Dilagami.

Rincantucciami nel frutto del cespo.

Nichilita sulla sabbia
sto. A giacere,
frale come insulserie
e luccicante come oro smorto. Lecco i guai del crudo via dagli attimi.
Accovacciata sul grido sdruccioloso delle nocche.
Debellami e fammi raggrinzire come una fronte crucciata,
lascia che sia intrepidamente trasformata in bruma
[che t’appanni il cuore, fino a farti innamorare di un viticcio d’etere].

Cadrà.

Vedrà.

Batterà verso l’ora del vespro,

questa mia rabbia,
cocchiere
di lazzi ed angherie.
E il mondo soffrirà lucidi sintomi di brace. Fendimi!
Scucisci in fretta questo mio essere dalle vene sciocche!
Una nuvola farfuglia, avvelenata
da sopra il mare. Voglio tramare schiuma
di fuliggine, piangere sciabole di un frugale crescere.

Ti sgretolerai.

Ti conserverò dentro ai vespai

di un cielo che increspo

apposta per te. Abbia
infinite, per noi, scogliere
[come promesso] Morfeo, che ci ferì e
ora, per scusarsi, vuol darci alloggio. Nostri gli èremi
salati, nostro l’acciaio della luna, nostre le bocche
d’inchiostro dei demòni! Sarà sdolcinata
vita di vento, di spine ridacchianti, vita che si consuma
e mai paventa di fondere con la fine, giacere, esistere.

Deliberatamente affiancami, ferisci l’occhio dell’Ade,
<< Amore, ho fame, è sera, quasi piove >>
deraglia sulla strada del ritorno e
lasciami incatenata per un capello
a fissare il letto..
<< Amore, addio >> A inchiodare il pianto sulle costole.
[Ringrazia l’infettività del nome,
rimarrò io, sfiatata, dormendo in greti di lisciva e coccole.]