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Autore: Vedra    23/07/2013    3 recensioni
Introduzione: La storia è raccontata dai vincitori, è sempre stato così. Spesso osserviamo la storia avvenuta sotto l’Impero Romano immedesimandoci negli stessi Romani, ma se provassimo a cambiare prospettiva? Se non fossero i vari Galli, Celti, Parti, Macedoni, Dalmati, Britanni ecc… i barbari? Se lo fossero i Romani? E se invece di seguire le grandi gesta dei condottieri leggessimo la storia attraverso gli occhi di una donna? Una donna senza nome, di cui si sa solamente che fu moglie di Asdrubale e madre di due figli, una donna che uccise i propri bambini e si gettò tra le fiamme *per non cadere nelle mani di Roma. L’ultima guerra punica, la meno conosciuta, oscurata dalla fama della seconda guerra punica – con i suoi Scipione Africano e Annibale – la guerra che fu più una spedizione allo scopo di radere al suolo Cartagine che una vera guerra. E una donna che ha avuto più coraggio di tutti i suoi concittadini.
N.B.: *se tale argomento vi urta, non leggete. Accetto qualsiasi critica negativa che sia motivata.
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Antichità greco/romana
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Nickname: Forum: Vedra, EFP: Vedra
Titolo: Carthago delenda est (NdA: Cartagine deve essere distrutta/Bisogna distruggere Cartagine, famoso detto di Catone)
Squadra: 3 – Storico, Epico, Avventura
Rating: Arancione (credo sinceramente sia eccessivo, ma non si sa mai :D)
Generi: Guerra, Drammatico, Storico
Avvertimenti: //
Introduzione: La storia è raccontata dai vincitori, è sempre stato così. Spesso osserviamo la storia avvenuta sotto l’Impero Romano immedesimandoci negli stessi Romani, ma se provassimo a cambiare prospettiva? Se non fossero i vari Galli, Celti, Parti, Macedoni, Dalmati, Britanni ecc… i barbari? Se lo fossero i Romani? E se invece di seguire le grandi gesta dei condottieri leggessimo la storia attraverso gli occhi di una donna? Una donna senza nome, di cui si sa solamente che fu moglie di Asdrubale e madre di due figli, una donna che uccise i propri bambini e si gettò tra le fiamme *per non cadere nelle mani di Roma. L’ultima guerra punica, la meno conosciuta, oscurata dalla fama della seconda guerra punica – con i suoi Scipione Africano e Annibale – la guerra che fu più una spedizione allo scopo di radere al suolo Cartagine che una vera guerra. E una donna che ha avuto più coraggio di tutti i suoi concittadini.
N.B.: *se tale argomento vi urta, non leggete. Accetto qualsiasi critica negativa che sia motivata.





NdA: Esordisco dicendo che non voglio giustificare, né esaltare nessun atto di cui ho parlato, è semplicemente la descrizione di un fatto storico, e vorrei che fosse esaminato esclusivamente sotto questa luce: è un fatto storico, come Cesare che passa il Rubicone. Ho spulciato attentamente il regolamento di EFP, e non mi pare di aver violato alcuna regola, se così fosse (con argomenti ragionevoli, non del tipo “questa storia mi offende” ma “questa storia va contro il regolamento” e specificate quale parte del regolamento viola) contattatemi e toglierò immediatamente la storia. Dopo questa premessa, passo a spiegare che le informazioni su questo particolare episodio sono davvero poche: non si conosce il nome della moglie di Asdrubale – il generale cartaginese della terza guerra punica – né quello dei suoi figli. Ho immaginato dunque che questo Asdrubale fosse parente di Annibale  (il quale aveva un parente di nome Asdrubale) e pertanto facesse “Barca” di cognome. I nomi dei figli – Amilcare e Asdrubale – appartengono alla famiglia Barca. Ogni informazione è stata reperita tramite Wikipedia, e le varie note specifiche sono a fine capitolo.



 
 

Carthago delenda est
 






 
 

Il crepuscolo è calato sulla città, sulla colonia di Tiro, sulla potente regina del Mediterraneo.
Il crepuscolo è calato su Cartagine.

E la luna pare essere ancora più brillante del sole di mezzogiorno, e le stelle splendono vivide in cielo, luminose, splendenti, forti, fitte e regali, come i dardi infuocati che da troppi giorni solcano il cielo volando verso la città, scagliati dalle possenti catapulte romane e dagli archi della Numidia.

Tu, splendida figlia di un’ancor più splendida città, la cui bellezza è ancor più accentuata dalla disperazione di cui è lorda, ti ergi fiera contro uno sfondo di fiamme, tenendo per mano i tuoi due figli, i figli del nobile generale Asdrubale. Dietro di te, rosse fiamme ardenti avvolgono con il loro impietoso abbraccio il tempio di Eshmun*, che lentamente ne viene distrutto. I Romani sono riusciti a dargli fuoco, e ora rosseggia avviluppato dalla spietata danza delle fiamme.

Indossi una veste che questa mattina era candida, ma che adesso ha l’orlo stracciato ed è nera di fuliggine. I capelli sciolti ondeggiano al vento, morbidi ricci, neri come le ali di un corvo e lucidi come l’onice. Sul volto la brezza ha depositato troppa fuliggine perché ancora il candore della tua pelle si possa scorgere. Gli occhi scuri e orientali scintillano di lacrime, che scendono silenziose sul tuo volto, tracciando solchi argentei sulle guance macchiate di nero, alla vista dell’amata città che ora è preda della violenza di Roma e delle fiamme che i luridi abitanti della città sul Tiberis hanno appiccato.


Eri certa, nel tuo cuore, che tale sarebbe stata la fine di Cartagine: troppe volte ha sfidato Roma perché questa si accontentasse di vietarle il possesso di un esercito**. Ma poi hai sperato, quando tutto il metallo presente in città è stato fuso, quando la determinazione e la ferocia sono tornate negli occhi dei Cartaginesi, quando i porci romani hanno iniziato a collezionare sconfitte su sconfitte, e ancor prima quando ti hanno richiamata, assieme ad Asdrubale, dall’esilio al quale, per volere di Roma, ti avevano condannata.

Ma Roma non è stata debole come credevi: da quando Scipione Emiliano ha preso il comando, ogni speranza è andata distrutta.
Ha bloccato i vostri porti, ha scoperto persino il tunnel-canale che avevate scavato per continuare a ricevere viveri via mare, ha distrutto la vostra flotta, e con le ultime navi, è scomparsa anche la speranza.

Per un anno e ventitré giorni i Cartaginesi hanno cercato di resistere, ma il loro coraggio e il loro valore non hanno trovato modo di sconfiggere un nemico invisibile qual è la fame e la malattia.
Roma è stata troppo astuta, troppo potente, troppo abile per poter essere battuta.
Roma ha tratto dalla sua parte persino ciò che non ha volontà, ciò che non può essere visto, né dominato, né combattuto.  



Loro erano lì, quei bastardi romani, che guardavano dal loro lercio campo le mura di Cartagine, sapendo che poco sangue avrebbe bagnato le loro lame, perché il soffio della vita dei loro nemici era catturato da altre, invisibili, mani: dalle terribili pestilenze, dalla mancanza di viveri ed acqua, dalla stessa disperazione che avvolgeva la città come un velo.

Loro erano lì, sotto le mura della regina dei mari, a ubriacarsi, a giocare a dadi, ad aspettare mentre Cartagine consumava la sua lenta e dolorosa agonia.

Loro erano lì, a guardare, mentre i Cartaginesi morivano di fame e di sete, e venivano colti dalle malattie più mortali.

Loro ridevano, e i loro cuori si riempivano di speranza ogni volta che udivano i pianti e i lamenti funebri provenienti dalla città assediata.

Con i porti nelle mani di Roma, Cartagine non riceveva che pochi viveri dall’interno, e non è stata in grado di soddisfare le necessità di tutto un popolo, ammassato al suo interno convinto di trovare, lì, protezione e sopravvivenza.

Tappasti gli occhi ai tuoi bambini quando i primi morti iniziarono ad affollare le strade della città, dieci mesi fa, ma dopo qualche tempo hai compreso che avrebbero dovuto camminare bendati per non vedere i cadaveri al loro fianco.

E così li hai iniziati alla morte, e hai visto paura nei loro occhi, e hai pianto in silenzio, perché per il luminoso sole di Cartagine era giunto il tramonto, e perché hai compreso che i tuoi figli non sarebbero scampati al loro destino, che le loro vite innocenti sarebbero state soffocate dalle spire di una guerra protratta nei secoli da grandi uomini assetati di gloria, che difendevano eroicamente e virtuosamente la loro patria. 


Hai nutrito i tuoi bambini come meglio hai potuto, strappando il pane ad altre madri come altre madri lo strappavano a te, e non sei stata più la venerabile moglie del generale Asdrubale, se non nella tua mente. Fino ad ora. Fino a che non è giunta la fine. Adesso ti ergi, splendida donna, contro un muro di fiamme e stelle. Il parapetto della cittadella è dinanzi al tuo seno, coperto solo da un brandello di lino. Più volte oggi tu e i tuoi figli avete rischiato di morire, per un crollo, per un capanno di legno colpito da un dardo infuocato, sotto la lama del coltello di un uomo disperato. Adesso quel coltello è legato al tuo braccio, fermato da una treccia composta dai tuoi capelli, strappati dalla lunga chioma corvina.

Un bastardo romano sta urlando qualcosa, e tiene in mano una lurida pergamena.


«Il generale Lucio Cornelio Scipione Emiliano, decreta, attraverso questo bando, che a chiunque si arrenderà e si presenterà fuori dalle mura privo di armi, sarà risparmiata la vita. Sia gloria al Senato e al Popolo di Roma.»

Raccogli la saliva sulla lingua e sputi oltre le mura: morirai piuttosto che arrenderti a Roma. E volti le spalle, convinta che ciascuno dei soldati ancora presenti nella città faranno altrettanto. Credi sia un’illusione quella che scorgi con la coda dell’occhio: decine di persone stanno deponendo le armi, e discutono stancamente tra loro, poi si dirigono verso la grande porta della città. Lasci i tuoi figli e corri loro incontro, mentre nuove lacrime ti rigano il volto.

«Dove andate, cosa state facendo?»

«Stiamo obbedendo alle parole del generale romano. Non hai sentito, donna? Ci ha promesso la vita in cambio della deposizione delle armi.»

«Per un anno abbiamo resistito alle armi di Roma, e vi arrendete dopo pochi attimi alla loro parola?»

«Donna, faresti meglio anche tu ad arrenderti. Non sai cosa accade alle donne prigioniere di guerra?» Sono sfiniti, glielo leggi negli occhi, sono distrutti dalla fame, dalla sofferenza e dal dolore. Non ti hanno riconosciuta come moglie di Asdrubale, e non c’è ira nelle loro parole, solo una stanchezza viscerale.

«Possiamo ancora vincere. Non abbandonate Cartagine! Poche parole hanno pronunziato i romani, e voi subito cedete a loro? Che ne è stato dell’onore di Cartagine? Che ne è stato del valore dei suoi soldati?»

«Donna, cosa vedi in noi, e negli altri quarantamila soldati che ancora sono a Cartagine? Abbiamo diecimila civili da proteggere, i nostri animi hanno perso la forza di un tempo, le nostre spade sono intaccate, le armature impolverate, di cibo non c’è più nulla. I romani sono forti, potenti, hanno armi affilate e lucidi schinieri, hanno cibo e acqua, e le mie mani sono stanche di esser lorde di sangue, e la mia vista non sopporta altri cadaveri.
Abbiamo difeso le mura per settimane.
Ci hanno ricacciato.
Abbiamo combattuto i Romani per quindici giorni, signora, quindici, per le vie della città; abbiamo ammassato carri e tavoli in mezzo alle vie, le nostre donne e i bambini dalle finestre delle loro case hanno lanciato pietre, mattoni, acqua sporca, persino sgabelli e coltelli da cucina; abbiamo ammassato i nostri morti, profanando la loro carne, davanti alle legioni, per rallentarle.
Abbiamo combattuto, abbiamo tentato, signora.
Ci hanno sconfitti.
Abbiamo ripiegato nella cittadella, ci siamo rintanati nel tempio di Eshmun.
Lo hanno dato alle fiamme.
Dove ancora potremmo tentare una resistenza? Donna, arrenderci è l’unica scelta che abbiamo, se non vogliamo morire.»


«Preferite dunque la schiavitù certa che vi offrono i romani a una morte onorevole combattendo per la vostra città?»

«Preferiamo la vita alla morte.»

«Ma la vostra sarebbe una morte onorevole, che ha molto più valore di una vita trascorsa in schiavitù.»

«Guardati intorno, signora, quanti morti di quelli che vedi sono periti per freccia o pugnale, per spada o lancia?»

«Molti sono morti negli ultimi quindici giorni, hai detto tu stesso che abbiamo combattuto di strada in strada, di via in via, e che le tue mani sono lorde del sangue romano che tu hai versato a Baal in questi ultimi giorni.»

«Signora, io so soltanto che per ogni Romano che uccidevo, altri cento ne apparivano. Per ogni mio amico che cadeva, non c’era nessuno pronto a sostituirlo. Signora, i Romani possono tenerci chiusi qui dentro per sempre. Loro hanno tutto un impero, noi solo una città.***»

«Non abbandonate la vostra patria, la vostra terra, la madre che vi ha nutrito, gettatevi sui suoi nemici fin quando non li avrete distrutti. Non così fece Annibale a Canne? In inferiorità numerica egli era, eppure vinse, e levò alle stelle e agli dèi il nome di Cartagine»

«Annibale era vicino agli dèi, noi siamo semplici mortali, signora.»

«Egli era fatto di carne e sangue come voi, e piangeva come voi, e rideva. Eppure ha avuto onore e coraggio.»

«Egli era destinato a compiere quel che ha compiuto, noi siamo uomini che gli dèi hanno dimenticato.» Come spiegare a questi soldati stanchi, affamati, che vedono la morte davanti a loro da più di un anno, che Annibale aveva scelto di compiere quel che aveva compiuto? Che non era giunto per caso sulle Alpi, né a Canne per un volere divino. Non c’è più pudore né vergogna in questi uomini che si dimostrano più vili di una donna. Li abbandoni, e riprendi in mano i tuoi bambini, muti e silenziosi da troppo tempo ormai.

«Madre, dove fuggono quegli uomini?» Chiede Amilcare, il tuo primogenito, indicando la folla che si sta riversando fuori le mura della potente regina del Mediterraneo. Puoi udirla piangere, la tua città, puoi sentire la calce con cui è costruita pulsare di disperazione. Il cielo si scurisce sempre di più, mentre il sole ormai invisibile scivola più lontano, in direzione di Roma.

L’odiata Roma, l’usurpatrice, colei i cui figli non si sono mai arresi, colei che è diventata grande, colei che sta sconfiggendo Cartagine. Ed è ridicolo e assurdo che i figli di pastori e agricoltori abbiano più dignità e coraggio di coloro che discendono da una stirpe di antichi re e nobili principi.


Roma era serva, e adesso è regina.
Cartagine era regina, adesso non è più nulla.



Li osservi, quegli uomini senza dignità, che posano le armi e accettano una vita di vergogna in cambio della sopravvivenza. Preferisci morire che emularli. La senti, la rabbia, è in fondo al cuore, e cresce sempre più, invadendoti il petto come una nera bestia. Stringi le mani dei tuoi figli.

«Fuggono verso una vita senza onore.»

«Madre, perché fuggono?»

«Perché hanno paura, e temono le corazze e le armi di Roma. Perché sono toppo vili per vivere e morire donando il loro sangue a Cartagine.»

«Madre, noi cosa faremo?»

«Noi ci preserveremo un posto nella storia, figli miei, e manterremo il nostro onore: noi moriremo piuttosto che lasciare la nostra città in balìa di Roma.»

«Vuoi combattere, madre?»

«No, no, Amilcare: cosa può una donna davanti a un’orda di barbari usurpatori? No, ho intenzione di infliggere loro una sconfitta ben più potente.
Voglio dimostrare loro che hanno il potere su molto, non su tutto, che nonostante le loro promesse ci sono cuori che non potranno mai indurre a cedere.
Voglio gridare loro che il potere di Roma non è onnipresente e onnipotente, figli miei.
Voglio morire per dimostrare loro che sputo sopra le loro aquile, che possono offrirmi quel che desiderano, ma che non mi avranno mai. Voglio sfuggire alle lunghe mani di Roma.
Voglio privarli della soddisfazione di uccidermi, e di portarmi in trionfo sulle vie della loro lurida città.
Voglio privarli del potere che pensano ora di avere su ogni cittadino di Cartagine.
Voglio che si sentano sconfitti da una donna.»

Stringi le mani dei tuoi figli, poi scorgi, proprio all’uscita della grande porta, sotto di te, gli stendardi azzurri di Cartagine, e la scorta reale vestita di azzurro e con le bande tinte con la preziosa porpora di Tiro. Poi, tuo marito, in sella al suo possente purosangue nero, attorniato dalla folla di civili cartaginesi ancora vivi. Tuo marito si sta arrendendo a Roma, sta deponendo le armi davanti a colei contro la quale migliaia di suoi concittadini sono morti.


Sta vanificando gli immensi sacrifici di tutto un popolo.
Sta consegnando Cartagine alla distruzione.
Si sta sottomettendo.


Ormai gran parte della città è un immenso rogo, e dietro di te si levano lapilli incandescenti, e il muro di fiamme che avvolge il tempio si staglia ancor più netto contro il nero della notte. Ti sporgi dal parapetto, con i capelli al vento e la veste strappata, e sembri davvero l’incarnazione della dea della guerra. Coloro che si accalcano sotto le mura, desiderosi di raggiungere la salvezza, avvertono un tremito in fondo al cuore, perché tu sei l’unica, assieme ai tuoi figli, ad essere rimasta entro le mura, e in questo momento vedono in te lo spirito della città in fiamme, adirato e colmo di disperazione.

«Asdrubale! Possa l’ira degli dèi abbattersi su di te per la vergogna di cui ti stai coprendo. Possa il tuo spirito non trovare mai pace, e possa la tua anima essere straziata dagli artigli del rimorso. Possa la tua gola essere tagliata dalla lama di un sicario. Possa tu morire nelle sofferenze più atroci, privo di affetto, di amore e immerso nella solitudine eterna della vergogna.
Possano le donne disprezzarti, e gi uomini umiliarti; possano i tuoi figli ucciderti, e il fuoco divorare la tua carne. Possa il vento agitare il mare sul quale stai navigando, e la terra tremare e spezzarsi per inghiottirti ove tu cammini.
Possa il tuo corpo morto essere mangiato dagli avvoltoi, e possa il tuo cuore esserti strappato dal petto, perché hai tradito la tua patria. Possano le tue interiora essere date in pasto ai cani.

Ed io prego te, Publio Cornelio Scipione Emiliano, di inchiodare questo vile codardo a una croce, o di decapitarlo, oppure di lapidarlo, impiccarlo o farlo sbranare dalle bestie, affinché muoia nel modo che più gli si addice, senza la spada nella mano ed esposto alle ingiurie e agli sputi di coloro che giustamente lo disprezzano. Questo io ti prego di compiere, Scipione Emiliano, affinché tu non gli dia la possibilità di morire con la dignità che oggi, con le sue azioni vergognose, ha perduto.

Io ti maledico, Asdrubale Barca, in nome del fuoco e dell’acqua, in nome dell’aria e della terra, in nome di Baal Hammon****– perché egli decida per te un destino crudele e infame – in  nome di Melqart – perché tu non possa mai più trovare una  città che ti accolga e una patria che ti ami – in nome di Tanit – perché tutti i frutti del tuo seme muoiano prima ancora di vedere la luce, e tu non abbia mai discendenza; affinché la nobile stirpe dei tuoi padri si spezzi – in nome di Eshmun – affinché la tua morte sia preceduta da una lunga e dolorosa agonia, che consumi le tue carni e mangi il tuo cervello – e in nome di tutti gli dèi, perché vedano l’infamia della tua vergogna e ti disprezzino, e non ascoltino le tue preghiere, e ti abbandonino nei momenti di sofferenza e dolore come tu hai abbandonato la loro città prediletta.

Con queste parole io ti maledico, Asdrubale Barca, e prego gli dèi affinchè tu non possa mai dimenticarle. Non sfuggirai alla mia ira e all’ira degli dèi che io ho chiamato a testimoniare.»



Rimani in silenzio, fissando tutti coloro che sono sotto le mura, e che ti guardano attoniti. Negli occhi dei tuoi figli scorgi paura, e timore. Ma non ti importa.
Adesso nulla ha più importanza.
Con la veste stracciata e il rumore delle fiamme che tutto divorano, ti avvicini all’altare di Baal, dio supremo della tua città, che è nei pressi del tempio di Eshmun. Ti volti verso i tuoi figli, con le lacrime che rigano le tue guance ricoperte di fuliggine.


«Figli miei, perdonatemi. Precedetemi al fianco degli dèi.» Un tuono fragoroso si leva in lontananza, quasi il cielo si prepari a riversare il suo grigio velo di disperazione su questo mondo, in accordo con il grigio velo di disperazione che si appresta ad avvolgere Cartagine come un triste sudario.

«Madre… dobbiamo morire?» La voce sottile del tuo secondogenito ti frantuma il cuore in mille schegge, che si conficcano profondamente nel tuo petto. E una domanda insidiosa ti sorge nella mente.
Vale davvero la pena di morire per onore?
Tremi tutta, piena d’angoscia e disperazione, mentre l’indecisione ti lacera. Poi il tuo sguardo cade sullo stendardo sporco e scolorito adagiato a terra.
Ricamato sopra, il simbolo di Cartagine.
La Grande Regina sta morendo, ed è tuo destino tranciare il filo della tua vita assieme a lei. Il tempio di Eshmun è a pochi passi da te, ormai talmente divorato dalle fiamme da non esser più riconoscibile.


«Sì, figli miei, dobbiamo, affinchè gli uomini ci ricordino e gli dèi ci onorino.»

«Per questo, madre, sono pronto a morire.» È adesso il tuo primogenito a intervenire, con quella fierezza che non hai mai sentito nella voce di suo padre.

«Le tue parole, Amilcare, sono degne del più grande re e condottiero di Cartagine. Figlio mio, hai vissuto per giungere a questo momento, e hai vissuto affinchè questo momento ti desse la gloria eterna.»

«Uccidimi, madre, non permettere che l’onta della vergogna di mio padre oscuri la mia gloria. Non si dica che il figlio del traditore ha tentennato nel donare la propria vita a Cartagine.»

«Tali parole non verranno mai pronunciate.»

Spezzi la corda di capelli con cui hai legato il pugnale al braccio e ti inginocchi davanti all’altare di Baal. Il possente crepitio delle fiamme ti avvolge, e il calore, mischiato al fumo e alle lacrime, rende la tua vista incerta e nebulosa. Tutto attorno a te si levano altissime e luminose le fiamme rosse, e torrenti di fumo oscurano il cielo, grigia cornice di uno scenario ardente.

Tuo figlio si inginocchia, e tu affondi il pugnale nella sua gola, con una sicurezza nella mano che poche donne prima di te possono vantare di aver posseduto. Il suo sguardo si riempie di terrore, perché forse solo ora, negli ultimi istanti della sua vita, ha compreso il peso soverchiante della sua decisione.

Come Medea uccise i frutti del suo grembo, così tu squarci la gola di tuo figlio, per onorare la sua vita e la tua città, e versi il suo sangue sull’altare di Baal.


«Supremo dio, accetta le offerte che ti porgo, perdona le mie azioni» Tuo figlio ha un ultimo sussulto e poi la scintilla nei suoi occhi si spegne. Era bello, tuo figlio, con gli occhi scuri e i capelli ricci. Se fosse nato cento anni fa, sarebbe stato un potente condottiero, e forse avrebbe oscurato la gloria di Annibale, ma questo è il destino che Baal gli ha riservato.

«Asdrubale, figlio mio, raggiungi tuo fratello, precedi tua madre» Asdrubale figlio di Asdrubale non ha nemmeno otto estati, e già la sua vita si appresta a svanire. Seguirà suo fratello, ma quando la mano armata cala anche sulla sua gola, non è più ferma e decisa come prima.
Trema.
Trema perché il tuo cuore è sconvolto. Hai ucciso tuo figlio, ti sei macchiata del più orribile dei crimini. Quando la scintilla nei suoi occhi si spegne, ti abbandoni alla disperazione, piangendo lacrime sui loro corpi innocenti.


Dovevi fuggire. Dovevi abbandonare questa città, abbandonarla al suo destino, molto prima di giungere a compiere tali azioni, prima ancora che la bella Cartagine fosse chiusa in un assedio, e fuggire, e osservare i tuoi figli diventare giovani uomini, presenziare ai loro matrimoni, aiutare le tue nuore a far nascere i loro figli, e dovevi morire di vecchiaia, felice, con il cuore straziato dalla lontananza della tua patria, ma circondata da nipotini felici.

Ma saresti riuscita a vivere sapendo di aver abbandonato la terra che ti ha dato i natali?
La patria della tua anima e del tuo cuore, prima ancora che del tuo corpo?
Saresti riuscita a vivere con questo peso sul cuore?


Con le lacrime che ancora scendono abbondanti ti alzi, e lasci cadere le vesti a terra. Il tuo corpo candido è macchiato dalla polvere e dal sangue fresco dei tuoi figli.
Lo stesso petto che li ha nutriti è ora lordato del loro sangue innocente.
Avanzi, folle di dolore e di rabbia.

Il calore delle fiamme ti brucia la pelle, ma tu vuoi essere purificata da questo fuoco, e così, come l’antica regina di Cartagine, la donna conquistata dal possente eroe Troiano Enea, progenitore dei porci romani, ti uccidi, in un impeto di follia e disperazione, gettandoti proprio dentro le fiamme, e subito il tuo corpo s’incendia, e brucia, e le labbra si spalancano in un urlo vibrante di dolore e rabbia.


La Roma non ancora nata ha provocato la morte di Didone.
La Roma troppo adulta e troppo potente sta provocando la morte tua.


Un urlo altissimo si leva sopra le grida di vittoria dei soldati Romani, si leva sopra il fragore dei tuoni, sopra il possente crepitio delle fiamme che ora avvolgono tutta la città, e la cui diffusione è stata favorita dal vento furioso che da questa mattina soffia su Cartagine, e se prima c’era qualcuno a domare il malvagio fuoco, adesso esso è libero di operare la sua distruzione.

Le fiamme ti avvolgono, il dolore è insopportabile, ma ancora non sei soddisfatta.
Ti volti, e, facendo appello a tutta la tua residua forza di volontà, corri, corri con il corpo infuocato, e una terribile torcia umana dai contorni ormai irriconoscibili, quale tu sei diventata, si getta dal muro della cittadella, precipitando nel vuoto come il proiettile infuocato di una catapulta.

Tutti sono in silenzio, attoniti e stupiti: le grida dei Romani sono scomparse, mentre osservano il tuo destino compiersi e il tuo coraggio ombreggiare ogni valorosa azione da loro compiuta.
Anche i tuoi concittadini sono in silenzio, ma subito distolgono lo sguardo, perché una donna ha avuto più coraggio di loro, perché una donna, ne sono certi, ha sconfitto un intero esercito.
E nei cuori dei romani, sorprendentemente, sorge una latente ammirazione e un nascosto rispetto per quella donna coraggiosa, che ha preferito la morte alla prigionia.         



 

*****************
       

 

Sono passati molti anni da quel giorno, e di te, fiera moglie di un vile comandante, non è rimasto che un sottile e dimenticato strato di cenere, perché per giorni il tuo corpo morto continuò a bruciare, alimentato dalle fiamme che i Romani appiccarono a tutta Cartagine.

Le mura furono rase al suolo, le case bruciate, i templi abbattuti, il porto distrutto, i tesori condotti a Roma per essere orgogliosamente esposti nella capitale del mondo agli occhi bramosi dei suoi cittadini, ansiosi di ricordare sempre a se stessi le imprese gloriose dei loro antenati.

E i legionari, resi ubriachi dal dolce vino della vittoria, quando un fuoco si spegneva, lo riaccendevano, folli di felicità e di superbia, e distruggevano ogni cosa con una brutalità degna solo del più disumano animale. Erano folli, folli, e i comandanti non riuscivano a fermarli, perché forse nemmeno lo volevano: anche loro erano preda della follia.


Tutti i Romani, in ogni più remota cittadina del mondo, festeggiavano la rivalsa sulla potente regina d’Africa, la fine delle lunghe e tormentate ostilità con la possente antagonista di tutto un secolo, ma anche il definitivo e completo dominio sul Mediterraneo, meta agognata da molti anni.
Tutti i Romani erano folli di gioia, perché ancora una volta festeggiavano l’affermazione della civiltà Romana sopra tutte le altre, e la consapevolezza di essere i migliori e i più potenti dona un’euforia che sfiora la follia.



Il Fato che ti ha guidata nelle fiamme è stato misericordioso: ti ha risparmiato la vista dei guerrieri cartaginesi incatenati e condotti a Roma per sfilare, prigionieri, lungo le sue vie.

Ti ha risparmiato la vista delle fiere donne cartaginesi vendute come schiave al mercato di Roma.

Ha impedito agli invasori romani di dividerti dai tuoi figli, e ti ha impedito di vedere la completa distruzione di Cartagine, di vedere la sua notte, a te, che hai fatto in tempo ad osservare appena il suo crepuscolo.


Ti ha impedito di vedere la tua città divorata dalle fiamme, osservata, in un silenzio colmo di disperazione, dai tuoi vili concittadini, il cui cuore si frantumava alla vista della loro patria violata e incendiata dai barbari invasori.

Ti ha impedito di vedere la scura e fertile terra di Cartagine ridotta a una distesa bruciata dalle fiamme della vittoria, e ti ha impedito di vedere i legionari, sadici e crudeli, arare con arroganza l’odorosa terra cartaginese, e cospargerla di sale, non accontentandosi di aver distrutto il suo esercito e la bella città che ospitava, ma volendo affermare il proprio dominio sulla stessa natura, privando quei luoghi incantati della possibilità di ospitare nuova vita, perché nulla cresce su una terra coperta di sale.

I Romani non hanno solo distrutto, hanno annientato.

Ed è strano, perché i Romani inglobano tutte le culture su cui dominano, mentre questa, questa l’hanno cancellata dalla faccia della terra.

Perché i Romani odiavano Cartagine, e per troppi anni sono riecheggiate le lamentose parole “Carthago delenda est”.
 
 
 
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*Eshmun è il corrispondente punico del greco Asclepio e del romano Esculapio, quindi il dio punico della salute.


**Cartagine ha intrapreso tre guerre contro Roma, di cui la più famosa è la seconda, quella che vede come protagonisti Scipione Africano e Annibale, ma Cartagine la perse, e come “punizione”, dopo la battaglia di Zama del 202 a.C, Roma impose a Cartagine “danni di guerra” che ammontarono a milioni di sesterzi e allo smobilitamento del suo esercito: le lasciò soltanto dieci simboliche navi. Per una serie di motivi, Cartagine, esasperata, ricostruì il suo esercito e questo diede motivo a Roma di raggiungere il suolo africano e dare il via alla Terza Guerra Punica, conclusasi con la distruzione di Cartagine.


*** So che Roma non è ancora considerata, nel 146 a.C. un impero ma ancora una Repubblica, tuttavia, l’espressione è usata in senso metaforico: loro hanno moltissime risorse, noi molto poche, loro possono reperire soldati non solo dall’Italia, ma anche dalla Spagna, dalla Sardegna, dalla Sicilia e dalla Corsica.


****Allora, Baal Hammon è il dio supremo, il Giove dei Romani, Melqart è il dio della città, e quindi ho ipotizzato potesse essere anche il dio della patria in generale; Tanit è la dea della natura e della fecondità, una via di mezzo tra Diana e Venere; Eshmun è il dio della salute, ovvero Esculapio. 

 

   
 
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