Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Maya98    23/07/2013    6 recensioni
"Quanto dura davvero una vita?"
John e Sherlock sono chiusi in una stanza, senza uscita, con un timer e una bomba da disinnescare. Non sanno dove questa si trova, e nemmeno come uscire, d'altronde.
Ce la faranno a salvarsi ancora una volta? Può l'intelletto vincere contro la catastrofe, ogni volta? O un'ora è tutto quel che resta loro per dirsi ciò che hanno sempre taciuto?
[shameless angst altalenante tra bromance e slash]
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

00:00

Quanto dura davvero una vita?

 






Credi sempre di avere tutto il tempo del mondo,
quando l'eternità si congela in un istante;
dove un respiro può durare un secolo,
e un'era essere chiusa in un pugno.
Stringi forte, ti dici, stringi forte 
che il tempo passa. E infatti
Passa. Troppo in fretta.
Scivola via, in poco.
In un'ora sola.

Credi sempre di avere tutto il tempo del mondo, già,
quando la vita ti sembra così lunga da star male;
quando potresti buttarti giù da un palazzo ora,
solo per la momentanea voglia di volare,
E poi scopri un'ora, che un'ora soltanto
ha in mano la tua vita e stringe più
forte di quanto tu abbia mai fatto.
Il tempo passa, scivola via.
Troppo, troppo veloce.
In un'ora sola.

L'amore di una vita che
scivola via con la marea.
E vorresti chiedere di non
essere lasciato quando
il tuo angelo piange sul
tuo petto. Ma non trovi il 
coraggio di morire quando
il tuo eroe si arrende prima


01:07:56

Il dolce sapore della notte, sì, quante volte l'ha assaporato? Quante volte in una vita, tra tutte le notti della sua vita, si è fermato a baciare le zuccherate labbra della notte per assaggiarne la loro consistenza, effimera e temporanea? Mero il calcolo, mera la stima. Quante notti di una vita si è fermato a guardare le stelle? Quante volte si è perso negli infiniti spazi dell'interstizio, quando vorresti annullare la distanza con una stretta di mano e camminare al fianco di qualcuno può sembrare la salvezza ad un pozzo senza fondo?
Quante notti, John Watson, quante notti? Quante notti si è privato del piacere di lasciarsi andare alla vita quando la vita ha allentato di poco la sua presa su di lui? Quante volte l'ha data vinta all'oscurità, lasciandosi vivere passivo da fumo ed idee? Quanto lo ha reso persona, John, quanto ha cambiato il sottile filo della tua vita? Sono state poche notti, John, troppe poche notti. Sono state troppe poche le notti dove ha cessato di vivere per fermarsi un attimo ad esistere. La certezza di avere il tempo, sì, tutto il tempo del mondo: l'illusione che gli è rimasta frammentata tra le mani. La certezza di una lacrima di pioggia che è scesa e si è spenta su una fiamma dorata di calore. La certezza che un orologio non può riportare in vita un compagno che non sei riuscito a salvare, sì, la verità che non basta un momento per trascinare i ricordi in un pozzo senza fondo. Ed esiste tutto quello, dio, sì, è quella l'illusione. L'illusione che una vita è fatta d'aria e tempo, mentre le speranze e i sogni infranti in un cassetto chiuso a chiave rimangono a prendere polvere. E quanto vuole, dopo, uno, riprendersi quella vita, perché quella era una vita di tempo. Ora cosa si ha, davvero? Ora che senso ha il resto?

La stanza è illuminata da delle ronzanti e dannatamente chiare luci al neon, che brillano da un soffitto troppo alto per arrivarci in qualsiasi modo possibile, con il bagliore che riflette sulle pareti di un bianco così accecante che gli occhi bruciano al solo immaginare. I muri, intonsi; il pavimento, intatto; l'aria, immobile. Tutto immobile, tutto che tace, l'improvvisa consapevolezza del niente assoluto.

Un mal di testa allucinante, per un momento, gli occhi che bruciano di lacrime inespresse per la troppa luce. È possibile che venga da luce artificiale, tutta quella luce? Non esiste uno straccio di finestra, da qualche parte? Probabilmente immaginare è meglio che provare, quando sulla tua pelle non esiste altro che un candore quasi elettrico, l'odore di candeggina così forte che quasi copre anche il cloroformio. Un momento. Cloroformio.

Sherlock ha già raggiunto le sue conclusioni, probabilmente, a discapito del mal di testa che gli sta fracassando le tempie come sintomi di una bella botta. È così che li hanno storditi? John una mazzata e Sherlock cloroformio? Ma chi e cosa, per cosa, dove e quando? Girano, girano in tondo nella sua testa, abbarbicandosi uno sull'altro nel tentativo di conquistare una vetta mentale che probabilmente non esiste. Sciò, andate da Sherlock. È lui quello giusto per questo, sì, sciò, sciò.

Eppure, ecco che continuano a ronzare con insistenza. Chi, cosa, perché, dove e quando. Uno sciame di api impazzite. Sì, ecco. Chi. Cosa. Perché. Dove. Quando. Uno sciame di api impazzite che lo sta pungendo in ogni centimetro di pelle scoperto della sua testa, sì, perché deve essere così. Una giustificazione per quel dolore atroce ci sarà. Chi cosa perché dove quando. O almeno lo spera.

Chicosaperchédovequando.

-John?-chiede la voce di Sherlock, impastata, in qualche punto imprecisato accanto a lui. Aprire gli occhi in questo momento, per rendersene conto, è troppo doloroso.

-Sherlock.-risponde solo, con voce talmente bassa da scavare una fossa nel terreno. Il fiato è mozzo e la luce è ancora troppa. La cecità lo sfiora in una gelida carezza.

Sherlock si guarda intorno, sbattendo le palpebre un paio di volte per riuscire a non rimanere abbacinato da tutto quel candore. Non è la luce diretta il problema, ma quella riflessa dai muri bianchi come se fossero stati appena verniciati: l'effetto amplificato diventa disorientante, e lui necessita l'oscurità per pensare lucidamente in quel momento.

-Sembra che McDuff ci abbia anticipato.

-Già.

Stavano inseguendo un omicida seriale. Otto vittime fino ad ora — forse di più, collegamento da accertare. Tutti i corpi delle vittime aperti in due e imbottiti di esplosivo per nascondere ogni traccia: il caso è stato un otto pieno, fino a quel momento. La scia da seguire è stata quella della marca dell'esplosivo, e uno spacciatore di fiducia che finalmente, dopo tre giorni spesi a vuoto, ha rivelato il nome: McDuff. Psicotico con tendenze masochistiche traumatizzato dalla morte della moglie avvenuta in un attacco terroristico a Central Park, anni prima. Particolarmente furbo, a quanto pare.

-Dove siamo, Sherlock?-chiede John, appoggiandosi al muro con la mano per riuscire ad alzarsi in piedi. Si guarda intorno, cercando di individuare qualcosa, ma quelle quattro mura sono intonse, immacolate, pure. E decisamente solide, non c'è che dire. Il pavimento non ha una fessura: ricoperto di calce in ogni angolo ad impedire forse un nascondiglio. Il soffitto, regolare: non una crepa.

Sono stati chiusi dentro un cubo fatto di cemento? Da dove sono entrati?

Non c'è nemmeno una porta.

Sherlock è già in piedi, tastando il muro con le mani, i sensi all'erta. Fa scorrere le dita sulla consistenza liscia dei muri, senza una screpolatura, senza un graffio. Irreale, quasi: la precisione portata all'estremo per essere enfatizzata. Tutto in quella stanza sembra irreale: come in un sogno.

-Sherlock, guarda qui.

Sherlock segue la voce di John come guida, chiudendo per un secondo gli occhi. La voce di John è ormai guida eterna per i suoi sensi in costante allerta, e lui ne viene attratto come una falena viene intrappolata dalla luce di una lampada brillante. In mezzo a tutti quei rumori colti, tra i quali deve saper individuare immediatamente quelli che possono rappresentare un pericolo, la voce di John è quella che lo richiama indietro, lo porta a casa, lo riempie di fiducia e di consapevolezza.

Consapevolezza di poter contare su qualcun altro.

Quindi, Sherlock segue la voce di John finché non sa di esserselo trovato davanti. Allora apre gli occhi, mettendo a fuoco la sua intera figura, chinata ad analizzare qualcosa sulla parete sinistra di quell'inquietante stanza nella quale si trovano al momento. Si inginocchia anche lui, sulle punte, senza appoggiare i talloni a terra, e si sporge in avanti.

È un rettangolo di metallo dotato di uno schermo digitale. Nulla di particolare, nulla di pacchiano: semplice all'estremo. Esasperazione della perfezione: non una vite, a fissarlo al muro, nessun tipo di colla. Probabilmente fa parte della parete stessa. Il rettangolo di metallo che fa da cornice allo schermo è quanto più di irrilevante ci sia. Sul quadrante, dei numeri in rosso che lampeggiano nello scorrere dei secondi. Veloce, sempre costantemente.

 

01:00:00

 

E l'attimo dopo già

 

59:59

 

-No.-dice John, passando un dito sulla superficie liscia, per accertarsi che in nessun modo possa essere bloccata o fermata in qualche modo. Porta le mani anche ai bordi, scorrendo con le dita lungo le linee tracciate, facendo pressione sulle barre stesse e poi sul muro, nel tentativo di staccarlo in qualche modo:-Dio mio, Sherlock, dimmi che non è ciò che penso.

-È il timer di una bomba.-commenta l'altro, senza alcuna inflessione di nessun tipo nel tono di voce.

 

Il dolce sapore della notte, sì, quante volte l'ha assaporato? Quante volte in una vita, tra tutte le notti della sua vita, si è fermato a baciare le zuccherate labbra della notte per assaggiarne la loro consistenza, effimera e temporanea? Mero il calcolo, mera la stima. Quante notti di una vita si è fermato a guardare le stelle? Quante volte si è perso negli infiniti spazi dell'interstizio, quando vorresti annullare la distanza con una stretta di mano e camminare al fianco di qualcuno può sembrare la salvezza ad un pozzo senza fondo?
Quante notti, John Watson, quante notti? Quante notti sprecate a non godersi la propria esistenza, quante notti ignorate nel placido vivere quando avrebbe potuto godersele nella certezza di avere una vita sconfinata davanti a sé, piena di attimi, secondi, ore, giorni, anni, decadi. Il tempo è effimero, una mera illusione, e l'essere mortale crede di trascendere allo scorrere di ogni minuto, crede che posticipare il pensiero della morte servirà solo ad allontanarla. Ma davvero, John Watson, come avrebbe centellinato il tempo se avesse saputo di essere destinato ad avere una sola ora di vita?

-Un'ora.-dice, a denti stretti:-Una sola maledetta ora. Dobbiamo uscire di qui.

-Improbabile.-commenta Sherlock, congiungendo le mani in una muta preghiera al suo cervello, in un appello necessario alla sua ragione, al suo intelletto, per far sì che possano fuggire di nuovo, insieme, anche da quella spiacevole situazione:-L'alternativa più semplice è trovare la bomba e disinnescarla.

-Sarà nelle pareti.-dice John, abbattuto, facendo scorrere lo sguardo tutto intorno a loro. Il pensiero è sconfortante, visto che sembrano essere state fatte in un'unica battuta, senza mattonelle, senza interstizi, senza fessure dal quale ricavare qualcosa. Se la bomba è nelle pareti, nel soffitto, nel pavimento, loro non hanno via d'uscita. Ma se la bomba non fosse effettivamente nei luoghi precedentemente elencati, sarebbe nella stanza, e nella stanza non c'è.

Ragionamento per esclusione porta da sé le conclusioni.

Sherlock si accuccia, senza darsi per vinto, appoggiando l'orecchio sulla fredda calce che ricopre il pavimento, ascoltando. John cessa anche di respirare, per qualche secondo, per permettergli così di poter udire qualsiasi cosa sia effettivamente udibile. Lui, di per sé, si sente ancora un po' confuso e instabile per separare la percezione onirica da quella reale. Di fatti, Sherlock gli appare molto più vicino di quanto è in realtà, come se ci fossero due piani di vita sul quale lui sta esistendo. Si dice di smettere di fare filosofia, mentre Sherlock fa un sorrisetto nervoso, per procedere in avanti, a tastare la giuntura tra il pavimento e le pareti. Fa scorrere le mani, tastando, provando. John capisce cosa sta facendo e lo aiuta.

Ci impiegano diverso tempo per setacciare l'intera stanza, nonostante questa sia davvero piccola. Forse impiegano questi trenta minuti per controllarla diverse volte, senza arrendersi all'evidenza, cercando ogni minimo particolare che può sfuggire loro una volta, ma non due, accertandosi di aver davvero percorso ogni centimetro, palmo a palmo, l'intera struttura. Il soffitto non è particolarmente alto, e Sherlock con le mani riesce a raggiungerlo, per accertarsi che nemmeno lì ci sia nessuna particolare fessura che possa fornire o il nascondiglio per la bomba, o una botola di qualche tipo per concedere loro una via di uscita. Dopo aver tentato per l'ultima volta, però, è il caso di arrendersi davvero. Si fermano, ansimanti, quasi incapaci di realizzare. Per quella volta, Dio non è stato misericordioso con loro. Per una volta, a quanto pare, la via d'uscita a quella situazione che appare senza speranza non c'è sul serio. Rimane solo l'atto in sé: accettarlo. E poi, bé, morire.

John si appoggia ad una parete, mentre recupera fiato, con il respiro affannoso. Sente il cuore battergli forte e frenetico, nella cassa toracica, nervoso come non mai. È così chiaro che riesce a percepire il sangue che pulsa lungo la gola, e poi sulla tempia, là dove c'è la giugulare. Il suo polso sembra oscillare addirittura, quando se lo prende tra le dita per accertarsi del ritmo accelerato. Fa un paio di respiri profondi per calmarsi, senza riuscirci. Chiude gli occhi, allora, mettendosi le mani in volto per coprire qualsiasi luce possa filtrare attraverso le palpebre ferrate.

Sta per morire. Questa volta sul serio.

Dopo aver recuperato un minimo di fiato, tenta di aprire gli occhi e li scopre velati di lacrime. Si passa velocemente la mano sopra per cancellarle, nasconderle, anche se probabilmente Sherlock le ha già notate. Non gli piace mostrarsi debole, no, neanche agli occhi del suo migliore amico. Quando finalmente si sente pronto, alza lo sguardo verso il detective per vedere la sua reazione.

Sherlock si siede, con lentezza, tranquillo, abbandonando la schiena contro il muro. Tutto nel suo corpo appare immobile, e di nuovo John non sa se è la realtà che gli dà quella percezione fisica o la continuazione dell'onirico dovuta ancora un po' alla confusione di avere preso una forte botta in testa. Non c'è nulla che si muove, nell'uomo: né un muscolo, né le ciglia, anche il sangue sembra essersi fermato nel suo corpo. John guarda il petto per accertarsi che respiri: ma questo non si alza né si abbassa. Sta trattenendo l'aria nei polmoni, perché? Che reazione sta tentando di controllare?

Senza sapere che cosa fare, John si siede di fianco a lui, senza il coraggio di guardarlo negli occhi.

-Allora,-dice, e sente improvvisamente la gola farsi secca come non mai. La voce gli è scesa di un ottava, ed ora è roca, come se facesse fatica a parlare. Riflette su quanto l'idea di un'imminente morte cambi il suo aspetto fisico al pari passo di quello psicologico:-Questa volta sul serio. Questa volta moriremo davvero.

Sherlock tiene lo sguardo fisso davanti a sé, immobile come una statua. John non ha idea di quanto tempo possa trattenere il respiro, ma sicuramente non vuole che vada in un soffocamento auto-indotto per via di qualche ragione. Quindi aspetta ancora a parlare, aspetta vedere le labbra di Sherlock schiudersi per appropriarsi di un po' d'aria, per graziare i polmoni ormai senza probabilmente più fiato.

-Oddio.-dice, e per un momento gli viene da ridere:-Anche l'ultima volta stavamo per saltare in aria. Nella piscina, intendo. Evidentemente è la fine che più ci si addice.

Si sente abbastanza stupido a sdrammatizzare su questo, ma almeno Sherlock lo sta guardando, ora. John fa fatica a reggere il suo sguardo sempre penetrante, come ogni volte, così verde, così blu, o grigio...il colore dipende quasi sempre dall'umore in cui si trova. Ora le sue iridi sono così verdi che farebbero invidia a degli smeraldi lavorati: chiare, potenti, quasi eterne.

-Mi dispiace, John.-dice poi Sherlock, con voce incerta.

Bé, poteva dire di essersele aspettate tutte, tranne che quella.

-Cosa vuol dire che ti dispiace?-chiede, sporgendosi verso di lui:-Che abbiamo solo un'ora di vita? Bé, dispiace anche a me. Sai quante cose avrei voluto fare ancora. Imparare a suonare lo xilofono, forse. O fare il cubo di Rubik.

Sherlock non ride, troppo preso da chissà quali pensieri. Lo guarda fisso, immobile, esattamente come prima stava guardando il muro: la stessa percezione solo vista di fronte e non di profilo. Un ricciolo nero ribelle gli scende lungo la fronte, fuori posto, le labbra rosa sporte in avanti e le sopracciglia corrugate. Sembra voglia parlare ancora:-Mi dispiace di averti trascinato qui.

-Trascinato?-esclama John, soffocando l'incredulità a stento:-Sherlock, è da quattro anni che viviamo insieme. Ti ho seguito nel caso il giorno dopo averti conosciuto. Fatti un po' tu i tuoi conti; tu ora mi vieni a dire di avermi trascinato...? qui, verso la morte, in tua compagnia?

Sherlock non risponde, limitandosi solo a sbattere le palpebre nel suo continuo fissare. È abbastanza inquietante, all'inizio, ma poi ci fai l'abitudine. Sherlock non ha concezione dell'idea di "spazio personale", o "pudore", o "convenzioni pubbliche". Quindi per lui invadere il suo spazio è una cosa normale, in ogni modo e in ogni senso: e probabilmente non si accorge che guardare fisso una persona con un’espressione di quel tipo può essere considerato inquietante.

-Sherlock, ascolta.-continua poi John, decidendo di essere serio una volta tanto. Forse l'ultima volta, ormai, visto che gli restano qualcosa come venti minuti di vita:-Qualsiasi cosa tu avessi detto, io ti avrei seguito comunque. In qualunque modo tu avessi tentato di impedirmelo, non ci saresti riuscito: conosco la mia testardaggine.-aggiunge, quando vede che Sherlock alza le sopracciglia con fare scettico:-Io ti avrei seguito comunque. In ogni modo, come sempre. Io ti seguirei ovunque tuttora.

Sherlock lo guarda con sguardo assente, e John sospira: non ha capito.

-Ovunque.-ribadisce, calcando la parola:-In qualsiasi momento.

Sherlock torna ad appoggiare la nuca riccioluta alla parete, con un sospiro. John sa che oramai non rimane loro molto tempo, e sente un crampo allo stomaco. Probabilmente, quella è l'ultima volta che lo vedrà così. L'ultima volta che vedrà Sherlock. Si augura con tutto sé stesso che esista un aldilà in cui poterlo trovare di nuovo. Non vuole stare lontano da lui. Non vuole proprio.

Il rimpianto lo sente sottopelle, in una sensazione prepotentemente fastidiosa. Buttando un occhio sul timer che segna i loro ultimi secondi. Di quelli che si stanno consumando lentamente.

 

21:48

 

-Ebbene,-dice, a voce alta, forse per essere certo che Sherlock lo ascolti una volta tanto:-Ed eccoci qui, Sherlock Holmes e John Watson. Che stanno per morire davvero, questa volta, e gli è stata concessa l'opportunità di saperlo anche in anticipo.-fa una pausa, sentendosi patetico, con il fiato mozzo:-Giusto per garantirgli la possibilità di arrovellarsi gli ultimi minuti sulle cose da dire o da non dire. Giusto per far stare male il fedele blogger nel chiedersi se rischiare di rovinare i suoi ultimi venti minuti oppure stare zitto e perdersi l'ultima occasione. Viva la festività dei rimpianti!-esclama, alzando le braccia e brindando con un ipotetico spumante.

Sherlock alza lo sguardo su di lui, allarmato:-No, John.-dice, e nella sua voce c'è giusto un'ombra — velata, molto velata — di panico:-Non dirlo.

-E visto che è l'ultima occasione,-continua il soldato, imperterrito, senza ascoltare nemmeno una parola di ciò che Sherlock sta dicendo perché per una volta vuole davvero arrivare alla fine del discorso. Per la prima e ultima volta da quando ha conosciuto Sherlock Holmes, certo:-e la mia vita è già andata cordialmente a donne dai facili costumi, tanto vale rischiarsi il tutto e per tutto! Ciò che ho da perdere sono semplicemente gli ultimi minuti dell'amicizia più importante della mia vita.

-John, sta' zitto.-lo redarguisce Sherlock, con gli occhi spalancati:-Non dirlo, diamine, il rimpianto di entrambi schizzerà alle stelle se tu lo...

-Perché per tutti questi anni,-alza la voce John, per sovrastarlo, deciso a non farsi vincere una volta perché ha l'assoluto bisogno di dirlo, qui, ora. Se non lo dirà entro i prossimi secondi probabilmente passerà tutta la sua morte pentendosene e affogando in qualcosa che non ha mai saputo definire correttamente. Oh bé, certo: sempre che sia ancora cosciente dopo la sua morte, ovvio:-non l'ho mai detto per poter evitare la rovina. Ci tenevo troppo, semplicemente, per rischiare così tanto. Così alla fine mi ritrovo a venti minuti dalla mia morte, a dire al mio migliore amico che sono innamorato di lui da una vita. Da anni, certo...forse dal primo momento in cui ci siamo conosciuti.

-John ti avevo detto di non dirlo!-esclama Sherlock, appoggiando con violenza le mani sul pavimento, sbilanciandosi verso di lui. Sembra arrabbiato: con gli occhi socchiusi e scintillanti, e gli scatti improvvisamente pronti e nervosi, come se fosse pronto a correre dietro a qualcuno:-Ora passeremo gli ultimi venti minuti della nostra vita, come continui a ribadire, nel rimpianto totale di non averlo detto prima, Dio mio!

John guarda Sherlock, sentendo un crampo allo stomaco. L'ha sentito. L'ha sentito sul serio.

Capisce esattamente di cosa sta parlando. Con la sua paura di rovinare un'amicizia, non ha mai detto nulla fino a sapere che sarebbe stato troppo tardi per entrambi. E lo vede, così, Sherlock: sporto verso di lui, con un'espressione che non esiterebbe a definire angosciata, se solo non fosse Sherlock Holmes quello che ha davanti. Il rimpianto arriva veloce quanto la luce, esattamente nel momento in cui realizza. Se l'avesse detto prima. Se solo l'avesse detto prima.

Quanto avrebbero avuto? Mesi, sicuramente. Anni, forse. Anni da passare, anni da affrontare insieme. Tempo davanti a loro, tanto tempo, non quindici miserabili minuti scanditi da un timer collegato ad una bomba. Oh dio.

Si guardano, mentre le mani, come mosse per ragion loro, si cercano quasi immediatamente. Sono dita che si allacciano, le une sulle altre, dita che si intrecciano. Entrambi rimangono a guardare la presa salda delle loro mani, una bianca, pallida e sinuosa, l'altra più tozza, più scura, più forte. Sono due mondi in netto contrasto che trovano un punto di unione, un punto di accordo. Sembra quasi che dimentichino il tempo che passa, per qualche minuto. Così, soltanto rimanendo a guardare quel gesto spontaneo che sarebbe dovuto nascere anni prima, che gli avrebbe garantito un futuro, che gli avrebbe dato la possibilità di essere completamente felici, almeno, solo per un po'.

-Dio.-dice John, dopo quelli che sembrano secoli e in realtà sono semplicemente una manciata di minuti:-Dio mio, Sherlock, vieni qui.

Lo abbraccia: si aggrappa a lui come se fosse la sua ancora di salvezza. Sherlock lo circonda con le sue lunghe braccia, incerto, come se non fosse esattamente a suo agio su dove mettere le mani: ma a John non importa. Pensa che sia proprio questa titubanza a rendere tutto così meraviglioso. Si sente felice, per una volta, completo. C'è giusto una punta di tristezza che gli suggerisce che probabilmente è l'ultima volta in cui gli sarà concesso sentirsi in questo modo, perché non ha mai osato sfidare il rischio che gli avrebbe garantito tutto. Stringe forte Sherlock a sé, affondando il collo nel suo naso, per respirare forte il suo odore, percorrendogli i capelli con le dita. Vuole avere tutto ciò che non ha mai avuto in una vita, lo vuole ora negli ultimi dieci minuti.

-Saremmo stati una maledetta coppia.-borbotta, con gli occhi chiusi. Sente distintamente Sherlock sorridere sulla sua spalla.

-Lo siamo sempre stati.

John respira dal naso. Sente il suo cuore battere forte contro la cassa toracica, e probabilmente lo sente anche Sherlock. Sa che è agitato. Sa che ha paura.

-Se mai ti avessi chiamato "tesoro", cosa avresti risposto?-chiede allora, proseguendo sulla linea dello sdrammatizzare.

-Detesto i vezzeggiativi che si danno gli innamorati.

-Non mi avresti chiamato "mio conduttore di luce"?

-Sarebbe stato inquietante.

-Sono contento di non essere il solo a pensarlo.

Ridono. Ridono come due bambini, ridono come non hanno mai fatto, ridono come se non fossero chiusi in una stanza con una maledetta bomba che deve esplodere da un momento all'altro. Ridono come se fossero soli nel loro familiare salotto di Baker Street, aspettando un té dalla signora Hudson, che non vedranno mai più, lamentandosi dei messaggi di Mycroft, attendendo una chiamata di Lestrade per un caso oppure una di Molly per qualche corpo recuperato all'obitorio. Ridono per non avere paura, ridono per sentirsi più vicini, ridono perché sanno di non avere più futuro anche quando lo hanno appena trovato. Sherlock finalmente stringe un po' di più John nell'abbraccio.

John, oltre la spalla di Sherlock, sbircia nuovamente il timer. 

 

01:18

 

Si stacca malvolentieri dall'abbraccio, per guardare Sherlock in volto. Passa una mano sulla sua guancia, in una carezza che non vuole essere lacrimevole, ma lo è, accidenti, lo è. Gli viene l'incredibile voglia di piangere quando realizza che sta per perderlo dopo averlo appena trovato. Tuttavia non si fa vincere dalle lacrime, perché vuole vederlo fino all'ultimo. Lo sa, e lo dice pure:-Il tuo viso è l'ultima cosa che voglio vedere.

-Per me è lo stesso, John.-ribatte Sherlock, senza smettere di scrutarlo. Il medico riesce a percorrere tutto, con i suoi occhi: dalla linea delle labbra, gli zigomi, il naso. Le sopracciglia, gli occhi, i riccioli scompigliati. John si bea della sua figura, consapevole che è l'ultima volta in cui potrà vederlo, in cui avrà l'occasione di ammirarlo. Il viso che ama, dell'uomo che ama, di cui ama tutto, ogni singolo pregio quanto ogni più grande difetto che lo fa arrabbiare, lo ama in modo definitivo, devastante, folle, sincero e oltre ogni umana concezione. Morirebbe per lui, darebbe la sua vita; ucciderebbe per lui, lo ha già fatto. Morirebbe con lui, anche, ed è esattamente ciò che sta accadendo ora.

 

Sì, ma se stessi morendo...

Se ti stessero uccidendo, nei tuoi ultimi secondi cosa diresti?

 

-Addio, Sherlock.-mormora di nuovo, passando un'altra mano sul viso dell'altro, accarezzandolo di nuovo. Vorrebbe sorridere, davvero, ma non ce la fa. Non ci riesce proprio. Non vuole dare la versione di sé disperato, come ultima immagine negli occhi di Sherlock. Ma non riesce a fingere davanti a colui che vede e osserva tutto. Come potrebbe? Si limita a stringergli la mano un po' più forte. Insieme. Accadrà comunque, ma insieme, come hanno sempre fatto. Non uno senza l'altro, ma entrambi, sulla stessa riga. Procedendo allo stesso passo.

-John.-dice semplicemente Sherlock, senza scollare gli occhi dai suoi. John, solo John, cosa altro dovrebbe aggiungere? Lì c’è tutto. Col suo nome ha detto davvero tutto.

Ormai è questione di secondi.

 

00:05

 

John si morde le labbra con forza, fino a farle sanguinare, quasi, nel tentativo di non piangere. Sbattere le palpebre diventa sempre più difficile, ma se lasciasse che le lacrime gli appannassero la vista, non riuscirebbe davvero a vedere Sherlock nei suoi ultimi momenti.

 

00:04

 

Il respiro si fa affannato, più veloce, nella paura di ciò che sta succedendo, nella paura di non poterlo fermare. Anche Sherlock inizia a respirare un po' più veloce, e John si sente meno solo sapendo che non è l'unico a non sapere cosa c'è dopo. Cosa gli riserverà la morte.

 

00:03

 

Si stringono le mani, insieme, come per fondere uno nell'altro. I loro occhi non si lasciano mai.

 

00:02

 

I loro cuori acquistano un ritmo acceleratissimo, ma battono all'unisono.

 

00:01

 

C'è la loro vita. C'è la loro vita in quel secondo, la loro vita che è durata quasi quarant’anni ma non sul serio, perché in realtà è durata un'ora, una misera ora in cui sono riusciti ad essere completamente sinceri con loro stessi, senza muri, senza barricate, senza concezioni o classificazioni, senza doversi collocare in una casella, senza più avere paura dell'altro, o senza più limitarsi ad immaginare qualcosa che è sempre stato reale senza che loro se ne siano mai accorti. In quel secondo ci sono i sorrisi, le tazze di té, i casi, le loro corse per Londra, le litigate, le scuse, le discussioni, i pomeriggi passati all'obitorio, o al laboratorio, i post del blog sulle loro ultime avventure, le deduzioni, le emozioni, la fiducia, la certezza, la completa devozione per l'altro. In quel secondo ci sono loro due, e per questo pare durare una vita. 

 

00:00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolino della Skizzata:

Andiamoci tutti ad ammazzarci con una pugnalata in petto, va? Chi mi segue?

Io non so perché scrivo queste cose. So solo che mi piace troppo farlo.

Il titolo è nato così, perché non mi andava di scrivere BOUM! alla fine per lo scoppio della bomba. Sarebbe stato demenziale. Invece così si capisce comunque. Recensioni gradite, anche critiche costruttive

  
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Maya98