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Autore: _Sinclair_    20/07/2013    2 recensioni
(Universo di Radiant) Che cosa passa nella mente di un soldato alla vigilia di una battaglia? Cosa lo spinge a compiere gesta eroiche, a rischiare la propria vita... e a commettere i crimini più orrendi? E se la guerra avesse invece un volto nascosto molto più normale e vicino a noi, quasi banale?
Genere: Azione, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incrociatore da battaglia Triton, 12 Marzo, Anno 1, Ante-Esilio


Prima i dispari. Ecco, su, fino al colletto. Poi i pari. Così la camicia sta bella diritta e non fa grinze.

Da quanto tempo si allacciava così i bottoni? Da quando era piccolo. Sì, glielo aveva insegnato sua madre. Era uno dei primi ricordi che aveva di lei, anzi uno dei primi ricordi in assoluto. Le mattine, nella loro casa di campagna, con il sapore del caffellate ancora in bocca e il profumo della rugiada già nelle narici. La loro bella casa di campagna, vicino a Rochester, Minnesota, e a due passi dal Parco di Whitewater. Là dove i fiumi abbracciavano gli alberi e le montagne ti proteggevano dai gelidi venti del Nord. E loro giù, in pianura, in quella grande casa a due piani, in cui l’evento più importante era la rottura della lavastoviglie o le tegole del tetto che non si sistemavano mai.

Ogni tanto c’era anche papà, ma si teneva a distanza da loro due. Papà sapeva rispettare quei loro rituali mattutini. Lui non temeva il legame che c’era tra madre e figlio, un rituale che spesso lo escludeva. No, a lui piaceva così. In fondo, lui non era tanto diverso da quelle montagne che Nathan vedeva lontane, sull’orizzonte delle prime ore del giorno. Rimaneva lì, a guardare con un’espressione imperscrutabile quella coppia che era pur sempre il risultato della propria vita e delle proprie scelte, e pareva felice di poterla proteggere. Sì, Nathaniel era certo di tutto questo, aveva iniziato fin da piccolo a percepire nel suo vecchio quella sorta di autocompiacimento.

Per il vecchio questa convinzione era più importante che godersela quella stessa vita, considerato il tempo che se ne stava lontano dalla sua famiglia, chiuso in una base militare o impegnato a galleggiare in assenza di gravità come un pesce nelle calme acque del lago Vermilion. Forse era per questo che alla notizia della morte - riferitagli da Nathan in una comunicazione extraorbitale in differita - la sua prima reazione non era stata di dolore e di disperazione, ma di sorpresa. Come era potuto accadere, quando si era distratto così tanto da permetterlo?

Nat si passò le mani sul petto, lisciando la candida camicia che splendeva sotto la luce della sua cabina. Non ce n’era poi questo gran bisogno, visto che la giacca dell’uniforme l’avrebbe coperta quasi del tutto. Conosceva fior di ufficiali, alcuni anche più alti in grado di lui, che mostravano molta meno cura di lui nella conservazione della divisa. Gente che teneva in ordine solo il colletto della camicia, ad esempio, perché solo quello si vedeva sotto il pettorale verde scuro della Flotta dell’Unione, o che lucidava di rado le sue mostrine.

No, Nat era fatto di una pasta molto diversa. Lui le sue mostrine le lucidava con attenzione almeno una volta al mese, di persona, senza disturbare un attendente o un sottufficiale per questo. Anche perché nessuno se non lui poteva avvicinarsi a quei pezzetti di metallo che gli brillavano sul petto. Aveva sudato troppo per ottenerli, aveva fatto troppi sacrifici. Aveva fatto soffrire troppe persone.

Per un istante le sue braccia si privarono di ogni forza, ricadendogli quasi prive di vita lungo i fianchi. Le mani sfiorarono la piega perfetta dei pantaloni, nerissimi e ornati unicamente da una banda laterale dello stesso verde della giacca, ancora appesa nell’armadietto. E Nat sorrise.

Le sue mostrine le aveva toccate solo lui, ma per quel che riguarda i pantaloni...

Rowena. Quella sera, ad Amstrong, sulla Luna. Tre mesi dopo il suo arrivo nella guarnigione, il primo incarico dopo l’accademia. A conquistarlo erano bastate le sue gambe e ancor di più il suo sorriso. Sì, il sorriso di Rowena scioglieva i ghiacci e dava colore al grigio della Luna. Dava un senso a quelle cupole gigantesche e a quei palazzi così alti da sfuggire ad un qualsiasi senso delle proporzioni. Cambiava le vite di coloro che incontrava, come aveva cambiato quella di Nat.

Era stato il sorriso, appunto, forse anche più di quei suoi occhi azzurri come un cielo che Nat non vedeva più da mesi e mesi, e quei capelli a metà tra il biondo e il castano, a segnare il fato del giovane. Il leggero suono delle risate di Rowena lo aveva spinto a pronunciare quelle parole. Vuoi diventare mia moglie?

La nave ebbe un piccolo sobbalzo, niente di che. Roba normale, viste le circostanze, ma sufficiente a riportarlo lì dov’era. Lì dove non voleva essere. Una stanza piccola, arredata in maniera semplice. Una scrivania con il suo computer e i resti di una semplice prima colazione, un letto che lui stesso rifaceva ogni mattina, gli armadi a chiusura magnetica, un comodino con una vecchia foto. Unico lusso, dovuto al suo grado, la porticina sulla destra che dava su di una toilette interna. E sul letto, la giacca con le famose mostrine, ordinatamente adagiata sopra le lenzuola.

Si voltò a prenderla, la indossò e allacciò con un movimento rapido la zip del risvolto interno. Un altro gesto della mano e i tre ganci laterali la richiusero, ricoprendo la sua figura di quel verde scuro che vedeva ormai da quasi una quindicina d’anni. Le quattro line dorate sulla spallina ricordavano all’universo intero che era un capitano, l’emblema del tritone dorato quale fosse il nome della nave che comandava. La Triton. La sua nuova casa.

Nat si guardò negli occhi allo specchio. Fece di tutto per evitarlo, ma lo sguardo gli cadde sul riflesso del suo comodino e sulla foto che vi si trovava sopra. La sua vecchia casa. La sua vera casa.

Ecco, a lui piaceva. Non era come uno di quei comandanti che passavano anni e anni su di una nave e che rinunciavano alle loro radici terrestri. Non era come suo padre. E questo aveva sempre reso tutto più difficile.

Aveva tentato per anni di seguire quella strada, dimenticare la carezza dell’aria naturale e non condizionata sulla pelle, il rumore delle cicale le sere d’estate, il profumo dei primi raggi di sole della primavera e quello della neve fresca dell’inverno. Ci aveva provato, sì, ma non c’era mai riuscito e questi bei ricordi si erano trasformati in schegge velenose, ferite aperte e ormai infette, che lui sopportava chiudendosi in un silenzio quasi ossessivo, risparmiando ogni singola parola come se fosse una goccia del proprio sangue. Il resto della flotta lo aveva soprannominato “pescecane” proprio per questo motivo, perché più volte durante quella orribile guerra aveva dimostrato di essere uno degli ufficiali più aggressivi e allo stesso tempo più taciturni di tutto il fronte. Non sapeva come lo chiamavano i ribelli, e forse era meglio così.

Come che stessero le cose, lui aveva tentato di dimenticare quel poco di bello che c’era stato nella sua vita e non c’era riuscito. Aveva provato a farlo dopo Rowena, soprattutto dopo Rowena, e ovviamente non c’era riuscito. Tanto valeva provare a smettere di respirare ossigeno.

Dal comodino i suoi occhi, quella mattina più indisciplinati del solito, si posarono sulla sua mano sinistra. Sulla pelle nuda dell’anulare, il segno era ancora evidente. Quel dito non era stato sempre così. C’era stato del’oro, biondo come i capelli di lei. Gli avevano consigliato di mettere anche la fede di Rowena al dito, accanto alla sua. Così facevano coloro che rimanevano vedovi, ma così aveva fatto anche suo padre e quindi Nat non aveva voluto. Si era invece tolto il suo anello, sempre per aiutare sè stesso a dimenticare.

Solo che talvolta ciò che la mente mette da parte, il corpo lo riporta alla luce e nei modi più strani. Per questo il segno dell’anello, nemmeno dopo tanti anni, non era venuto più via. Contro ogni logica, si era trasformato esso stesso in una cicatrice, una delle tante, e anzi aveva finito per risaltare sulla sua carne più dello stesso metallo che lo aveva creato. Ed era anche giusto, aveva pensato Nat, perché il matrimonio con Rowena gli aveva lasciato più dolore che ricordi felici.

Suo padre non aveva approvato. Ma dopo che il vecchio l’aveva avuta vinta sulla sua educazione, imponendogli l’accademia e poi la carriera militare, tale opposizione era stata per Nat solo un motivo in più per andare avanti. Una semplice donnetta come ne avrebbe trovate a decine intorno ad ogni postazione militare, così suo padre l’aveva definita. E anzi, lo aveva messo anche in guardia da lei, perchè - così gli aveva detto - aveva scorto negli occhi di Rowena una luce strana, che non gli piaceva.

A quelle parole, Nat si era subito rivisto davanti il volto quella strana ragazza, un po’ pazza come la Luna su cui era nata. Aveva pensato alla luce di Rowena, la stessa luce che aveva permeato la madre che quell’orribile vecchiaccio di suo padre aveva spento negli anni. E il guaio fu fatto.

Giurando a sè stesso che l’avrebbe protetta, se necessario anche da sè stessa, era corso a chiederle di sposarlo. Lei aveva accettato, con un’aria a metà tra il felice e lo scherzoso, come si fa con un gioco nuovo del quale si è solo sentito parlare, e tutto era andato bene. Per qualche mese, ovviamente.

Non che si fossero messi a litigare loro due. No, Nat era capace di togliere la pelle ad un sottufficiale solo rimproverandolo per non aver eseguito abbastanza in fretta una manovra di attracco simulato, ma era del tutto incapace di alzare di un mezzo tono la propria voce con lei. E nemmeno si ignoravano, perché Rowena a malapena sopportava l’idea di non riuscire a vederlo da una stanza all’altra del loro minuscolo appartamento. Al contrario, parlavano e ridevano e stavano bene insieme. Proprio questo era il problema, che divenne tragedia quando dai giochi passarono alle cose serie, cominciando a pianificare il proprio futuro.

E lì Nat si era alla fine reso conto che sua moglie non era soltanto un po’ svampita e con la testa per aria. Rowena semplicemente non c’era.

Era altrove, in una realtà diversa che seguiva leggi diverse. Per un po’ si era accostata al nostro universo, come una cometa che voglia vedere da vicino una volta ogni cent’anni la luce del Sole per poi tornarsene a viaggiare da sola nel resto del cosmo. Ma adesso, per l’appunto, il suo periodo di passaggio era finito e “il mondo di Rowena” la reclamava di nuovo. Cosa c’era che non andava? Il fatto che lei fosse davvero innamorata di Nat e che non accettasse l’idea di proseguire il viaggio senza di lui. E questo fu il terreno in cui nacque e prosperò in lei una sofferenza silenziosa e cattiva.

Il capitano sospirò. Non lo avrebbe fatto mai in presenza di chiunque altro, ma adesso era da solo e secondo i suoi calcoli aveva ancora qualche minuto da dedicare solo a sè stesso. Si tirò verso il basso la giacca.

A tali conclusioni sulla natura del loro rapporto era arrivato dopo anni dalla scomparsa di lei. E per farlo aveva dovuto ammettere una realtà che fino a poco tempo prima non avrebbe nemmeno voluto considerare. Il fatto che, in fondo, la sua stessa indole era più vicina alla durezza e allo spirito pratico di suo padre che alla dolcezza di sua madre. Solo che era tardi, troppo tardi per tutto.

La colpa, ovviamente, era stata di Marte e delle colonie.

Nat prese il cappello dalla scrivania e se lo calcò in testa. Poi - e quello era il suo unico di insubordinazione all’ordine maniacale con il quale curava il proprio abbigliamento ufficiale - lo spostò lievemente sulla destra, inclinandolo di qualche grado. A Rowena piaceva di più così.

Nat si fermò. D’istinto, si portò una mano sullo stomaco. No, quella mattina stranamente non faceva male, ma il riflesso la diceva lunga sui dolori che fin da ragazzo lo angustiavano quasi ogni giorno. Strinse la mano a pugno sopra la giacca, avendo cura di non sgualcirla. Ma fu un errore, perché questo gesto gli ricordò le carezze che gli dava la sua Rowena quando finiva preda dei suoi attacchi di ulcera, un altro indesiderato regalo del padre.

Per l’appunto, tutta colpa di Marte. Prima ancora che le colonie firmassero la loro Dichiarazione, in una patetica e tragica parodia di quanto fatto dalle colonie americane diversi secoli prima, il governatorato di Marte aveva lanciato un appello per i suoi nuovi insediamenti nell’area polare. Servivano uomini e donne, volenterosi, sognatori, amanti della libertà e anche un po’ avventati.

Rowena aveva risposto subito, naturalmente senza consultare Nat. Quando lui lo aveva saputo, più che andare su tutte le furie, aveva affrontato la moglie chiedendole quale fosse il motivo di tale scelta. Di nuovo, non era arrabbiato, solo sorpreso dal fatto che potesse essersi distratto a tal punto da non comprendere ciò che sarebbe successo. Da non capire che il suo matrimonio rischiava di finire prima ancora di cominciare.

Rowena non lo aveva capito. Non lo faceva mai, ma l’accondiscendenza abituale del marito nei confronti delle sue follie doveva averla convinta che tale incomprensione non fosse un problema poi così insormontabile.

«Se tu mi chiedi il perché, significa che non puoi seguirmi, Nat,» gli aveva detto, con un tono che pareva essere uscito dalla sceneggiatura di un pessimo film. Ma ancora lui non gli aveva dato troppo peso. Aveva pensato che si trattasse di una stramberia passeggera, che alla fine sarebbe riuscito a convincerla a non andare.

Non fu così. Rowena parlò con lui, argomentò con lui, arrivò perfino a discutere con lui per la prima volta. Voleva davvero che Nat lasciasse la divisa e la seguisse in quell’assurda spedizione nella quale non avrebbero trovato niente di più di quanto non avessero già sulla Luna. E Nat, al di là dell’allettante prospettiva di far venire un infarto al padre qualora avesse accettato la proposta di Rowena, era rimasto della sua idea, ossia che, semplicemente, non ne valesse la pena.

Lei invece era stata irremovibile. Una sera, tornando dalla base, lui non l’aveva più trovata. Non c’era più. Nessun biglietto, nessun armadio svuotato (praticamente tutti i suoi effetti personali erano rimasti lì), solo una piccola parte del conto in banca prelevato. Se n’era andata, così, svanendo nello stesso nulla dal quale era arrivata.

Sulle prime, Nat aveva continuato a pensare che si trattasse di un fatto passeggero. Alla fine Rowena si sarebbe stancata anche di quella follia e sarebbe tornata, magari con un po’ di giudizio in più. Lo aveva pensato per una settimana. Due settimane. Un mese. Aveva iniziato ad inventarsi le scuse più fantasiose per nascondere questo fatto al padre, qualcosa di inedito per lui che non aveva mai mentito una sola volta al genitore.

Eppure aveva fatto anche questo, lasciando l’ennesima porta aperta per Rowena, pensando che così lei sarebbe potuta tornare senza eccessivi problemi. Poi, una sera, giunse la foto.

Eccola lì, sorridente sul rosso suolo marziano, dietro una sottile cupola trasparente. Con lui, un tipo riccioluto con una barbetta incolta e già con qualche sprazzo grigio, sicuramente invecchiato anzitempo dall’aria del pianeta. E ancora, quella bambina che non doveva avere più di sette anni.

Il tutto accompagnato da poche, feroci parole: “Sto bene. Non sono mai stata così felice. Lui è Andrew e sua figlia si chiama Benjamina. La madre è morta un anno fa, io ho cominciato a prendermi cura di lei alla scuola dell’insediamento. Ci siamo conosciuti e ora stiamo insieme. Cerca di capirmi, Nat. Ora sono finalmente libera. Ti voglio bene. Voglio bene a tutti e a tutti chiedo solo di perdonarmi. Addio.”

Calcando ancora un po’ il copricapo sulla capigliatura cortissima, Nat chiuse per un secondo gli occhi. Anche se la sua cabina girava ad una velocità programmata per simulare una gravità di tipo terrestre sfruttando la forza centrifuga, i sensi di un vecchio ufficiale non potevano essere ingannati tanto facilmente. Privandosi dei riferimenti visivi, Nat riusciva a percepire chiaramente quanto artificiale e diversa fosse quella gravità rispetto alla forza di attrazione naturale del pianeta madre su cui era nato.

Almeno, lo concesse ai Marziani, le città di quel pianeta non ci provavano nemmeno a fingere. La loro gravità era sicuramente più alta di quella della Luna, e quando era arrivato in quel posto alla ricerca di Rowena ci aveva messo un po’ per abituarsi. Ma in fondo non era stato poi così difficile, non quanto accettare lo squallore di ciò che lo circondava: agglomerati urbani chiusi nel loro isolamento all’interno di quel deserto infinito, dall’aria ostile e sinistra. Forme terrestri, eppure  allo stesso tempo aliene, con i palazzetti all’esterno delle cupole bassi e dalle linee arrotondate, collegati tra di loro da un dedalo di cunicoli e gallerie delle quali si intravedevano i tracciati in superficie. Quanto alle grandi città sotto le cupole, niente di paragonabile alle metropoli lunari, così rassicuranti nel loro caotico turbinio di persone e veicoli, l’opposto del silenzio assordante di Marte, rotto solo dall’incessare rumore dei suoi venti.

Ma non era per turismo che Nat era corso su Marte. Rowena voleva bene a tutti? Bene, un modo stupendo di intendere la vita. Voleva che la perdonassero? Ma certo, nessun problema. Si sentiva finalmente libera? Ecco, questo poteva anche scordarselo.

Nat non aveva praticamente rotto con quel patetico moncone paterno che era rimasto della sua famiglia, messo a repentaglio la propria carriera, rinunciato ad incarichi su unità importanti della flotta solo per ritrovarsi una bella sera con una casa vuota e un mucchietto di vecchi vestiti da donna in mano. Avrebbe ritrovato Rowena, avrebbe fatto quattro chiacchiere con quell’Andrew insegnandogli che sulla Terra e anche sulla Luna esisteva ancora una cosetta chiamata famiglia e avrebbe riportato la moglie dove doveva stare. Accanto a lui, al suo fianco.

Questo era ciò che pensava mentre camminava a passo di marcia e con indosso la sua bella divisa terrestre verso la delegazione terrestre di Newtontown, infischiandosene degli sguardi dei coloni che lo seguivano passo dopo passo. Certo, la ribellione era ancora lontana e ci sarebbero voluti almeno altri tre anni prima dell’inizio delle ostilità, ma solo un cieco non si sarebbe reso conto di quanto difficile fosse la situazione e di quanto “imprudente” potesse essere per un militare della Zona Interna avventurarsi per le strade di una delle maggiori città marziane. Di lì a qualche mese il comando coloniale avrebbe decretato un coprifuoco per tutto il personale, ma già in quei giorni era chiaro a tutti che stava per succedere qualcosa. Nat, però, non se ne curava.

Ciò che invece attirò la sua attenzione fu lo sguardo dell’impiegato della delegazione quando nominò l’insediamento polare dove era andata Rowena. Evidentemente lui non lo sapeva, gli disse, ma due settimane prima del suo arrivo una tempesta aveva rotto la cupola dell’insediamento, seppellendolo sotto dieci metri di sabbia, roccia e ghiaccio. Allo stato attuale risultava improbabile perfino riuscire a recuperare i corpi dei coloni. In altre parole, erano tutti morti.

Sul momento Nat non riuscì nemmeno a provare dolore. Anzi, era come se lo avesse già saputo, come se fosse arrivato a leggere in un brutto romanzo il finale che aveva già previsto un centinaio di pagine prima. Rowena era scomparsa, svanita nel nulla, inghiottita dalla sua stessa libertà. Su Marte non aveva più trovato alcun limite, e per questo Marte l’aveva uccisa.

E non fu quello il momento peggiore. Il peggio arrivò quando la sera stessa trovò il coraggio di chiamare il padre per dirgli tutto. La recita era finita.

Il viso emaciato del genitore, quasi immobile e inespressivo sul suo letto di ospedale, comparve nella piccola camera d’albergo che Nat era riuscito a trovare. Una camera matrimoniale, a tal punto era arrivato il suo disperato ottimismo. Per un istante ritornò ad un’altra conversazione, di tanti anni prima. Anche se la tecnologia e i collegamenti erano migliorati, eliminando la necessità di una comunicazione in differita, lui era ancora una volta costretto a parlare di morte con suo padre a milioni e milioni di chilometri di distanza. Solo che ora le parti erano invertite, era Nat ad essere nello spazio mentre il padre gli rispondeva dalla Terra.

Gli disse tutto, senza alcuna riserva. Il padre dovette apprezzare la sincerità del figlio, perché non lo interruppe mai, limitandosi solo ad annuire di tanto in tanto.

Poi, quando Nat ebbe finito, si inumidì le labbra rinseccate e parlò, con voce bassa ma allo stesso tempo netta e forte.

«Comprendo il tuo dolore, Nathaniel, ma non devi ritenerti responsabile per quello che è successo. E’ stata lei a scegliere questa fine e tu hai fatto tutto ciò che potevi. Lei non mi piaceva, lo sai, ma tu hai dimostrato di avere carattere nel cercare di riportarla a casa. Mi hai stupito, figliolo. Io avrei fatto lo stesso.»

Lui avrebbe fatto lo stesso.

Nat non rispose. Non lo salutò neppure. Chiuse la comunicazione così, senza dire altro.

Lui avrebbe fatto lo stesso.

Pochi giorni dopo, mentre Nat era ancora in viaggio saltellando tra i corridoi relativistici che collegavano Marte alla Terra, il padre morì.

Seguì qualche anno di nulla nella vita di Nat. Una casa da svuotare prima di venderla, vecchi vestiti da donna regalati in beneficenza, una carriera nella flotta. I politici fecero del loro peggio, vi fu la vicenda di Van Holsten, le colonie si ribellarono e la guerra ebbe inizio. I militari e i civili cominciarono a morire a milioni.

Una piccola macchia scura sul rosso brillante comparve sulla mostrina che ricordava a Nat la battaglia del Corridoio 13. Un intero gruppo da battaglia colto di sorpresa, le navi marziane che apparvero all’improvviso senza una segnalazione di campo relativistico e tre incrociatori distrutti prima che l’ammiraglio Hamilton ordinasse il ripiegamento. Solo il sacrificio della Houston e della Beijing aveva permesso al resto della formazione di riattivare il corridoio e tornarsene a casa con la coda tra le gambe. Giusto in tempo per trovare metà delle colonie orbitali di L1 e di L3 in rivolta, tutte con la loro bella copia della Dichiarazione di Marte nei rispettivi “parlamenti”.

Per molti, quella battaglia aveva segnato l’inizio della fine. La dissoluzione della Zona Interna, il via libera per i disordini su Aldrin, la breccia dalla quale erano passate le flotte marziane che avevano stabilito una testa di ponte sulla Luna. Per Nat, quella battaglia era stata uno spartiacque, certo, ma solo uno dei tanti della sua esistenza. Aveva perso commilitoni, conoscenti, perfino degli amici. Ma aveva retto.

Per la prima volta in vita sua aveva fatto qualcosa di importante, si era finalmente distinto ed aveva ricevuto una prima ricompensa per le sue azioni. Quando la Beijing era stata colpita direttamente ai motori, innescando la reazione a catena che ne aveva provocato di lì a poco l’esplosione, senza attendere un comando diretto, il giovane tenente comandante Nathaniel Cobblestone aveva ordinato alla sua corvetta, la Theseus, di avanzare lanciando una salva di missili praticamente alla cieca contro le navi nemiche in avanzata. La manovra, piuttosto stupida per la verità, doveva aver sorpreso gli inesperti capitani ribelli e li aveva tenuti alla larga quanto bastava da permettere ai tecnici di riattivare il corridoio. Naturalmente il fuoco di risposta della flotta nemica aveva fatto a pezzi la Theseus e Nat si era salvato quando il suo secondo in comando lo aveva praticamente buttato di peso dentro una navetta di salvataggio. Lui ce l’aveva fatta beccandosi una citazione solenne e un avanzamento di grado, il suo secondo si era dovuto accontentare di una medaglia alla memoria e di un bel funerale.

Nat alzò il mento e si guardò. Ora era vestito come si doveva, ora aveva indosso la sua divisa e si sentiva nuovamente lui. Come il giorno in cui aveva ricevuto la citazione al valore, quando aveva capito che ormai quella era la sua esistenza, che il suo scopo era prendere l’iniziativa e mantenerla quanto più possibile. Certo, alcuni sarebbero morti a causa delle sue scelte, ma preferiva avere quei rimorsi sulla coscienza piuttosto che la consapevolezza di aver fatto morire qualcuno a causa della sua inerzia.

Quindi, un altro sobbalzo. Più forte. E ancora un altro accompagnato dal rumore di qualcosa che si infrangeva sullo scafo corazzato.

«Capitan, abbiamo bisogno di lei in plancia!» disse una voce all’interfono. Nat si concesse un mezzo sorriso allo specchio ed uscì, camminando con sicurezza e senza affanno. In fondo, erano arrivati.

Ora, chi non è mai stato a bordo di un’unità ingaggiata in battaglia non può comprendere cosa vide il capitano non appena ebbe messo piede al di fuori della sua cabina. L’andirivieni degli uomini e delle donne dell’equipaggio, i rumori soffocati e nervosi al tempo stesso, le comunicazioni che viaggiavano all’interno della nave simili alla linfa vitale di un organismo in pericolo. E su tutto il rumore delle sirene, accompagnato dai lampeggianti, che segnalava il passaggio alla situazione di battaglia e quindi l’imminente blocco della rotazione gravitazionale di quel settore.

L’istinto lo portò ad afferrare il corrimano, mentre il pavimento sotto i suoi piedi iniziava a rallentare. La familiare sensazione di vuoto si impadronì del suo stomaco, ormai abituato a quello che i veterani chiamavano scherzosamente “buco nero”, in altre parole il modo migliore per vedere cosa  un novellino avesse mangiato quella mattina a colazione. Le sue dita si stringevano sulla sbarra mano a mano che il suo corpo diveniva più leggero e iniziava a fluttuare. poi la barra cominciò a scorrere in avanti e, scavalcando altri dell’equipaggio, Nat arrivò ben presto in sala comando.

L’angusta sala avrebbe ospitato in condizioni normali al massimo una decina di persone, ma in una nave da battaglia lo spazio è un lusso e in quel momento di marinai e ufficiali ce n’era almeno una quindicina.

Tuttavia, lo spettacolo che più colpì il capitano al suo ingresso non fu di vedere così tanta gente nella sua normalmente ordinata sala comando, bensì ciò che si poteva vedere dalle paratie schermate. Tante navi. Allineate, sparse, raggruppate. Alcune grandi come una montagna sradicata dal suolo, altre più piccole e snelle. Attorno a loro le veloci scie dei caccia che uscivano dai loro stessi ventri o vi volavano intorno in traiettorie avvolgenti. Nei pressi, i puntini luminosi della fanteria extra-veicolare, ed ognuno di quei puntini era un uomo, un soldato che separato dallo spazio esterno da una sottile tuta corazzata sfidava i giganti con la sua arma, piccola ma letale come una freccia ben mirata.

Alcune di quelle navi subivano i colpi dei missili e dei proiettili non guidati, talvolta resistendo e più spesso andando in fiamme per brevi istanti, prima che la mancanza di ossigeno spegnesse da sola gli incendi. I caccia erano molto meno resistenti ai danni diretti e dovevano fare affidamento alla loro velocità per schivare il pericolo. La fanteria non era nè ben protetta nè veloce e quindi poteva fare solo ciò che le riusciva meglio: morire al suo posto, vendendo cara la pelle.

Ora, il problema non era che ci fosse tutto quel trambusto a pochi metri di distanza da lui, nello spazio circostante. Il problema era che ce n’era troppo.

«Capitano in plancia!» urlò una voce di donna. Reefer, il suo primo ufficiale. Scattò subito in piedi dalla sedia di comando, e Nat non potè che comprendere la sua fretta e la sua aria sollevata: la situazione appariva pessima.

«Non è un po’ troppo affollato là fuori, tenente?» le chiese, ancorandosi ai braccioli e mettendosi a sedere.

Il tenente lo guardò dritto negli occhi. I suoi capelli erano legati sulla nuca, come prescriveva il regolamento, ma per l’agitazione una ciocca era sfuggita al nodo e ora galleggiava in assenza di gravità. «In effetti, signore, il numero delle unità nemiche supera le previsioni del comando.»

Ottimo ufficiale. Voce sicura, senza esitazioni. E una maniera eccellente di affrontare un disastro imminente.

«A quanto pare il nostro diversivo al Corridoio 41 non ha avuto l’esito sperato. Conto abbastanza navi marziane da formare almeno due gruppi da battaglia al gran completo, se non tre...»

Le mani del tenente si strinsero un po’ troppo attorno alla maniglia a cui si stava reggendo. «Trentasei unità, di cui dieci di dimensioni maggiori.» Una luce, proveniente da sinistra, abbagliò tutti per qualche istante. Reefer piegò un labbro. «Nove...»

«Sì, nove. Ma un po’ troppe per una forza di milizia. Di questo passo avremo difficoltà a raggiungere il punto di lancio prima dell’arrivo del resto della loro flotta...»

«Messaggio codificato dalla Poseidon,» lo interruppe l’addetto alle comunicazioni. «Forza di interposizione nemica di dimensioni ingenti. Copriremo la vostra avanzata. La missione prosegue nei termini previsti. Buona fortuna.»

Nathaniel rimase impassibile. Ma dentro di sè voleva mettersi a ridere. Copriremo la vostra avanzata... la missione prosegue... Sapeva che alla sua sinistra, in alto, la grande massa d’acciaio della Poseidon lo sovrastava e incassava colpi diretti alla Triton fermandoli sulla sua spessa corazza. Ma quella corazza era per l’appunto spessa, non eterna. Il che significava che non li avrebbe difesi per molto tempo.

«Magnifico,» disse, allacciando le fibbie della cintura di aggancio sulla sua sedia, «La missione prosegue e anche noi. Navigatore, rotta verso il bersaglio.»

La Triton, dunque, proseguì, tra le fiamme mute della battaglia, le scie luminose dei missili e dei traccianti, le invisibili onde elettromagnetiche delle frenetiche comunicazioni tra le unità. E la distanza che la separava dal suo traguardo diminuiva, chilometro dopo chilometro.

Ma nel frattempo nessuno sulla nave poteva fare molto. Il dover andare avanti a tutti i costi era più snervante del mantenere la posizione e combattere, perché l’unica cosa che si poteva fare era sperare di non essere centrati da un colpo fortunato che avrebbe squarciato le paratie e fatto esplodere la nave dall’interno. Nat lo sapeva, i suoi ufficiali lo sapevano, l’intero equipaggio lo sapeva. E tutti rimanevano lì, sulle loro sedie o ai loro posti, concentrati e silenziosi.

L’unica che ancora si muoveva in quell’atmosfera irreale interrotta solo dal rumore di qualche impatto sullo scafo era proprio il tenente Reefer che galleggiava da una postazione all’altra. Per un istante, solo un attimo, la donna si girò verso Nathaniel e gli diede uno sguardo strano, che lui non le aveva mai visto sul volto.

Il capitano abbozzò in risposta un mezzo sorriso. Ce l’avrebbero fatta, dovevano farcela. Il tenente fece un cenno col capo e si diresse verso la console dell’ufficiale di tiro.

«Il sistema Hydra è sovraccarico, tenente,» le annunciò con tono grave, «Le nostre batterie difensive non riescono a tracciare tutti i proiettili. Temo che...»

Il capitano lo interruppe. «Disattivate i protocolli di mira della batteria, intensificate il fuoco e aumentate la velocità della nave. Schiveremo i colpi anziché fermarli.»

L’ufficiale eseguì e la Reefer si accostò al suo comandante.

«A questa velocità ci basteranno un paio di minuti...», gli disse a voce bassa.

Nathaniel si passò la lingua sulle labbra. «Sì, ci siamo quasi...»

In quel momento, la nave iniziò ad essere scossa con maggiore violenza. I rumori sulla parte sinsitra dello scafo si intensificarono e Nathaniel e la Reefer si guardarono, entrambi timorosi di sapere cosa questo significasse.

«E’ la Poseidon, signore!» urlò l’addetto alle comunicazioni, «Il loro scafo è stato perforato in più punti. Non possono spegnere gli incendi nell’area dei reattori. L’ammiraglio Herbert ci ordina di allontanarci il più velocemente possibile e di andare avanti da soli.»

Nathaniel chiuse gli occhi. Sapeva che uno degli aspetti più singolari delle battaglie nello spazio era la pressoché totale assenza di qualsiasi suono. Quindi, sapeva anche che dell’esplosione della Poseidon, della morte di più di trecento persone, della distruzione della loro unica protezione lui non avrebbe avuto alcun sentore. E così fu.

La Triton accelerò, fin oltre il punto critico dei suoi motori e la cosa finì lì. La Poseidon, semplicemente, smise di esistere.

Eppure il loro obiettivo era così vicino, dritto davanti a loro. Un grosso sasso, di colore grigio pallido. Un aborto di satellite, un degno e sinistro compagno per quell’orribile pianeta che aveva strappato a Nathaniel una delle poche cose sensate della sua esistenza e che ora, maestoso nel suo rosso brillante, pareva guardarlo beffardo. Eccolo lì, dunque, il figlio di Marte, la sede del comando militare delle ex colonie. Deimos.

«Stiamo entrando nel raggio d’azione delle difese fisse di Deimos, capitano,» esclamò l’ufficiale di tiro. E subito dopo, a conferma delle sue parole, lo scafo risuonò a causa di altri impatti. Per la prima volta, le luci della plancia cominciarono a spegnersi e a riaccendersi a intermittenza.

«Se il resto della squadra potesse ingaggiare quelle difese...» disse il tenente, portandosi la mano vicino alla bocca. Ma Nathaniel scosse il capo.

«Non ci conti. In questo momento il resto della squadra, o quel che ne rimane, è troppo impegnata a sopravvivere.»

La Reefer fece un respiro profondo. Un altro colpo fece sobbalzare l’intera cabina. Un pannello si aprì, in un’improvvisa cascata di scintille. “Capitano, non so quanto reggeremo.”

«Il necessario.»

Il necessario. Quello che serviva per arrivare all’obbiettivo. Per arrivare a Voltaire, la città nel cratere. Uno dei cuori della rivolta di Marte. Lui, sempre lui, quel pianeta maligno e seduttore, che aveva traviato innumerevoli anime e provocato innumerevoli lutti con la sua falsa e sregolata idea di libertà. Lui che non aveva regole se non le proprie e che ti puniva severamente quando le trasgredivi. L’ingannatore, il violento, il divoratore di vite.

Ma stava per finire. Tutto stava per finire.

I rumori della nave si facevano più inquietanti, le luci più deboli, le voci degli ufficiali di plancia più concitate. Nathaniel taceva e anche la Reefer non si muoveva più dal suo fianco. Stava cominciando a capire anche lei.

«Tempo di arrivo a portata utile di lancio dell’ordigno?» chiese il capitano.

«Sessanta... secondi, signore. Ma non so se...»

«Comunicazione in arrivo... in arrivo da Voltaire! Sono i coloni!»

Nathaniel alzò leggermente la testa. Una delle prime cose che aveva imparato dalla sua esperienza di battaglia era percepire la paura dell’avversario. «E dunque?»

«Oh mio Dio, signore! E’ il Presidente Hanacek! E’ su Voltaire! Conosciamo la natura e l’efficacia della vostra arma. Il comando delle forze dell’Intesa è situato nei pressi della città di Voltaire, tre milioni di abitanti. Vi imploriamo di fermarvi.»

Nel giro di pochi, brevi istanti, molte cose passarono per la mente del capitano. Hanacek. Lei, una delle prime a dichiarare la ribellione. Una dei maggiori responsabili. Lei ora lo implorava di fermarsi, lei che conosceva la natura della loro arma, evidente riprova dell'ennesima falla nella rete di sicurezza dell'esercito dell'Unione. Probabilmente la stessa falla che aveva permesso ai marziani di schierare tre gruppi da battaglia in loro attesa, evitando le manovre diversive terrestri.

E adesso la Triton era lì, puntata come una freccia contro i capi dei ribelli, incurante dei colpi ricevuti, pronta ad infliggere la sua vendetta contro dei criminali che non sapevano fare altro di meglio che chiedere pietà. Ma ne avevano mai avuta loro? Avevano mai lasciato loro una seconda possibilità agli altri, alle persone come Rowena che prima avevano ingannato e poi avevano lasciato morire? E quelle che avevano ucciso direttamente?

Fu per questo che Nathaniel rimase in silenzio. L'intero ponte di comando rimase in silenzio. E quel silenzio era una risposta. E quella risposta era inequivocabile.

«Trenta secondi al punto di sgancio.»

Ecco. Ancora poco. Che piangessero pure quanto volevano, che chiedessero perdono per i propri peccati e le proprie colpe. Forse altri glielo avrebbero concesso, un giorno. Ma dopo che Nathaniel avesse portato a termine la sua missione.

Gli urti sullo scafo si fecero più violenti. I marziani stavano diventando sempre più feroci e disperati nella loro difesa, stavano concentrando ogni sforzo per fermare quella freccia scagliata dritta contro il cuore della loro criminale follia.

Fu così che accadde. Nathaniel percepì prima il buio che avvolse il ponte comando rispetto al frastuono che per poco non lo assordò, alle cascate di scintille e di fiamme che per poco non lo accecarono, allo scossone che per poco non gli spezzò in due la schiena. Poi ancora fumo, calore, qualche urlo. Diversi urli.

Lampeggiando intermittente, la luce tornò. E ciò che mostrò agli occhi del capitano fu uno spettacolo che riuscì a togliere il respiro perfino a un veterano come lui. Buona parte degli ufficiali era morta, ma rimaneva ancora seduta davanti a ciò che rimaneva della propria postazione, come incatenata per sempre al proprio dovere. Un uomo, forse l'addetto alle comunicazioni, rantolava afflosciato su sè stesso. E il primo uffiiciale... quella donna indistruttibile si stava rialzando in quel momento da terra, scostando una ciocca insanguinata dal proprio viso più infastidita che spaventata. Diede un rapido sguardo a Nathaniel e poi si lanciò sulla consolle di navigazione. Scaraventato via il cadavere del timoniere, che prese a galleggiare a mezz'aria con quasi macabra eleganza, riuscì ad attivare uno degli schermi del computer.

Quando si voltò di nuovo verso il capitano, il suo viso era pallido, oltre che attraversato da una sottile linea di colore rossastro.

«Abbiamo perso i controlli del tiro. Non possiamo più lanciare il dispositivo.»

Nathaniel girò d'istinto la testa verso la postazione tattica e non vide altro che fumo, lamiere contorte e carne bruciata. Fece un respiro profondo.

«Siamo in grado di governare la nave?»

«Credo di sì... sì. Abbiamo ancora la piena velocità.» Il tenente fece una pausa lunga quanto un fiato, pesante quanto un macigno. «E abbiamo appena raggiunto il punto di lancio.»

Nathaniel annuì. «Bene. Non ci sarà nessun lancio. Da questo momento, l'intera nave è il dispositivo che lo ospita, nient'altro che il suo involucro. Tra quanto raggiungeremo il punto di innesco?»

Il tenente socchiuse gli occhi. «Trenta secondi. Dopo, il dispositivo Radiant si attiverà automaticamente...»

«...e anche se ci facessero esplodere la reazione inizierebbe ugualmente,» completò lui la frase. Solo che lo fece con una voce strana, improvvisamente dolce e serena. Era stato qualcosa negli occhi della Reefer. Non li aveva mai visti così... luminosi... «Anna... per me è stato un onore...»

Lei scosse la testa, provò a sorridergli. Ne venne fuori una smorfia leggera, quasi tenera. Con una piccola spinta sulla sedia del timoniere, attraversò galleggiando ciò che rimaneva del ponte di comando, per mettersi vicino a lui.

Gli prese la mano.

«Non... Forse non è molto appropriato, ma... ho paura...»

Nathaniel annuì, lentamente. Poi le accarezzò le dita.

«Non è appropriato, Anna, ma è sincero. Grazie.»

Un velo di perplessità attraversò i begli occhi del tenente. Poi la donna chinò il capo, verso un piccolo monitor di controllo della postazione del capitano.

«Punto di innesco raggiunto. Radiant è attivo.»

Nathaniel le strinse la mano, con tutta la delicatezza di cui era capace. Ricordò un'altra donna alla quale faceva sempre quel gesto, ogni volta che l'abbracciava. Era per sentirla vicina, per farla sentire protetta, per sentirla più sua. E adesso lui stava tornando, anzi la stava raggiungendo. Lei, Rowena, la bella e indomabile Rowena, morta nel posto sbagliato per i motivi sbagliati. Ma adesso lui, Nathaniel Cobblestone, capitano dell'incrociatore da battaglia Triton avrebbe messo a posto le cose. In quel momento comprese che non gli importava nulla della guerra, delle colonie, dei pianeti, dei presidenti o degli ammiragli. Tutto ciò che contava era l'affetto per il tenente che affidava a lui gli ultimi istanti della propria esistenza e il ricordo di colei che un giorno era divenuta sua moglie, e che le malevole promesse di libertà di Marte avevano traviato, ingannato e condannato a morire nella desolazione dei suoi deserti. Vendetta era ciò che voleva? Anche. Ma soprattutto, restituire equilibrio al proprio mondo e a quello degli altri, dimostrare ancora una volta che per ogni crimine c'era una punizione. Proprio come gli aveva insegnato suo padre, l'uomo che più aveva odiato e meno compreso in tutta la sua vita. E adesso lui era quella punizione, lui avrebbe...

La luce lo colse di sorpresa. Non aveva nemmeno sentito i colpi che avevano squarciato lo scafo della sua nave, raggiungendo il compartimento dove il missile Radiant attendeva di essere lanciato contro il proprio obiettivo. Eppure quei colpi erano arrivati, avevano colpito la testata dormiente e avevano fatto detonare il dispositivo di emergenza.

Radiant si era svegliato.

Dall'esplosione erano fuoriuscite decine e decine di fulmini azzurri, che non si erano scaricati nell'aria per linea retta come una qualsiasi carica elettrica, ma l'avevano invece attraversata, insinuandosi come serpenti inferociti. Questi serpenti avevano prima avvolto la Triton stessa, uccidendo in un lampo di luce abbagliante tutti coloro che ancora vi si trovavano a bordo e poi erano ridiscesi, seguendo la forza gravitazionale di Deimos come le correnti di un fiume.

Dai resti della nave in fiamme avevano raggiunto la superficie del satellite, avevano fatto strage per le vie e le case di Voltaire, avevano raggiunto il centro di comando dell'Intesa e avevano compiuto la loro missione.

In meno di un minuto, qualsiasi materiale organico presente su Deimos si era disgregato, vaporizzato all'istante. Ma gli oggetti, quelli no. Tutto era rimasto intatto, dai grandi palazzi inutilmente protetti dalle cupole rinforzate fino alle più piccole testimonianze della presenza un tempo di vita umana in quei luoghi.

E così milioni di veicoli, orologi, anelli, occhiali, bottoni, penne... tutto aveva preso a ruotare nel nulla di un mondo ormai morto, privo di vita e condannato dalle radiazioni a rimanerlo per almeno cinque migliaia di anni.

Deimos era finito, Deimos per l'uomo non esisteva più se non come mera espressione astronomica.

E in tutto questo, un frammento di nave, scagliato nello spazio dall'esplosione, iniziava il suo lungo eterno viaggio verso il nulla. Al suo interno, in una stanza che un tempo era stata una sala comando, nient'altro che poveri e miserandi resti di macchine. Un po’ più in là, in una cabina ordinata e pulita, una foto. Di una casa, in un pianeta lontano. E di una vita, anch’essa ormai remota e perduta.

Nota dell'Autore: Con questa storia, spero di aver risposto a chi mi chiedeva maggiori dettagli sull'ambientazione (e anche sul nome!) dell'universo di Radiant. Altri racconti narreranno di eventi più specifici che hanno condotto l'umanità alla terribile guerra civile che molti anni dopo sarà soprannominata Guerra Solare o Guerra dell'Esilio. Molte cose rimangono da chiarire e molti altri fatti devono accadere... ma queste sono altre storie!
   
 
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