormire qui? Qui non verranno di sicuro.»
«Solo questa notte, però.»
La madre l’aveva stretta al petto fino al giorno dopo. Elizabeth
ricordava
ancora il profumo di pesca dei capelli, del seno, della pelle di sua
madre.
Nel
riporre la spada
accanto al talamo, ogni sera, ricordava quella scena. Poi si stringeva
a Ciel,
che aveva un odore più intenso e maschio, e sorrideva pensando che la
felicità aveva sempre un buon profumo.
Scelse
una spada ben
decorata che era appartenuta a Ciel, un po’ più corta di quella che
usava di
solito.
All’inizio, malgrado la sua abilità si sentì impacciata, e il marito
riuscì per
un certo tempo a tenere il suo passo. Poi, quando smise di essere
titubante,
sorrise e cominciò a schermare con più vigore, talvolta ridendo.
Era divertente perché in quella stanza vi era tutto ciò che amava di
più al
mondo: Ciel, le spade e il ricordo di sua madre.
Era
una Middleford - l’orgoglio
del casato Middleford! -, ed ebbe facilmente ragione sul proprio marito.
Quando, quasi senza accorgersene, lo disarmò, sentì di doversi
vergognare. Per
un momento Ciel mostrò un’espressione di disappunto.
Ella corse a raccogliere la spada e gliela riportò scusandosi con gli
occhi
bassi. Sicuramente non l’aveva trovata in alcun modo bella, e
sicuramente era
sembrata irrispettosa.
Il
Conte sorrise
teneramente.
«Perché ti scusi, Lizzy?»
Le sollevò il mento con due dita e le baciò sulla fronte.
«Hai giustamente vinto.»
«…»
«Che cosa succederebbe se la moglie del Cane da guardia della Regina
non
riuscisse a vincere con la spada?»
***
Appena
si erano
sposati –avevano diciassette anni- era stato bello.
Due anni dopo, però, qualcosa cominciò a spezzarsi.
Forse il cuore di Ciel durante uno dei suoi incarichi per la Regina.
Come quella volta, tornò a casa funereo e non la guardò negli occhi.
Sebastian,
dietro di lui, non disse che il padrone era stanco.
Non disse nulla.
Elizabeth
restò sola
anche quella sera.
Sebbene lo aspettasse (era arrabbiata, ma lo aspettava comunque), Ciel
non andò
a cercarla. Lei restò sveglia tutta la notte ad attenderlo, fosse anche
solo
per rifiutarlo; lui dormì fino alla sera del giorno dopo. In quella
stessa uscì
senza dire a nessuno dove andava. Tornò a notte fonda e puzzava
d’alcool.
«Che
cosa è successo,
Sebastian? Ti prego dimmelo…»
Chiese Lizzy in lacrime al maggiordomo nero, dopo che Ciel aveva
sbattuto la
porta uscendo.
«Non posso risponderle, My Lady.»
«Te ne prego…»
«Solo il passato che torna, Mia Signora. Torna sempre.»
Aveva gli occhi freddi e lo sguardo di un predatore.
Quando
Ciel tornò, si
stese accanto a Elizabeth.
Ella non lo strinse e l’unica cosa che sentì fu quel terribile odore di
alcolici.
L’infelicità aveva un odoraccio.
***
Se
Ciel Phantomhive non
era bravo a chiedere scusa, Elizabeth Middleford era brava a perdonare
spontaneamente.
Dopo una settimana, tornò la normalità –perché con il tempo qualcosa si
aggiusta sempre- ma tornò tiepida.
Tiepida
era anche la
primavera delle campagne inglesi, che il Conte però non guardava,
troppo
concentrato a rigirarsi l’anello del padre fra le dita.
Il cielo era terso, ma il blu della pietra era per i suoi occhi una
calamita
più attraente.
Ciel in quei giorni taceva spesso.
Ci
sono due tipi di
silenzi: quello della quiete, delicato e gradevole, che anche Elizabeth
chiacchierona amava, perché significava poter sentire i loro respiri e
il frusciare
delle lenzuola al mattino; e c’è quel mutismo doloroso, denso e pesante
come
una benda sugli occhi, che maschera i pensieri mentre logora ogni cosa.
Il
tacere di Ciel era
una trincea.
Una volta Lizzy gli aveva chiesto che cosa avesse, che
cosa fosse successo ed egli si era messo a urlare.
Elizabeth aveva sentito gli occhi pizzicare ma non
aveva pianto. «Non farò più domande ma adesso hai finito?»
Era rimasta ad attendere
la fine di quella lunga agonia che erano stati i suoi bruschi
rimproveri.
Ciel non aveva risposto, se ne era andato sbattendo la porta. Nella
stanza
vuota Elizabeth si era portata una mano al ventre.
Il
giorno prima della
sua partenza avevano deciso di avere finalmente un erede –fino ad
allora
avevano scelto di seguire i loro tempi al di là delle pressioni esterne.
I loro tempi che sembravano essere giunti erano tornati indietro?
No, erano
fuggiti via, mille miglia avanti a loro.