Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Stavolta iniziali per non creare
spiacevoli sorprese, eew. possibili
spoiler(?) e chiarimenti.
Ciò che state per leggere è una
rivisitazione assolutamente personale di un frammento del passato di Magnus. Ci
ho sempre rimuginato su e alla fine mi sono decisa a scriverlo, tuttavia il
testo non è del tutto infondato: la madre di Magnus si è realmente impiccata
nel fienile dopo che ha capito che cosa fosse Magnus in realtà. Abitava in una
fattoria con il figlio e il patrigno del nostro bel stregone, che
successivamente ha tentato di affogare quest’ultimo, e Magnus ha dato fuoco al vecchio
idiota uomo con il pensiero; successivamente è stato cresciuto dagli uomini
di chiesa e poi affidato ai Fratelli Silenti che gli hanno cambiato nome in Magnus Bane.
Tutto questo risale a
circa 1640 (1648, dato che ho voluto fare Magnus abbastanza “grande”,
considerando che conserva un pezzo della corda del fienile e rammenta il tutto
– anche questo detto o fatto intendere dalla Cassie) a Batavia,
ora detta Giacarta.
Dato che Magnus non ha
mai avuto nessuno che lo addestrasse al “Mondo Invisibile” (mica sono tutti
fortunati come Clary(?)…), ho giocato un po’
anche sull’ingenuità di un bambino che sa di essere diverso e che vede cose un
po’ anormali, sperando di non aver fatto casino; per marcare questo tratto
dell’ingenuità, ho cercato di fare uno stile di scrittura un po’ infantile, con
ripetizioni e cose del genere, spero non sia venuto noioso o fuori luogo~
Il titolo è quasi a
caso(?), ma aveva qualcosa di poetico e ho sempre immaginato Magnus molto
legato alla madre, quindi mi sembra appropriato che la sua morte sia un ricordo
molto vicino al cuore.
Che ci volete fare, lo amo.
RE-CORDIS, ripassare dalle parti del cuore.
| RICORDARE: dal latino re-cordis, ripassare dalle parti
del cuore. – cit. Eduardo Galeano |
||
CAPITOLO UNICO ▪ perché lui
era un mostro con gli occhi da gatto. ―
L’acqua delle risaie
risplendevano sotto le prime luci del giorno, sua madre stava dando da mangiare
alle galline mentre l’uomo che abitava con loro e che voleva bene a sua madre
preparava il bue per arare. Li aveva visti pregare mentre facevano colazione,
mano nella mano. Sapeva che cosa stavano dicendo e per chi pregavano, lo
facevano per lui.
Eppure, Lui non sapeva che cosa faceva di male.
Scosse la testa stringendosi le ginocchia al petto e chinandosi ancora verso
l’acqua, attento a non cadere con il sedere sulla fanghiglia, non voleva
sporcarsi i pantaloni di tela migliori che aveva. Guardava l’acqua muoversi
appena ondeggiando sotto i raggi del sole e sapeva che se alzava lo sguardo
verso il cielo le sue pupille si sarebbero strette fino a diventare un filo
nero in mezzo a due grandi palle verde-oro. Non andava molto in giro perché
spesso lo prendevano in giro o gli dicevano cose poco carine per colpa dei suoi
occhi, ma anche perché non aveva l’ombelico – e la cosa non gli piaceva molto,
essere soggetto a scherzi.
Ma alla fine si era
abituato, perché aveva capito di essere diverso ma speciale: quando si
arrabbiava o aveva emozioni troppo forti le sue mani rilasciavano delle
scintille, e si spaventava perché pensava di essere su punto di bruciare. Oltre
ad aver imparato a non avere più paura di quello che aveva di diverso però,
notò presto di vedere anche cose che gli altri bambini della sua età non
vedevano, e sapeva che quello che i suoi occhi da gatto gli mostravano di
strano era il mondo a cui doveva appartenere, perché c’erano cose speciali come
lui.
Era rimasto lì tutta la
mattina: a guardare la luce sull’acqua e il riso che cresceva e quei piccoli esserini che vedeva solo lui sguazzarci dentro.
Pensava di essere
felice, Lui, perché sua madre
sembrava volergli bene, almeno un po’ – ma poi aveva scoperto che non era vero:
quel pomeriggio sua madre aveva smesso di essere felice e di volergli bene
perché qualcuno della chiesa gli aveva detto qualcosa sul suo conto, qualcosa
come «è figlio del demonio», ed era sicurissimo che si stavano riferendo a lui
perché solamente lui era diverso da tutti gli altri e dava fuoco alle cose o
muoveva gli oggetti o uccideva gli animali solo guardandoli (lo aveva fatto,
una volta: era arrabbiato con una gallina che lo aveva beccato e questa era
morta).
Si era nascosto in casa
per tutto il pomeriggio perché non voleva pensare che sua madre avesse smesso
di volergli bene, perché lui non le aveva fatto nulla di male per farsi odiare.
Aveva iniziato a
piovere quando l’uomo della chiesa se n’era andato, e Lui pensò che il cielo stesse piangendo perché aveva sentito quella
notizia – ma poi si decise a scacciare quella versione perché se era davvero il
figlio di un demone (e ne era piuttosto convinto), il suo posto non era in
cielo ma sottoterra, come aveva letto nella Bibbia, perché sua madre e l’uomo
che abitava con loro e che voleva bene a sua madre andavano a messa e credevano in Dio e negli
angeli e quindi anche nei demoni.
Quando aveva finito di
piovere il sole stava già tramontando e
dava il posto alla luna e il cielo era ancora pieno di nuvole. Aveva una
sensazione strana e sapeva di dover andare al fienile, si mosse velocemente scendendo
le scale e affondando i piedi nella terra bagnata e melmosa, attraversando il
terreno fino ad arrivare alle grandi porte di legno, ne aprì un po’ della prima
abbastanza per farla passare, e quando posò gli occhi sull’interno della
baracca la vide: sua madre.
Sua madre che sembrava
più alta del solito, sua madre che non aveva un volto perché i capelli neri e
lunghi le ricadevano davanti, sua madre che aveva qualcosa attorno al collo,
sua madre con il vestito azzurro sporco di terra e fieno, sua madre che, per il
suo colorito olivastro, era insolitamente pallida. Sua madre che non toccava
terra. Sua madre che era morta per colpa sua, e lo sapeva, perché lui era un mostro.
Aveva urlato e fatto un
tal bailamme che suo patrigno era accorso velocemente e inorridì alla vista del
fienile in fiamme, riusciva a scorgere la figura della madre di Lui sospesa nel vuoto, cosicché afferrò
il bambino per i capelli e lo strattonò fino al fiume, buttandolo in acqua e
mantenendolo giù, piangendo e sbraitando, sfogando tutto il suo dolore su Lui, ma non era colpa sua se era morta,
o forse sì, ma di certo non voleva morire perché era solo un bambino, e quel
pensiero – il pensiero di liberarsi – era talmente forte che fece scattare in
lui come una rotella e in un momento sentì la presa liberarsi, riemerse
dall’acqua e vide la figura dell’uomo ballare avvolto dalle fiamme, per poi
cadere a terra, inerme.
Piangeva, lui, mentre
qualcuno in lontananza gridava «a fuoco!».
Un tuono primeggiò su
qualsiasi rumore attorno a lui, l’acqua riprese a cadere su Batavia
e su di Lui, consapevole più che mai
di quello che era in realtà. Era la causa della morte di una madre – di sua
madre, e aveva dato fuoco ad un uomo con il pensiero. Un singhiozzo gli risalì
lungo la gola e una scia di lacrime iniziarono a sgorgargli dagli occhi.
Non sapeva che cosa gli
sarebbe successo, e forse non gli importava. Sperava solo che sua madre fosse
in cielo, finalmente felice.