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Autore: okioki    17/07/2013    1 recensioni
Guevsse, nella parte bassa della città si enala un tanfo che rende la vita impossibile. Il tempo passa ma il puzzo ristagna nell'aria, sempiterno, a ricordare il passato a un certo Signore dei Mari i cui occhi non sono più abituati a realtà del genere...
« Qual è il tuo più grande sogno? Raggiungere la città alta? È quello che vogliono tutti i miei figli, sebbene non capisco cosa ci troviate: non è poi tanto dissimile da quella bassa.»
2^ classificata al contest "A strange Fantasy" indetto da scrapheap_sama sul forum di EFP.
Genere: Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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(p.5,8;p.6,3;p.7,5)

 

 

Diciamo che è una storia in cui ho evitato di inserire molti spezzettoni (un prologo decente tanto per dire, e alcune cose nel mezzo prima della “fine”) sia per motivi di tempo sia perché temevo di superare il limite di parole per la long. All’inizio avevo idea di scrivere la storie alludendo in maniera vaga alle cose che erano successe in passato, ma mi sono lasciata trascinare talmente tanto da Rael ( e inoltre ritengo questo uno dei background più belli da me creati) ho deciso di narrare le cose in modo chiaro… anche se diciamo che la forma ne risente, e sembrano più che altro pezzi di storia ( ed è ciò che sono in effetti!) tenuti attaccati da un collante scadente. Spero, in un futuro non molto di remoto, di riprenderla e completarla e magari anche migliorarla!



«Sei stato via per molto tempo, è vero. Ma mi sorprende che tu sia riuscito a dimenticarti il tanfo che emana questa città» gli disse lo Smaltitore, atono.
Rael non aveva fatto altro che rivolgersi a lui in quel modo, dall'inizio del suo arrivo. Tutti in realtà gli erano parsi mutati, non solo nel volto ma anche nell'anima. Più nell'anima che altro, i roicani della baia sembravano aver sviluppato un abilità nel farlo sentire inquieto.
Rael nell'aspetto non era cambiato molto, si era solo evoluto. Aveva sempre pensato, sin da quando erano ancora bambini, che l'amico avesse quel genere di bellezza guasta che s'adattava oltre modo a Guevsse, ed era stato piacevole riscontrarlo anche dopo tanto tempo che non si vedevano. All'inizio lo era stato senza dubbio, ma poi gli occhi scuri dello Smaltitore non avevano fatto altro che restare fissi sulle sue iridi, mentre con fare meticoloso sorseggiava uno strano intruglio nel suo bicchiere.

«Sei cambiato.» Erano state le sue prime parole, appena l'aveva intravisto; da quelle Lyandro aveva compreso che il torto subito non gli era ancora stato perdonato, che le sue giustificazioni, agli occhi di Rael, non avevano importanza. «Cos'hai fatto agli occhi?» l'aveva infatti interrotto al suo primo tentativo di prender parola, bruscamente. «Hai gli occhi di un Signore...» aveva continuato a scrutarlo intensamente – e da allora non aveva smesso – invitandolo alla sua tavola.
«Un Signore dei Mari» aveva replicato Lyandro, sedendosi. Il mantello che indossava era sbiadito, logorato nella parte bassa, e aveva iscritti sul cappuccio idiomi in una lingua sconosciuta.
Rael aveva dischiuso la bocca. «Sei stato a Zernes? Una volta ho sentito dire che lì i grandi sapienti o Signori bevono assenzio. Non credo d'averne.»
«Mi confondi coi Signori della Guerra» era stata la risposta blanda di Lyandro. “Quella è una massima che appartiene a loro”. Aveva accettato il tozzo di pane azzimo che Rael gli aveva allungato, pensando che la nuova posizione non aveva cambiato il suo amico. Sì, portava la cappa di satin e le brache di un tessuto pregiato, ma era rimasto come fedele alle sue origini, aveva ancora quella stessa aria di superiorità che lo distingueva tra mille. Avrebbe voluto dirglielo davvero, ma sapeva che non avrebbe gradito.
«Cosa sei allora? Cosa fanno i Signori del Mare? Controllano i mari?» gli aveva allora chiesto l'altro, piattamente. Mentre parlava non guardava lui, guardava i suoi occhi, le sue pupille azzurre.
«No, tutti coloro che ho incontrato qui a Guevsse mi hanno fatto la stessa domanda.» Lyandro aveva accennato un sorriso, mentre sbriciolava le molliche di pane. «Semplicemente so come domare i venti che disperdono altri in mare.»
«Ho sempre pensato che fosse l'occupazione adatta a te. Alla fine, non puoi evitare di fare l'eroe» aveva costato Rael. La sua voce aveva subito una sfumatura graduale, da atona si era inasprita al pronunciare “eroe”.
Lyandro era rimasto interdetto. “Io invece non mi sarei mai aspettato che avresti accettato queste vesti... per quanto ancora io ti ammiri, non ho ammirato questa tua scelta”, ma questo non l'aveva detto. «Io invece... pensavo che avessi a cuore la Baia, la Madre, gli altri orfani. Pensavo avessi dei sogni.»
Rael l'aveva guardato a lungo, nei suoi occhi neri Lyandro aveva visto passare una luce beffarda. Lo stava deridendo, con il suo sguardo sembrava chiedergli in che modo gli fosse mai venuta in mente una cosa del genere.
«Eri tu quello coi sogni di terre straniere. Io non ho mai avuto altro che un'ambizione. Una sola: quella d'arrivare lì su.» E da quell'anfratto scavato nel monte, gli aveva indicato con la testa il punto più alto. Il punto più inarrivabile per loro, oltre la piazza, oltre quei gradini mastodontici e quelle guardie sempiterne che sembravano sorvegliarla dal principio dei tempi, oltre il portale: la città alta.
I suoi occhi, se possibile, s'erano fatto ancora più intensi, attraendolo in un incanto che aveva il suono dei sibili velenosi. Lyandro si era accorto che nonostante gli anni di lontananza le parole di Rael avevano in lui ancora lo stesso ascendente. Si stava lasciando affascinare: era quello il potere dell'amico, un potere che nemmeno gli occhi chiari che aveva ottenuto poteva eguagliare. Quel potere si chiamava carisma. Quelle parole, nel passato, pronunciate da qualsiasi altro roicano della baia sarebbero apparse i deleteri di un sognatore folle; dette dal Rael bambino assumevano un'inclinazione pericolosa e forse veniva quasi da credere che lui, un Orfano della città bassa, ce l'avrebbe fatta; ora sentirle dallo Smaltitore adulto le rendevano quasi una cosa certa.
Aveva chiuso gli occhi Lyandro, stremato dalla scontro con quelle pupille nere ed ermetiche, cercando di fermare l'incanto. Ma non poteva lasciarsi affascinare, perché sapeva quale era la via che il suo amico stava conseguendo per poter giungere lì su: una rampa creata dai corpi dei suoi fratelli, per raggiungere la parte alta della città. E all'apice sarebbe stata loro madre. Non più, forse Rael l'aveva rinnegata...
Quando fuori dalla dimora della madre aveva visto accasciati sulla soglia tutti quei bambini senza gaudio, già da lì aveva capito che c'era qualcosa che non andava. La genitrice era intenta ad allattare un neonato quando era entrato nella Baia, aveva gettato un occhio pigro su di lui senza ricoprire le sue nudità, «Chi non muore si rivede» gli aveva detto; se quello non era il saluto propenso che si aspettava dopo tanti anni Lyandro non l’aveva dato a vedere. Non c’era stato mai nulla di molto allegro negli atteggiamenti della Madre, né nella sua persona, tuttavia se c’era un atmosfera di gioia che nemmeno una giornata di sole alla Baia poteva replicare era proprio dovuto ai bambini di cui si circondava. Ma era tutto cambiato. Lui le aveva domandato di Rael, su come l’avrebbe trovato quando sarebbe giunto in città. «Rael, avrei dovuto picchiarlo di più da bambino» gli aveva risposto la Madre, improvvisamente addolorata. « “Di tutto ciò che c’è dato al mondo c’è un dato tempo per piegarlo” si diceva, dopodiché…» Aveva alzato le spalle, mandandogli a chiamare un Orfano, perché l’accompagnasse in città. «Figlio Lyandro, anche senza un perché sento che non ti tratterrai per molto: sei sempre stato uno che parte e basta, tanto per partire. Vai da quel tuo fratello snaturato, forse gli ricorderai che il giorno in cui ha deciso di separare i suoi affari da me l'errore che ha commesso è stato grave...» Ma se gli avesse riferito una cosa del genere non sarebbe cambiato niente. Sebbene sia le minacce che le suppliche non avrebbero di certo fatto facilmente desistere Rael dalle sue ambizioni, Lyandro lo conosceva bene e riteneva più saggio procedere con la seconda di opzione. «Dovresti aiutarla» si era costretto a dire, sapendo già che l’amico l’avrebbe odiato. Rael odiava salvare le persone, odiava ogni atteggiamento magnanimo, eroico e signorile.
Non c'era stato nessun cambio d'espressione, mentre quello gli dava la risposta.
«Sei stato via per molto tempo, è vero. Ma mi sorprende che tu sia riuscito a dimenticarti il tanfo che emana questa città...»

Pioveva forte. L'antro in cui abitava Rael dava davanti alla piazza della città bassa. Era nel quartiere degli antri, quei buchi angusti scavati nella roccia granitica del monte, dei quali alcuni fungevano da passaggio e s'inoltravano in profondità fino a formare veri e intrinsechi labirinti di roccia. Ma per la maggiore erano il tipo d’abitazione più comune che si poteva trovare nella città bassa. Quando ancora abitava in quella città quegli insediamenti erano nuovi, pericolosi e abusi, la guardia cittadina si era mossa con durezza cercando di stroncarle sul nascere, ma col tempo era stato il popolo a primeggiare. Ingrossata dai sedimenti, l'acqua piovana scorreva giù dalle sporgenze del monte e faceva traboccare i catini, i fusti, sistemati per raccoglierla e le condutture riversandosi sulla strada e formando un vero e proprio canale. La pioggia aveva spazzato via la cappa d'afa opprimente che solitamente era distesa su Guevsse; ma il fetore delle feci e del piscio, delle condutture intasate e dei corpi non lavati restava asfissiante.
Lyandro sapeva che una simile richiesta non avrebbe mai fatto presa sullo Smaltitore, ma non capiva a cosa alludeva riguardo il tanfo di Guevsse. Se mai l'aveva dimenticato, appena entrato in città - già d'allora pioveva - gli era tornato familiare: la strada per il quartiere degli antri si diramava in vari vicoli che s’incrociavano un centinaio di volte, formando intricati manti stradali difficili da seguire, tra lo spesso fango e l’acqua piovana che si riversavano ai lati del fondo stradale e una nebbia densa e mezza gelata teneva oppresse le viuzze più strette e remote. Non sentire il tanfo da allora era stato impossibile.
“Snaturato”, forse era un termine giusto per definire Rael. Nemmeno per la donna che l'aveva cresciuto avrebbe rinunciato ai suoi propositi. L'abnegazione era un'eresia per lui, che sin da bambino aveva imparato a badare solo a se stesso. E non sarebbe stato di certo Lyandro, che si poteva definire una sorta di suo allievo, a fargli cambiare idea. L'unica persona ad avere mai avuto una lieve influenza sulle sue azioni era Esmera, da quel che il Signore dei Mari ricordava.
«Dov'è Esmera?» Si era accorto solo in quel momento che non c'era. Lei, che negli anni passati era sempre stata accanto a Rael. Forse era dovuto a quello il peggioramento dell'amico, Esmera stessa glielo diceva sempre che era il freno per il ragazzo dagli occhi d'ossidiana.
«Non qui» rispose Rael.
«Come sarebbe a dire?» continuò, la risposta vaga di Rael non era per nulla soddisfacente. «Nostra sorella, che ti stava sempre appresso...»
«Non più. Non è più qui da molto tempo, ma 'sti cazzi di Esmera... Hai trovato la città cambiata, al tuo ritorno?» gli domandò.
Quel cambio di tono così drastico, disorientò per un momento Lyandro. Rael gli si era rivolto con un'inclinazione vocale che quasi sembrava richiamare un qualche sentimento, forse gentilezza. Avrebbe voluto continuare a domandargli di Esmera, ma si disse che non poteva perdere quell'opportunità: quei magnetici occhi neri, che non aveva mai distolto lo sguardo dalle sue pupille modificate, sembravano avergli lasciato finalmente un po' di spazio.
«Bitume» mormorò Lyandro ricordandosi, quando l'aveva visto era stato davvero sorpreso. «Sentivo nostalgia di casa, perfino dell’anfrattuosità del terreno, e sono rimasto allibito. È attendibile la notizia secondo cui hanno bitumato tutte le strade de Guevsse. Speravo c’è ne fosse ancora qualcuna scavata nella roccia.»
Lo Smaltitore inclinò il capo, portandosi alle labbra marroni lo strano intruglio.
«Cosa sono tutte queste parole difficili? Cosa credi di dimostrare?» Il sorriso che gli rivolse Rael era sfuggente, ferino. « La Roica è sempre stata avanti con le cose nuove, rispetto alle terre occidentali. Ma sembra che tu ti sia lasciato infinocchiare: nonostante tutte le novità questa città continua a puzzare di marcio.»
Quel volto beige, incorniciato dai lunghi capelli, continuava a guardarlo dritto nelle iride.
Rael era sicuramente più bello della maggior parte dei roicani che abitavano nella città bassa, ma la sua bellezza era difettosa, e lo metteva a disagio. Ma forse l'amico non smetteva di scrutargli le iridi perché trovava il suo aspetto bislacco. Il Signore dei Mari non poteva dargli tutti i torti, anche a lui sarebbe apparso strano vedere un roicano della baia con gli occhi chiari.
Lyandro ammiccò, finalmente qualcosa di simile ad un'espressione era comparsa sul volto dell'amico. Non si era nemmeno offeso quando l'aveva canzonato sul suo modo di parlare. «E sarebbe questo il tuo compito, quindi? Rimuovere il marcio dalla città?» gli domandò acido.
«Il mio compito è semplicemente quello di eliminare i rifiuti.» Rael si fermò, quel sorriso disumano dipinto sulle labbra. Ma non disse di più, non ciò che realmente pensava.
Lyandro cominciava ad irritarsi, non sopportava tutto quell'alone di mistero. Gliele avrebbe tirate fuori a forza quelle parole, e anche se era la persona che più aveva ammirato nella sua vita, non avrebbe esitato a scontrarcisi. «E chi sarebbero?»
«Si vede che sei stato tanto tempo fuori... Ma anche da mocciosi si sa che i rifiuti qui non sono altro che quella troia consumata che si fa chiamare Madre e suoi Orfani. Non c'è altro che si può considerare un “rifiuto” qui a Guevsse, se non contiamo i malavitosi dei vicoli» gli spiegò con calma Rael.
Lyandro aveva gli occhi spalancati, si era ripromesso di non meravigliarsi, perché sapeva bene che genere di uomo era. Un uomo senza rimorso. Eppure guardandolo non riusciva a odiarlo. L'avrebbe combattuto se si fosse arrivato a tanto, per la Madre, per gli Orfani, perché era giusto, ma non l'avrebbe mai odiato. Non l'avrebbe mai ripudiato, per lui sarebbe stato sempre suo fratello.
«Molte cose sei stato Rael...» gli disse. «Ma mai un'ipocrita. È questo il marcio della città, te ne do atto... ma tu vorresti tirartene fuori, vorresti dirmi che anche tu non fai, o non hai fatto in passato, parte di questi “rifiuti” che adesso elimini come se non fossero mai stati niente? Tu odiavi, questi lavoro.»
«Quando avrei detto marcio?» Lo Smaltitore si alzò di scatto, scrollando le spalle. «Lyandro... Che cosa ti hanno fatto in mare, ti hanno rubato il ricordo? Sembra che un Signore dei Mari tu lo sia da una decina di anni tanto da non ricordarti nemmeno più il tanfo che emana questa città!» Ridendo lo prese per un braccio, indicandogli la piazza che gli si dipanava davanti: dalle sporgenze della roccia granitica scendevano rivoli d’acqua di fogna, che come un flusso d'acqua seguivano l'inclinazione della strada e si riversavano nei quartieri ancora più sottostanti. Lyandro spalancò gli occhi, Rael stava reagendo alle sue provocazioni! O almeno così gli parve, perché l'attimo dopo tornò calmo con una rapidità che aveva dell'inquietante. «Quando piove, l’acqua straborda dalle condutture e si riversa in strada: una fogna a cielo aperto la chiamiamo… Pensavo che salendo sempre più in alto, superando i drappelli di guardia che impediscono l’accesso agli abitanti dalle zone più basse, le cose sarebbero cambiate, che non avrei mai più dovuto vedere questo misero spettacolo...»
Le ultime parole costrinsero Lyandro a spostare lo sguardo dalla strada al volto dell'amico, niente in apparenza sembrava esser mutato, ma al Signore dei Mari sembrò di vedere un qualche sentimento negli occhi dell'amico. E non capiva quale. “Cosa diamine è accaduto?” glielo avrebbe voluto chiedere; ma con la stessa velocità con cui era iniziato, il diluvio scemò, riducendosi a una debole pioggerellina. Una zaffata d'aria arrivò proprio in quel momento al loro antro, risvegliando i sensi sopiti di Lyandro.
Il tanfo di quella città, forse riusciva a ricordarlo...


Quando non era attraversata dalla piogge Guevsse si lasciava ad un caldo torrido.
Ragazzini nudi che scivolavano e planavano sul fango della piazza, inseguiti dalla guardia cittadina e qualsivoglia venditore a cui avevano rubato qualcosa. Dai pochi antri sorti, la gente guardava con pigrizia quello spettacolo usuale, lasciandosi travolgere dal caldo. In giornate di sole simili a quella, le gradinate di marmo traslucido che portavano alla città alta riflettevano la luce in maniere mistica, facendo apparire l'ascesa come un collegamento tra cielo e terra.
Lyandro, cupo, riversava in un vicolo della strada come tanti altri bambini, tra le pareti viscide di melma di una costruzione e l'ombrosità di quei luoghi a nascondere le attività malavitose. La strada principale davanti al vicolo era allagata e il lerciume smosso aveva formato una schiuma di fango brunastro che pareva quasi glassa. Qualcuno aveva sistemato delle assi di legno a formare una passerella improvvisata sull'acqua sudicia. Lyandro e suo padre avevano abitato all'estremo lembo sinistro di quella città su di una montagna paludosa che era Guevsse, in una viuzza collegata alla Piazza della Scala e che s'addentrava nei meandri e negli antri della città sospesa. Alla fine lì era stato bene, gli veniva da pensare ogni tanto, se si sporgeva dalla finestra poteva vedere il fumo denso che usciva dalla città alta e le due guardie sempiterne che sorvegliavano il portale. Com'era arrivato a quel punto? Si chiese. Solo due anni prima viveva in un quartiere a modo con suo padre, ed era stato a un passo dal lasciare quella città maledetta. E adesso andava portandosi avanti in un vicolo malavitoso all'ombra perfino della città bassa, dove accadevano le cose peggiori. Appena l'altro giorno ne aveva vissuta una terribile: stava appunto aspettando l'arrivo di Quan, dai più detto Spaquosa, per rendergli un'offesa gravissima. Già un paio di bambini si erano radunati, silenziosi, per assistere allo scontro.
Nell'attesa Lyandro fissava le pozzanghere fangose, cercando d'immaginare un modo per venir fuori da quella città merdosa, sempre che ce ne fossero, anche strisciando. Il suo volto riflesso nell'acqua pareva quello di un estraneo, era da due anni che non poteva più considerarsi un bambino. Portava i capelli lunghissimi e stepposi e sporchi, gli occhi scuri parevano stanchi, con i bulbi iniettati di sangue, il viso ovale sciupato e pallido gli dava l'aria di un lupo reietto. Dischiuse le labbra piene in un sorriso stentato quando udì i passi e la voce del ragazzino che aspettava farsi più vicino, ma il ragazzino in questione gli rispose con un ringhio. Lyandro alzò gli occhi verso di lui, doveva apparire sicuro davanti a tutti gli spettatori, doveva far capire che non dovevano aver paura di quel Spaquosa, che era solo un prepotente e che l'avrebbe pagata. Spaquosa si era portato tre o quattro scagnozzi, ragazzini di mole molto più piccola della sua, ma con facce per nulla rassicuranti. L'altezza non era mai stata una cosa che l'aveva portato a ritrarsi, Quan lo superava di una spanna ed era molto più grosso, ma Lyandro era sicuro che con una giusta dose di abilità e agilità sarebbe riuscito a batterlo. Si scrocchiò le dita, facendogli un cenno.
«Spaquosa, sei venuto» disse.
Non ci fu nessuna replica da Spaquosa, che si fece avanti con i pugni alzati.
“È così stupido che deve subito menare le mani” pensò Lyandro divertito. Non che lui fosse molto istruito, ma aveva passato abbastanza tempo con suo padre per imparare a scrivere, leggere, e parlare in maniera abbastanza forbita per i bassifondi di Guevsse.
Cominciarono a scannarsi un momento dopo.
Spaquosa fece affidamento sulla stazza, buttandoglisi contro e cercando di metterlo a terra, ma Lyandro evitò l'affondo lanciando un'occhiata preoccupata ai suoi scagnozzi. Sarebbero intervenuti anche loro? Se era così si metteva male. Intanto approfittò del momentaneo vantaggio per sferrargli un paio di calci, ma sembrava che stesse facendo a calci con la gomma per quando le sue esili gambe rimbalzavano. Spaquosa si alzò grugnendo un ruggito, cercando di coglierlo di sorpresa con un mal rovescio veloce. Lyandro si abbassò, sorpreso da tale rapidità, e caricò sul ventre prorompente tirandogli tutti cazzotti. Con una menata Spaquosa l'allontanò, facendolo finire a gambe all'aria, esposto alle risate di tutti. Lyandro digrignò i denti rimettendosi subito in piedi con un balzo, non avrebbe lasciato che lo deridessero. Spaquosa aveva il viso rosso, e sulle labbra un ghigno per nulla promettente. Improvviso, sentì un liquido caldo scorrergli sulla guancia, si toccò la guancia e scoprì le dita rosse e appiccicaticce: era sangue. Lyandro sgranò gli occhi, accorgendosi all'improvviso del coltellino che Spaquosa aveva stretta a pugno nella mano sinistra.
«Infame!» sbraitò, in modo che tutti lo potessero sentire. «Era uno scontro a mani nude!»
Intorno a loro si alzarono mormorii carichi di tensione e paura. Gli scagnozzi di Quan, alle sue spalle, si fecero improvvisamente più vicini e Lyandro capì di trovarsi circondato. Poco importava, non sarebbe scappato, l'unica cosa da cui aveva da guardarsi era il coltelletto che impugnava Spaquosa. Forse avrebbe dovuto far in modo che lo scontro si spostasse nella piazza, lì non avrebbero di certo potuto ucciderlo davanti al portale e alla guardie.
«Lo Smaltitore mi ha dato questo coltello! Quindi ho il potere di usarl...»
“Ora!”. Lyandro colse l'occasione in cui tutti era concentrati sulle parole di Spaquosa per correre alla fine del vicolo, inutili furono le braccia che cercavano di riacchiapparlo, agile le evitò tutte, fino a ritrovarsi sulla via principale, sulle passerelle di legno.
Per fargli capire che non stava scappando, con la mano fece cenno a Quan di seguirlo. «Sono stanco della puzza che si respira agli angoli della città, se è lo Smaltitore a mandarti non avrà niente in contrario se continuiamo il nostro scontro nella piazza aperta!»
Detta questo continuò a correre, seguito da Spaquosa, i suoi scagnozzi e il resto della folla che si era radunata a guardarli. “Bene, ora che non corro il rischio di morire, posso batterlo e rendergli il torto!” si disse Lyandro, andando a varare con la mente alle possibili tattiche da usare per stendere l'avversario. Seguendo la passerella arrivò alla piazza circolare, senza doversi introdurre in qualche antro, e sottostando agli sguardi degli abitanti curiosi degli antri abusivi. “Un po' di rumore deve essere uno spettacolo atipico per loro,” pensò Lyandro con il fiato corto, “ e prima io vivevo come gente del genere!”.
Si mise in posizione di combattimento, quando vide che Spaquosa era arrivato. Ora che non lo poteva ammazzare il problema restava solo uno: evitare i fendenti del coltello, e, magari, non farsi tagliare qualche tendine.
Non aspettò nemmeno che la folla li raggiungesse, e gli si buttò contro, menando pugni a destra e a manca sul suo viso, per poi ritrarsi al minimo movimento di Quan. Qualche affondo gli era riuscito e decise che quella sarebbe stata la sua tattica. Oramai non c'era proprio più niente di cui preoccuparsi visto che a quanto pare i ragazzini che l'avversario si era portato dietro non avevano alcuna intenzione di attaccarlo.
Spaquosa aveva il volto contratto in una smorfia di stanchezza, correre portandosi tutta la sua stazza appresso lo doveva aver lasciato senza fiato, e questo era un ulteriore vantaggio. Lyandro continuò per un po' con questa tattica, facendosi avanti e poi ritraendosi con velocità, ma con il tempo le braghe finirono inzuppate dal fango, appesantendosi e rendendogli i movimenti più lenti. Per poco mancò che Spaquosa riuscisse ad acchiapparlo, ma fortunatamente era molto più lento di lui. Lyandro indietreggiò con il busto al nuovo fendente lanciatogli, incespicò con le gambe e cadde a terra, tra il fango e l'acqua. La folla si era di nuovo raggruppata, e adesso anche gli abitanti guardavano curiosi quello spettacolo dagli antri.
In men che non si dica Spaquosa fu sopra lui e Lyandro si sentì sollevare. Scalciò e si dimenò, ma la presa che lo teneva sembrava fatta d'acciaio. “Fanculo!” pensò fra sé e sé davanti al sorriso soddisfatto di Quan; era davvero brutto: aveva la pelle chiara che s'avvicinava in modo incredibile a quello di alcuni roicani del tempio, il viso rubicondo e le guance paffute ricoperte da sgarri e brufoli, gli occhi piccoli e ambrati pieni di cattiveria. Il desiderio di sferrargli un pugno in faccia era opprimente quanto insostenibile, in quel momento. Lyandro gli sputò in faccia, tanto non aveva niente da perdere, l'avrebbero ammazzato di botte e forse anche fatto di lui la loro puttana. Rabbrividì al solo pensiero. Lo sputo era andato a centrare il mento prorompente di Quan, il quale se lo pulì svogliatamente con la mano; continuava a tenere quel sorriso, era calmo, da lì a poco gli avrebbe fatto rimpiangere di averlo sfidato. Lyandro prese aria nei polmoni per potergli urlare quanto era infame e pusillanime, ma non fece in tempo.
Quan cominciò a tempestargli il ventre di coltellate.
All'inizio non faceva male, ma poi il dolore arrivò pungente e lancinante quando gli colpì un punto in cui dovevano trovarsi le costole. Allora Lyandro lanciò un urlo lancinante cominciando a dimenarsi come un pazzo, tratteneva a stento le lacrime. Tutti i rumori degli spettatori, gli urli che si mischiavano ai suoi gli sembravano lontani, riusciva solo a udire la risata di Quan, che lasciato il coltello continuava imperterrito a tempestarlo di pugni, facendolo sputare sangue. Che ingenuo era stato, non l'avrebbe ucciso, ma di sicuro gli avrebbe fatto molto male...
Poi il dolore svanì e si sentì di nuovo lucido, aveva tutta la tunica inzuppata e appiccicaticcia. Lyandro si vergognò di se stesso, aveva lasciato che il malore gli adombrasse i sensi, ma in realtà non era ancora finita, poteva ancora combattere, scappare. Dimenando un poco le gambe si accorse che il ragazzino che lo stava tenendo aveva le gambe divaricate, cercando di non far caso ai colpi allo stomaco e al suo continuo tossire sangue, concentrò tutte le sue energie in un calcio all'indietro, ben assestato ai testicoli dello scagnozzo di Spaquosa. Funzionò, con un'imprecazione il ragazzo lasciò la presa e Lyandro scivolò a terra e veloce cominciò ad indietreggiare. Un'ovazione si levò tra gli spettatori, mentre Lyandro tra sé e sé li malediva. “Cazzo, nemmeno la guardia cittadina che interviene! Sarà tutta opera dello Smaltitore...”
Cercava di correre, ma si accorse che in realtà incespicava molto lentamente. Sentiva lo sguardo divertito di Quan posato sulle sue spalle: quello che stava offrendo doveva essere uno spettacolo molto divertente. Il fiato era pesante, non sentiva dolore ma gli riusciva difficile muoversi, forse era più grave di quanto pensasse. Evitò le direzioni in cui erano ammassati i ragazzi che avevano assistito allo scontro, optando di dirigersi verso le mastodontiche scale che portavano ai drappelli delle guardie, ma perfino la vista gli si era annebbiata. Improvvisamente sentì le gambe cedere, e cadde a terra. Doveva apparire veramente insulso. Si voltò in direzione di Quan, e s'accorse che la distanza che aveva percorso non era poi molta visto che con quattro passi Spaquosa lo raggiunse.
«Ora sei mio» gli sussurrò questi prendendolo per i fianchi. Lyandro cercò di scalciare, ma ogni tentativo fu vano, allora non sapendo cosa fare gli sputò addosso il sangue che aveva in bocca. Sangue, continuava a uscirgli sangue dalla bocca. Non capiva cosa gli era successo, non sentiva dolore ma non riusciva a muoversi nemmeno come voleva.
Poi d'un tratto, vide Quan farsi indietro tenendosi il volto sanguinante tra le mani. Di seguito, la voce squillante di una ragazzina gli arrivò prepotente alle orecchie. «Ecco il nostro bel Spaquosa !» disse ridendo. Lyandro girò il viso dove gli pareva di sentire la voce, ai piedi delle gigantesche scale, appoggiativisi, c'erano due figure. Quella in piedi era sicuramente quella che aveva parlato, infatti si stava facendo avanti con qualcosa chiuso tra le mani.
Lyandro ritornò a guardare Quan e si accorse che aveva il viso coperto di sangue.
Poi la ragazza che aveva parlato gli verso dell'acqua sul viso, e Lyandro si sentì meglio e la vista più nitida. «Perché mi aiuti?» domandò, rivolto alla sua salvatrice.
Quella gli rivolse un sorriso di sufficienza. « Perché hai bisogno d'aiuto, no?» disse mentre lo aiutava ad alzarsi.
Poi parlò a Quan, che si teneva ancora il viso in mano, bestemmiando per il dolore. «Facile prendersela con i ragazzini morti di fame, Spaquosa! Perché non te la prendi con quelli della tua taglia?» lo sfidò.
«Con piacere, puttana storpia!» ringhiò Spaquosa facendosi avanti. Con uno scatto la ragazza scansò Lyandro, che ricadde a terra, indietreggiando.
Lyandro ricominciò a sentire delle fitte terribili di dolore al ventre, ma deciso ad ignorarle osservò invece la sua soccorritrice, che stava per passarle di brutte a quanto sembrava. Era alta quanto Spaquosa, e sicuramente doveva avere la sua stessa età, ma era molto più sottile ed una femmina alla fin dei conti, quindi non poteva essere così forte.
Infatti Quan le si avventò contro prendendola per le spalle e scuotendola fortemente, ma sembrava come intimorito dal picchiarla.
Un sasso, rapido, andò a colpire il capo di Quan, facendogli lasciare la presa dalla ragazza, che scura in volto corse verso Lyandro.
«Esmera» disse la voce di un ragazzo, facendosi vicino a Quan che si teneva ancora la testa. Era l'altro tipo che poggiava sulla Scala e che era rimasto dov'era quando la ragazza era intervenuta.
«Oh,» sputò con disprezzo Quan. «Ecco l'altro storpio del cazzo! Cos'è oggi avete lasciato quella merda della Baia, per venire qui a fare gli ero... » Non finì di parlare che il ragazzo gli lanciò un altro sasso in testa, facendosi avanti.
«Cos'è tutta questa folla del cazzo, c'è uno spettacolo in corso forse?» domandò il ragazzo in modo flemmatico, al che molti della folla fecero contemporaneamente qualche passo indietro, per poi disperdersi. Rimasero solo i tipi che si era portato dietro Quan, ma questi erano come impietriti.
Lyandro sentì la sua soccorritrice ridere di gusto. «Ah... Spaquosa sei diventato temerario, vai in giro beandoti di quel soprannome di merda, come se non te l'avesse assegnato Rael!» disse. Poi Esmera si fece più vicina a lui, cingendogli le spalle con un braccio, mentre con l'altro gli diede delle foglie. Lyandro guardò con fare interrogativo quelle foglie, ma la ragazza gli disse di mangiarle. «Assenzio. È per il dolore» aggiunse, mettendogliele in mano.
«Pezzo di merda!» stava intanto urlando intanto Spaquosa. «Sei un cacasotto di merda, storpio del cazzo! Che è, hai paura che se lasci quei sassi ti li fi...» Nemmeno questa volta il ragazzo gli lasciò finire la frase, tirandogli un'altro sasso.
L'ombra fugace di un sorriso apparve sul suo volto. «Senti chi parla, quello che usava il coltellino. Mi stufa un po' usare questi metodi d'accattone... ma neanche matto mi salterebbe per l'anticamera del cervello di toccare uno schifo come te. Qualunque cosa uscirà da quella fogna che ti ritrovi come bocca non importa, ho deciso che ti voglio ammazzare...» veloce gli tirò un'altro sasso, dritto nell'occhio. «Anzi, prima voglio spappolarti i bulbi a sassate...» decise, tirandogli ancora un'altra sassata.
Quan stava ormai in ginocchio, urlava, inveiva e bestemmiava dal dolore tenendosi prima la testa poi gli occhi. I versi strazianti di qualche animale i suoi, pensò Lyandro. Il dolore di Spaquosa sembrava così forte da non permettergli di potersi alzare, ma ad un tratto Lyandro noto che stava tendendo la mano. Stava per urlare attento al ragazzo, ma questi già gli aveva lanciato una sassata facendogli cadere il coltello dalle mani.
«Orfano, tu lo sai cosa cazzo stai facendo?» sbottò Quan tra un'imprecazione e l'altra. «Stai attaccando uno degli uomini dello Smaltitore... e quando lui lo verrà a sapere – perché lo verrà a sapere te lo garantisco – si farà rodere talmente tanto le palle da venire a cercarti e completare il lavoro iniziato con voi! Sì, fino alla baia, e sgozzerà anche quella troia consumata del cazzo che voi tutte teste di cazzo chiamate madre!»
Il ragazzo alzò la mano con il sasso, e la tenne sospesa, mentre inclinava il capo. «Non offendere nostra madre... E poi uomini? Tu vali meno della sua merda, del suo vomito, per quel coglione dello Smaltitore... se ti uccido non gliene potrebbe fregare di meno, schifoso e inutile come sei. Guardati, sei patetico. Ma ti risparmio...» fece un cenno ai suoi scagnozzi, che si avvicinarono a Quan. «Vai, vai pure dal tuo Smaltitore... e se si abbassa a tal punto da riceverti digli che lo attendo come una verginella bagnata, che non vedo l'ora di ritrovarmela tra le mani per fargli peggio, molto peggio di quello che lui crede d'aver fatto.»
Quan non se lo fece ripetere due volte, e sorretto dai suoi compagni se ne andò lanciando qualche imprecazioni rivolta a loro tre.
Lyandro vide il ragazzo avvicinarsi a loro e rivolgersi alla ragazza, che aveva appreso che si chiamasse Esmira. «Andiamocene da qui» disse.
La ragazza annuì, sorreggendo Lyandro e aiutandolo ad alzarsi. Quando si accorse che aveva ancora le foglie in mano gli ringhiò addosso. «Sbaglio o ti avevo detto di mangiarle?» Gliele prese di mano ficcandogliele in bocca e costringendolo a masticarle. Lyandro sentì il sapore dolciastro, quasi vomitevole, farsi strada tra le pupille gustative e il sangue, ma nonostante quel sapore terribile cercò di ringraziare i suoi soccorritori. «Grazie...» disse, ma non ricevette risposta.
Il ragazzo, che doveva invece chiamarsi Rael, s'era già incamminato avanti, la ragazza invece gli rise in faccia. Offeso, fece per andarsene, ma la ragazza lo prese per la tunica. «Ehi, tu vieni con noi! Dove credi di andare? I servizi che ti abbiamo offerto io e Rael sono già stati ripagati appieno con la faccia rognosa di Spaquosa... ma le erbe che ti ho dato, credi che siano comprese?»
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