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Autore: Francesca Alleva    19/07/2013    3 recensioni
“Sì, rispose d’impeto 013, sì è perfetto.”
“Mi volete con voi?”
“Sì.”
“Cosa devo fare?”
“Ti sottoporrai al trattamento prima di sapere i dettagli.”
“Lo farò, sono qui. Ditemi solo in summa. Cosa devo fare?”
Devi far innamorare.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Creata per il contest de "Grandi Autori",
attualmente in corso, ANNULLATO
OneShot per il II turno.


* vincitrice premio URBAN

Pacchetto utilizzato: CAESAR
GENERE storico – drammatico – romantico
EPOCA Moderna- Contemporanea
PERSONAGGIO STORICO DA INSERIRE Josef Mengele
COLORE magenta
RAITING verde-rosso
CANZONE Poison di Alice Cooper

 

Mi chiamano Cesar. In realtà il mio nome è Julius, ma si sa, alle medie i soprannomi si danno per assonanze, e così sono diventato Julius Cesar, Julius detto Cesar, adesso neo-laureato in criminologia.

Ed è qui che la mia storia ha inizio.

Finita la laurea, conseguita al di sotto della lode e probabilmente al di sotto di qualsiasi punteggio da considerarsi adatto a trovare lavoro alcuno, venni contattato dai servizi segreti a causa, o forse è meglio dire, per merito, della mia tesi.
Ve la illustro.
Conoscete Josef Mengele?
Era uno scienziato pazzo che operava nei campi di concentramento compiendo esperimenti sugli esseri umani e nonostante questo era soprannominato “angelo della morte”. “Della morte” perché, si può immaginare, le vittime dei suoi esperimenti spesso venivano brutalmente uccise ma “angelo” perché chi aveva la fortuna di finire sotto la sua ala aveva un pass sicuro per la libertà.
Ecco, la mia tesi era incentrata su questo, la capacità o le peculiarità naturali per cui finire sotto l’ala di un potente pazzo e potersela cavare in ogni situazione.
Spiego.
Mengele salvava soprattutto i gemelli perché su di loro compiva i maggiori esperimenti. Ad Aushwitz quindi, se eri un gemello, avevi il 90% di possibilità in più di vivere bene (potevano non tagliarsi i capelli, potevano rubare senza essere puniti e inoltre potevano rimanere in abiti civili) e di uscire vivo dal campo (a parte quelli che, finito l’esperimento, morivano o erano uccisi dagli accessi omicidi di Josef). I gemelli non lo erano per scelta, ovviamente, ma analizzando il comportamento di Mengele a posteriori si capisce che se un individuo rispecchia appieno le aspettative e le caratteristiche amate da un potente ha maggiori possibilità di vivere agiato sotto il suo comando e di uscire vivo da una tirannia. Questo vi può far capire per quale motivo non passai con il massimo dei voti.
Vi sorprenderà però sapere che proprio questa idea, dai miei professori considerata, testuale, “bislacca”, fu il punto di svolta della mia vita, quella che convinse l’agente 013, capo dei servizi segreti, a contattarmi.

“Perché sono qui scusate?” dissi accettando un altro giro di appetizers molto informali offertimi nella penombra della stanza.
“Perché abbiamo letto la sua tesi. Sa, le tesi di giurisprudenza e le sue branche, medicina e le sue branche, filosofia ed economia passano da noi per tacito accordo con il governo. E dove non c’è l’accordo ci sono gli infiltrati, ovviamente.” Sorrise a mo’ di scusa, come a sottolineare che non faceva loro piacere dover fare le cose di nascosto.
“Cosa vi ha portato a contattarmi per la tesi…?” Sembrava dovessi cavar loro le parole di bocca.
“Beh…” Venne interrotto da una mano sulla spalla e una voce leggera che diceva: “012, vuole parlare il capo.” Il ragazzo si alzò e dall’ombra della stanza emerse un uomo, elegante, maturo, sui 40 anni, che si tolse il cappello con un gesto misurato e si sedette sorridendo. Era pacato, ma i suoi occhi guizzavano ovunque, guardinghi.
“E’ un piacere fare la tua conoscenza, Cesare…” “…Mi chiamo Julius…” interruppi io. 013 sorrise. “Sì, so come ti chiami e dove vivi e cosa mangi a colazione. Ma ho un progetto per te. Per noi. E Cesare mi sembra il soprannome più adatto ad uno come te, un innovatore conquistatore.
Vedi, Cesare, avendo letto la tua tesi ci siamo trovati nella situazione di volerci affidare a te per una missione delicata. Prima di stupirti così, però, vorrei che fosse chiaro che innanzitutto devi spiegarci ancor più nel dettaglio cosa intendi nella tua Teoria di Mengele. E in secondo luogo, se noi accettassimo e se tu accettassi, dovrai sottoporti ad un “innesto della fiducia””. “Un che cosa?” “Un micro chip sottocutaneo, di cui non vedrai l’innesto, che ci permetterà di conoscere le tue mosse al ‘solo’ scopo di assicurarci che non ci tradirai.”
Ci fu un attimo di silenzio in cui meditai.
“Le mie teorie le ho già descritte nella tesi che avete letto, molto di più da aggiungere non c’è. Penso che per quanto riguardi un potente, egli desideri solo ciò di cui ha maggiormente bisogno. Con Josef funzionava con i gemelli e i nani, ad esempio. Essendo ciò che più bramava pretendeva venissero trattati con rispetto, abusandone comunque nella maniera che desiderava, ma salvandone decine. Ora, immaginiamo un potente. Se gli si desse qualcuno che sia per lui indispensabile e non facilmente sostituibile, cosa succederebbe? Che la sindrome di Stoccolma si manifestebbe al contrario, possiamo dire. Lui, da politico o tiranno o capo o miliardario o qualsiasi declinazione di potente, che tutto può e tutto ottiene, arriverà a non poter fare a meno di quel qualcuno. Ed è qui che entra in gioco la dipendenza come debolezza. Il perno. La leva con cui Archimede solleva il mondo.”
“Sì, rispose d’impeto 013, sì è perfetto.” “Mi volete con voi?” “Sì.” “Cosa devo fare?” “Ti sottoporrai al trattamento prima di sapere i dettagli.” “Lo farò, sono qui. Ditemi solo in summa. Cosa devo fare?”

Devi far innamorare.


Mi ritrovai steso sul tavolo della saletta, avevo un ago nel braccio che mi fece addormentare per permettere loro di innestarmi il chip.
Fu affare di poco perché mi risvegliai dopo quelli che a me parsero solo secondi (in realtà erano passate tre ore) con un dolore diffuso per il corpo ma di cui era impossibile localizzare la fonte.
Ero solo, avevo un biglietto accanto:
“Domani mattina, a casa tua. Sei dei nostri, agente 026”
Feci per alzarmi e mi resi conto che a casa mia già vi ero.

L’indomani il dolore era passato, mi trovavo a letto a riflettere sulla mia fortuna e sul mio coraggio nell’esposizione della tesi di Mengele che mi aveva portato fino a lì, quando suonarono il campanello. Mi alzai dal letto e andai alla porta, accogliendo calorosamente i due agenti; uno era il giovane che mi aveva interrogato nello scantinato, 012, l’altro era più anziano.
Li feci accomodare sul divano e offrii loro una tazza di caffè nero.
Bevendo, mi spiegarono il piano.

Accettai.



Mi presentai all’azienda farmaceutica LipTea.
“Lei deve essere il Dottor….. Kingsley, giusto? Neo laureato all’università di… Oh! Pavia! In Italia, complimenti, curriculum invidiabile… Mi segua.”
Eravamo all’accettazione al piano terra e venni accompagnato da questo ragazzone in camice bianco per tutto un edificio candido composto da laboratori chiusi dietro porte a vetro e pieni di provette, liquidi, fumi, uomini in camice. Dovevamo arrivare al quarto piano, l’ultimo, dove aveva l’ufficio il capo della casa farmaceutica. Passammo per il primo; il primo piano aveva dei laboratori piccoli dove si ultimavano i prodotti, confezionandoli, producendo i bugiardini, colorando i rossetti nutrienti e i burrocacao anti-herpes, profumando le creme protettive per labbra sensibili al freddo e i gel rimpolpanti. Procedevamo a piedi, per le scale antincendio, per arrivare facilmente a visitare i laboratori.
Al secondo piano, sempre dietro le porte a vetro, osservai stabulari contenenti cavie e speciali superfici tester per prodotti, provette e reazioni chimiche, i cui fumi erano presto risucchiati dal sistema di ventilazione. Infatti, una cosa che saltava subito all’occhio, era il fatto che i vari laboratori fossero sigillati, sia le porte (i cui vetri scoprii domandando al mio Cicerone, erano antiproiettile dall’interno e dall’esterno) che le finestre. Tutto era gestito da un impianto di areazione e controllo climatico di ultima generazione.
Il terzo piano era immenso, poiché proteggeva nei suoi studi i laboratori di progettazione e prima invenzione dei prodotti. Era il più dinamico e l’unico che avesse alcune porte aperte, dato il frenetico andirivieni dei dottori e i gruppetti poco formali che si formavano ai lati del corridoio che comprendevano scienziati, dottori e esperti di marketing e legali di vario genere che discutevano in sede non ufficiale degli sviluppi del siero tal dei tali o del disinfettante o rossetto talaltro.
Alla fine del corridoio notai l’unica nota un po’ di colore, che non fosse il nero dei completi dei legali, di tutto l’edificio; una porta blindata totalmente nera con un teschio disegnato sopra. Cercando di assumere l’aria più semplice del mondo domandai cosa vi fosse dietro quella porta, poiché, “sa, sono attratto dalle cose pericolose”, e mi sentii rispondere che dietro si teneva un progetto top secret iniziato qualche settimana prima dal capo in persona e di cui erano a conoscenza solo un paio di esperti dottori, al capo molto legati, e uno scienziato. Avvicinandoci per salire le scale avvertii le note di una canzone che scivolavano a volume basso da sotto la porta, ma non ebbi il tempo di riconoscerla.
Salimmo, quindi, un’altra rampa e giungemmo allo studio del superiore che, mi venne spiegato, aveva due uffici, quello e un altro dove risiedeva la sede legale e creativa dell’azienda, nell’edificio affianco.
Bussò alla porta e mi sussurrò un in bocca al lupo, dileguandosi.
Mi rispose una voce: “Avanti!”.
Afferrai la maniglia cremisi di quella porta di legno di noce ed entrai.

Rischiai l’attacco epilettico. La stanza in cui accedetti era rossa. Non c’erano molti altri aggettivi tipo moderna o spaziosa o elegante. Era rossa, ovunque. A terra moquette cremisi rendeva il pavimento senza profondità, ai lati della stanza pareti vermiglie evocavano crudeltà, forse per il sangue che ricordavano, i mobili rossicci si mimetizzavano con i muri, quadri non ce n’erano. Le tende, alle spalle della scrivania amarantina, erano di un velluto pesante carminio. E la donna, seduta in punta allo scrittoio, spiccava per il suo unico punto di colore differente, un biondo dorato che si perdeva nelle onde sinuose di una messa in piega impeccabile, incorniciando un viso truccato poco su cui spiccavano, ovviamente, due labbra sensuali e purpuree. Avvicinandomi mi resi conto della perfezione di quelle labbra e della perfezione plastica del viso della donna; era bellissima, ma potei constatare che nemmeno una parte del suo corpo era naturale. Le gambe che spuntavano dal tailleur porporino erano talmente lisce che riflettevano in maniera innaturale la luce della stanza, i seni che sporgevano leggermente dalla camicia bianca (ovviamente tenuta chiusa da una giacchetta, rossa anch’essa) erano tondi e alti in modo, di certo molto sexy ma, sicuramente finto.
Mi fermai davanti a lei mascherando il miscuglio di emozioni che mi era sorto in corpo entrando in quella surreale stanza e le tesi la mano, sfoderando il mio miglior sorriso da neo laureato cum laude sicuro di sé e vagamente affascinante e riservato.
Insomma, una smorfia.
“Buon giorno, sono il dottor Kingsley, John Kingsley, e sono onorato di conoscerla, signore. Signora!” Lei rise, persino la sua risata suonava falsa, come se vi avesse perso dietro del tempo per costruirsela. “Buon giorno a lei, dottor John. Ho letto il suo curriculum e ne sono rimasta colpita; non potevo non incontrarla.
Ho visto che la sua tesi era incentrata sul tema del contagio, vero? Me la può illustrare nuovamente, sinteticamente?” Scese dalla scrivania e vi si appoggiò con le braccia incrociate, sorridendo.
Non mi invitò nemmeno a sedere.
Sorrisi, facendo mente locale sulle informazioni passatemi dal membro anziano dei servizi segreti, e iniziai.
Spiegai in breve come il contagio potesse essere utilizzato anche come qualcosa di positivo nella ricerca farmaceutica, ovvero che sarebbe stato possibile invertire il DNA o RNA negativo del genoma del virus e ridistribuire la stessa malattia virale, in modo tale che potesse legarsi al virus già in giro distruggendolo con le sue stesse “mani”.
Mentre spiegavo le si illuminavano gli occhi, segno inequivocabile confermatomi poco dopo da un suo entusiastico: “Ma quindi anche lei crede nella scuola per cui è possibile intervenire sul genoma di un virus!”
La guardai cercando di esprimere il mio più grosso entusiasmo: “Ma certo che sì. Si potrebbe fare tanto bene per questo mondo..” Vidi le sue labbra arricciarsi in una smorfia di disgusto per cui mi affrettai ad adularla: “E ovviamente chi fosse in grado di farlo avrebbe in mano il potere di controllare l’umanità, perché, questo non l’ho certo detto alla discussione della tesi, ma si potrebbero creare infiniti virus. Diventando una specie di.. Imperatore. Mondiale.” Feci una pausa aspettando che le mie parole si poggiassero su di lei e poi terminai: “Ma questi per ora sono solo sogni, nonostante io non veda l’ora di mettermi al servizio” abbassai gli occhi in modo contrito e servizievole: “di chi riuscirà in questo intento.” Funzionò.
Mi avevano istruito bene, e funzionò. Si illuminò e si alzò di scatto dalla scrivania venendomi a stringere la mano ed esclamando: “Lei è dei nostri, Dr. J.”

Tornai a casa e telefonai al quartier generale dal cellulare con una scheda usa e getta che trovai sul tavolo in cucina. Raccontai loro tutto, sciorinando i dettagli del luogo e i pochi nomi che mi erano stati riferiti, ricordando che non mi era stato detto il nome del capo.
Mi dissero che da quel momento in poi avrei dovuto scrivere un rapporto al mese raccontando tutti i dettagli, perché persino telefonare sarebbe stato un rischio inutile. Almeno la posta cartacea non sarebbe stata sotto controllo. Avrei scritto il rapporto mensilmente e l’avrei lasciato ogni volta, senza indirizzi né altro, in busta chiusa in una determinata cassetta postale. Al ritiro ci avrebbero pensato loro e a contattarmi anche.

30 settembre 2015, LipTea, agente 026.
Il primo mese di lavoro è filato piuttosto liscio. Non ho fatto granché a parte intervenire secondo le vostre istruzioni e consigliare alcuni dottori sui migliori cambiamenti da effettuare su una formula per un gel da labbra. Non ho comunicati particolari.

31 ottobre 2015, LipTea, agente 026.
Ancora calma piatta. Ho provato a fare qualche domanda sulla porta nera ma nessuno ne sa niente. Durante l’orario lavorativo non si apre, ma la musica continua leggera. Mi sono avvicinato, non l’ho riconosciuta ma ho sentito alcune parole: “Your lips are venomous poison” e “Your poison running throught my veins”. Rispetto al rapporto del mese scorso credo e temo possano essere correlati. Anche per questo mese non ho più notizie, non sono ancora inserito come vorrei.

30 novembre 2015, LipTea, agente 026.
Ho scoperto il nome della dottoressa capo, Alice. Come da istruzioni ho lasciato incustodito il fascicolo con le ricerche sul DNA del genoma la prima settimana del mese e una delle segretarie l’ha ritrovato durante la pausa pranzo. Visto che qui le segretarie conoscono bene la materia di cui si occupa l’ufficio, ha capito di cosa trattava e l’ha portato alla Dottoressa Alice, che mi ha convocato nel suo ufficio per sapere di cosa trattava e perché l’avessi.
Ho risposto, come da copione, che non sapevo se l’avrebbe gradito per cui ancora non ero pronto a presentarlo e che mi scusavo per la mia distrazione.
Mi ha congedato e richiamato due settimane più tardi chiedendomi di sottopormi ad un esame accurato della mia persona, della mia scrivania e della mia casa per accedere ad un progetto. Ho accettato ma ho procrastinato alludendo ad una malattia per cui non mi sentivo in forma per il test. Attendo istruzioni.

31 dicembre 2015, LipTea, agente 026.
Durante il mese di dicembre ho accettato il test come da voi ordinatomi ed è ancora in corso. Hanno iniziato la prima settimana con la mia scrivania, l’han perquisita più volte, anche a sorpresa. Mi sono domandato cosa mai avrei potuto nascondere in soli tre mesi.
La seconda e la terza settimana le han passate in giro per casa, motivo per cui vi sto scrivendo questo comunicato a mano da un bar del centro. La settimana di Natale/Capodanno siamo congedati dal lavoro.
Aspetto istruzioni.


31 gennaio 2016, LipTea, agente 026.
Grazie ai vostri controlli sono di nuovo a casa a scrivervi, mancano le telecamere ma si sono assicurati che non nasconda niente. Ho nascosto nel cassetto segreto gli altri appunti e studi che mi avevate procurato, come previsto sono stati trovati e lasciati lì; probabilmente sono stati fotografati. Non ho ricevuto notizia alcuna e ho continuato a lavorare come al solito con impegno e sottomissione e sono riuscito a cogliere altre parole della canzone: “I want to kiss you but I want it too much”.
Ho smesso di fare domande perché temo di insospettire, ma la porta, per questi quattro mesi, non si è ancora aperta.

30 febbraio 2016, LipTea, agente 026. Ad inizio settimana mi hanno fatto un test di medicina e passato allo scanner. Il vostro microchip non è stato trovato e ho passato tutti i test.
Comportamento solito, da programma.
Notato un fermento particolarmente agitato per il 14 febbraio, a San Valentino; non l’avrei considerato rilevante, se non fosse che ho visto la porta nera chiudersi, anche se non ero presente al momento dell’apertura.

31 marzo 2016, LipTea, agente 026.
Questo mese nessuna novità, lavoro e comportamento come stabilito.
30 aprile 2016, LipTea, agente 026.
Lunedì ho pranzato fuori con la Dottoressa Alice ma nessun discorso inerente al lavoro.
Una settimana dopo siamo usciti a pranzo di nuovo. Mi sembra una persona sola e triste; lascio da parte il lavoro e mi concentro sulla vita personale.
Il terzo lunedì del mese mi ha parlato dei suoi interventi chirurgici. Ne ha circa 34 su tutto il corpo e i maggiori riguardano zigomi, labbra, naso, tette, bacino, epilazione completa, innesti di bulbi piliferi per i capelli. Inoltre un numero indicibile di liposuzioni e ossigenazioni della pelle. Non ha voluto dire perché.
L’ultimo lunedì del mese il pranzo è saltato, ma mi è parsa piuttosto contrariata. Inizierei con il piano A, quello prefissato; l’innamoramento.

31 maggio 2016, LipTea, agente 026.
Lunedì è diventato il nostro giorno di appuntamento, lei il capo, a lei le decisioni.
Uscimmo il primo lunedì del mese e lasciai che mi raccontasse di tutte le sue operazioni. A fine pranzo non aveva ancora finito ma ho un quadro piuttosto completo da fornirvi, creatosi grazie agli appuntamenti del secondo e del terzo lunedì del mese di maggio.
La Dottoressa Alice era una ragazza, si definisce, “orrenda”. Non si accettava, aveva problemi a scuola dall’età dei 4 anni. Vessata e bullizzata già all’asilo, iniziò a subire violenza anche da parte del padre, che la picchiava e la insultava accusandola di non essere bella come la madre, nel silenzio della stessa che non apriva bocca per difenderla, per la vanità suscitata dai complimenti del suo uomo.
Non mi ha dato dettagli sulla sua vita amorosa, ma da quel poco che ha accennato ha avuto esperienze tragiche. L’ultimo lunedì del mese ho parlato io per non destare sospetti. Mi sono attenuto al nostro piano e alla mia storia fittizia, tutto regolare.

30 giugno 2016, LipTea, agente 026.
Lunedì 6 giugno le cose si sono evolute e hanno preso sempe più questa china evolutiva. Alice, ormai la chiamo senza il prefisso “Dottoressa” mi ha fatto chiaramente intendere di quanto si fidi della mia persona, confidandomi che nella vita non ha fatto altro che cercare una vendetta a tutti i rifiuti subiti in gioventù, sia essi provenienti dai famigliari e non. Per tutto il mese ha messo sul piatto una porzione abbondante di astio e bisogno di riscatto, innaffiato con abbondante misantropia e servito con della cattiveria bella fresca. Ne ha una per tutti e ammetto con tutto il cuore che mi sento sollevato dall’avere la vostra organizzazione alle spalle, perché confesso che questa donna conserva nei suoi occhi l’unica cosa che non ha potuto modificare con la chirurgia: una scintilla rossa di follia che nessun chirurgo avrebbe mai potuto installare con tanta perfezione.
Ho tentato di tirar fuori il discorso della porta nera, prendendolo alla larga, e mi sono accorto che si accende come fuoco quando pensa a ciò che c’è dietro la bruna soglia, ma l’unica cosa che sono riuscito a sapere è che la canzone che sento suonare è strettamente legata al progetto che dentro si svolge.

31 luglio 2016, LipTea, agente 026.
Questo mese non sono mai rimasto solo con Alice poiché ha ricevuto frequenti visite nel suo ufficio e non se ne è mai assentata, a differenza dei mesi scorsi che andava a presenziare spesso le riunioni legali che si tenevano nella sede affianco.
Pareva piuttosto euforica e ho notato facilmente che la sua felicità era strettamente correlata ai probabili successi della ricerca tenuta dietro la porta nera.
Il lunedì dell’ultima settimana, il 25, è passata alla mia scrivania mentre non c’ero e mi ha lasciato un biglietto con il suo numero telefonico.
Ve l’ho scritto nella cabina telefonica dello stesso circuito della scheda usa e getta che mi avevate lasciato l’ultima ( e unica ) volta.

31 agosto 2016, LipTea, agente 026.
La porta nera si è aperta.
La canzone si chiama Poison e la ricerca è incentrata su un burrocacao maschile.
Vi allego le foto che sono riuscito a scattare di nascosto con il cellulare.
Due settimane di vacanza, niente di nuovo.

30 settembre 2016, LipTea, agente 026.
Due settimane dopo il rientro dalla pausa estiva sono stato convocato nell’ufficio della Dottoressa Alice.
Mi ha offerto di lavorare con il progetto segreto poiché avevo inaspettatamente superato tutti i test a cui sono stato sottoposto.
Ho accettato entusiasta.

Le vostre conclusioni sulla connessione ‘canzone-prodotto’ sono esatte.



Ero certo entusiasta del lavoro, di facciata. Perché quando mi venne esposto l’oggetto degli studi ho dovuto iniziare a fingere così bene da doverci credere anche io.
Il progetto è terribile e spero di poter aiutare a fermare questa follia prima che degeneri.
La vendetta di cui parlava Alice si trova in quei tubetti di burrocacao e negli studi sul mutamento del DNA.

I wanna kiss you, but your lips are venomous poison.

Quando varcai la soglia della porta nera mi ritrovai in una stanza candida, come tutti i laboratori dell’azienda, ma con le tende dello stesso vermiglio di quelle dell’ufficio del capo. Seguendo le istruzioni dettatemi dagli agenti incaricati dei servizi segreti, mi sono comportato normalmente per le prime due settimane, mostrandomi comprensivo con la Dottoressa Alice e totalmente solidale col suo piano di diffondere il virus EBV geneticamente modificato per via di innocui burrocacao. La modifica che la Dottoressa sta apportando, purtroppo con successo, al DNA dell’herpesvirus riguarda un potenziamento delle cause di immunodepressione dell’organismo. Insomma, una volta distribuiti, venduti ed usati questi burrocacao, chiunque ne fruisca e terze persone che con questi entreranno in contatto, avranno così poche difese immunitarie che potrebbero morire per un’allergia, un raffreddore, una febbre comune.
E qui entro in gioco io.
Qual è il modo migliore per dividere e reinventare il DNA del virus? Come possiamo farlo senza che questo ci si ritorca contro?
Ecco le domande a cui vogliono io risponda o, almeno, a cui si aspettano io dia un apporto sostanziale.
Ed ecco perché mi sono dovuto dare malato dopo poco più di un anno di lavoro e per ben due settimane.
Resisi infatti conto della mia poca preparazione e del rischio in corso, i servizi segreti hanno deciso di correre ai ripari facendomi assistere giorno e notte da un’equipe di medici specializzati. Questi, attraverso un auricolare totalmente in plastica e simil pelle impiantatomi nell’orecchio destro e ad un paio di occhiali da lavoro contententi una microcamera microfonata, mi avrebbero dato i suggerimenti adeguati a cavarmela in ogni situazione.
L’impianto acustico, però, affinché il procedimento si svolgesse alla perfezione e la cicatrice avesse tempo di rimarginarsi, portava via due settimane di dettagli.
Motivo per cui...
Motivo per cui decisi di utilizzare quella brutta cicatrice come motivo della mia malattia telefonando, per la prima volta, ad Alice.
Chiusa la telefonata avevamo un appuntamento per la sera stessa.
Credendo alla storia del mio brutto incidente (raccontai di essere stato investito) entrai presto nelle sue grazie, nella sua gentilezza, nel suo cuore e..nel suo letto.
Dopo due settimane di malattia (in cui la ferita dell’operazione/incidente guarì) eravamo quasi ufficialmente fidanzati.
A pensarci mi dispiaceva tanto il fatto di poter essere uno dei tanti uomini che l’avrebbe fatta soffrire ma, ogni volta che riflettevo così, guardavo i suoi occhi innamorati riconoscendoci sempre quella scintilla rossa di follia e ricordando che il suo piano non avrebbe leso una sola persona bensì tutto il paese, se non il mondo.

Passarono altri quindici giorni in cui mi mimetizzai perfettamente con il personale grazie al trucco dell’auricolare e degli occhiali, due settimane in cui i servizi segreti riuscirono a recuperare abbastanza elementi da poter fare un blitz notturno, con un mandato, all’interno del laboratorio.
Il 15 dicembre portarono via prove schiaccianti denunciando la LipTea allo Stato, che provvedette a distruggere l’intero edificio metodicamente e ad archiviare le formule.
La Dottoressa Alice venne arrestata e condannata all’ergastolo per tentato omicidio e i medici che l’aiutavano vennero condannati per complicità in omicidio ed io con loro, subendo però un finto processo per non destare sospetti nemmeno a fatti conclusi.

Corre ora l’anno 2017, io continuo a lavorare per i servizi segreti e, oltre alla città, ho dovuto cambiare nome.

Indovinate quale mi han dato?


- La dottoressa Alice chiuse il fascicolo segreto di “John Kingsley”, altrimenti detto Julius, che le era stato recapitato per forma anonima qualche giorno prima del suo arresto, e che lei non aveva mai aperto, troppo impegnata a perfezionare il suo piano per prestare attenzione a pacchi non richiesti.
Poggiò il diario sotto la branda e vi si stese, aspettando l’orario degli appuntamenti. Quando la chiamarono, si diresse a passo posato verso l’area colloqui e alzò il telefono, guardando fisso l’uomo dall’altra parte del vetro.

I suoi occhi brillavano di una luce folle rosso fuoco, quando pronunciò “Cesare”.
   
 
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