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Autore: Cassie chan    23/07/2013    12 recensioni
Draco sussultò, certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso. Silenzioso, fino a quel momento. Perché Hermione Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.
Più di un anno fa, mi fu chiesto di partecipare all'all'OTP Tournament - Dramione vs Drarry vs Harmony, I Edizione, indetto dal « Collection of starlight » come scrittrice dramione. Il mio computer distrusse la prima versione della storia, in tempi brevi scrissi Thema probandum. Qualche settimana fa, il mio pc risputa fuori l'inizio della prima versione, questa che ho completato adesso. Avevo un debito verso questa storia e la considero lo specchio al contrario di Thema probandum, per forza di cose in qualche cosa ci assomiglia. Grazie a chiunque la leggerà e mi vorrà far sapere che ne pensa, ci tengo parecchio a questa storia. :D
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
Capitoli:
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“Weasley se magari ti degnassi di spostare quel tuo testone rosso, potrei vedere anche io i voti finali…”.

“Come se non lo sapessi, Malfoy, che cosa hai avuto… ti sarai comprato tutti gli Eccellente…!”.

E con quali soldi, razza di idiota: mi hanno confiscato i beni.

Certo che i Weasley sono la famiglia peggiore di Maghi.

E dicessero ora che sono razzista… questo è semplice spirito di osservazione.

Spostatasi finalmente quella piattola della Weasley, Draco si avvicinò al pannello che esponeva i voti dei M.a.g.o. fino a che non trovò il suo nome: sospirò di sollievo nel constatare che la sua riga recava una lunga fila di E, la sua media era rimasta alta come sperava. Saint Suliac ormai era raggiunta, aveva spedito la pozione una settimana prima e gli avevano già fatto sapere che funzionava perfettamente e che era stata già testata su diversi soggetti problematici, che avevano risposto bene al trattamento. C’era solo da risolvere la questione dell’opale obbligatoriamente indossato, ma era una quisquilia.

Contiamo che a settembre lei possa proseguire con le ricerche in modo da ovviare a questo problema, signor Malfoy.

Era già un’ammissione ufficiosa, servivano solo i voti dei M.a.g.o. ed, una volta resi noti, avrebbero spedito la lettera formale. I suoi genitori erano stati avvisati qualche giorno prima e gli avevano risposto in un modo entusiasta che lo aveva sorpreso.

Sorpreso sì, perché i suoi, ormai, avevano una vita loro in America. Difficile da dire e difficile da negare, ma Draco si era scoperto contento, anzi felice di questo. Avevano comprato una casa bianca di legno sulla spiaggia a Martha’s Vineyard ed avevano fatto amicizia con una coppia di giovani maghi che vivevano lì vicino e che li aiutavano ad ambientarsi. Ma non era quella la notizia.

La vera novità era che sua madre, Narcissa, era rimasta incinta.

A gennaio sarebbe nata sua sorella, per cui già avevano scelto il nome Maia, una stella della costellazione del Toro: quella novità lo riempì di un senso di tenerezza e pienezza che non aveva a che vedere ormai più nulla con l’egocentrismo smodato dell’unigenito che era stato. Lucius e Narcissa, nelle loro lettere, sembravano riconciliati con la vita e Maia ne sarebbe stata il segno; e lui Draco, ormai non più bambino, provava la sensazione che si prova alla fine dell’estate, quando le foglie cadono e l’aria diventa fredda, e tu rimpiangi il sole rovente ma al contempo pregusti le mattine meno invadenti di luce. Lasci il posto ad altro, sapendo che non sarebbe stato migliore, ma solo diverso. Aveva ottenuto il permesso di passare quell’estate con i suoi, l’ultima da figlio unico. L’estate prossima, ci sarebbe stata Maia e Draco già se l’immaginava: bionda come lui, magari con gli occhi azzurri di sua madre, che gorgheggiava alle onde del mare con un accento diverso dal suo. Se l’immaginava portata naturalmente a fidarsi, dopo essere cresciuta in un bene meno nevrotico del suo. La vedeva attaccata ai suoi genitori ma più libera e più vogliosa di esplorare, perché i vecchi errori non si ripetono e Maia non avrebbe avuto dentro la zavorra di un cordone ombelicale, che lui aveva rescisso solo da poco. E Draco già l’adorava, in un modo ancestrale che si poteva chiamare solo sangue, quella sorellina, che avrebbe avuto sempre diciotto anni meno di lui. Era già tangibile, visibile, reale, stagliata nel suo orizzonte con la compiutezza del riscatto.

Mentre guardava ancora il pannello dei voti finali, Draco pensò che Maia non sarebbe mai venuta ad Hogwarts: sarebbe sicuramente andata alla St. Elizabeth, l’accademia magica americana. Non avrebbe mai conosciuto quella Sala, quel parco… e non avrebbe nemmeno mai conosciuto i colori delle Case.

In America i liberali le avevano abolite da un pezzo.

Non avrebbe conosciuto niente di tutto quello, forse neanche di Voldemort e della parte che aveva avuto la sua famiglia in quella storia. E Maia, quindi, non avrebbe mai capito la storia di Hermione Granger, quando avrebbe provato a raccontargliela, per spiegarle perché ha tante amiche da portarsi a letto, ma mai nessuna fidanzata. Ma d’altronde, pensava Draco, chissà se avrò mai la voglia di raccontarla davvero questa storia a qualcuno si voltò sospirando, inseguendo una voce alle sue spalle. Lo scuoteva come un terremoto, ma presto non l’avrebbe udita più, quindi andava bene anche sprofondare ed annegare e crollare e morire sconfitti, se sarebbe durata poco.

Hermione era seduta al suo tavolo da Grifone, circondata da una massa informe di persone che Draco non vedeva davvero. Aveva i capelli legati in una coda alta sul capo, gli occhi sereni e puliti, l’aspetto sano di una persona che aveva ripreso a mangiare e dormire regolarmente, le sopracciglia aggrottate di quando sentiva una sciocchezza ed essa era arrivata in quell’occasione da Dean Thomas, stravaccato accanto a lei.

Faceva sempre impressione a tutti, figuriamoci a lui, vederla aprire con normalità la bocca e parlare come se nulla fosse accaduto: la sua voce era tornata quella di sempre, limpida, cristallina, mai incerta, dai toni rotondi e fieri. Nessuno aveva capito come mai le fosse sparita e tornata all’improvviso, e nemmeno lei aveva spiegazioni, ma alla fine nessuno le aveva chieste. Era tornata e tanto bastava.

Rideva Hermione, gesticolando in modo acceso, mentre la Weasley le parlava sopra e lei, per nulla intimorita, continuava la sua filippica con un tono che non ammetteva repliche. Si mise nervosamente i capelli dietro le orecchie e Draco sospirò con tranquillità, l’opale era al suo posto, doveva essersi bevuta il ricordo che le aveva indotto e che le suggeriva di non toglierselo.

Anche quella visione, per Draco, ebbe il sapore della riconciliazione, ma contrariamente a quanto era avvenuto per la notizia di Maia, era un sapore arcigno ed aspro: certo, aveva fatto la cosa giusta, lo sapeva, ma era difficile comunicare a tutte le parti di sé quella idea e quel pensiero. Il cervello lo aveva capito, il cuore lo aveva accettato chiudendosi in sé e il sangue continuava a ribollire, vedendola ormai libera di volarsene tra le braccia di un altro. Seguì da lontano la linea delle labbra che continuavano ad aprirsi, soffiando fuori le parole che le fiorivano in gola: il ricordo del loro sapore bagnato lo spinse a voltare la testa dall’altra parte, allontanandosi finalmente dal pannello dei voti.

Tra qualche ora, l’espresso per Londra sarebbe partito, portandosi via per sempre il ricordo di quell’anno di bronzo acceso dagli occhi di Hermione Granger: l’avrebbe vista abbracciare alla stazione Harry Potter ed esitare un po’ alla vista di Ron Weasley. Poi l’avrebbe ugualmente abbracciato e l’avrebbe spiata mentre chiudeva gli occhi, una piccola lacrima spersa sul viso. Avrebbe accettato l’aiuto di Weasley padre per portare il suo baule, avrebbe messo un braccio attorno alle spalle di Ginny Weasley ed avrebbe continuato a ciarlare per ore su che cosa doveva fare quell’estate.

Draco, armeggiando con le sue cose in un binario privo di persone che lo aspettavano, l’avrebbe vista superarlo e l’avrebbe sentita dire accorata, con la sua voce ovvia: “Ma certo che devo studiare, ci mancherebbe anche che mi dimentico tutto quello che so!”. Potter e Weasley avrebbero risposto in modo ironico, mentre lei sbuffava, e tutti sarebbero scoppiati a ridere nell’ansia grata di riaverla lì.

Quando sarebbe stato certo che lei era lontana, Draco si sarebbe girato spiando la sua schiena per l’ultima volta, salutando una parte di sé che ancora non sapeva di che dimensioni fosse, ma che se ne andava via per sempre. Vivitela tutta, Hermione Granger, questa vita urlata. Fa che ne sia valsa la pena di tutto questo.

Addio... Hermione.

Avrebbe indugiato ancora un po’ sulla schiena di lei che era scossa dalle risate, sulla treccia che le ballava armonicamente alle spalle, sui passi adesso distesi ed ampi, sul suono della sua voce che echeggiava come campanelle: e poi con un sospiro, si sarebbe smaterializzato alla Passaporta internazionale, mentre la risata di Hermione Granger si attenuava nelle sue orecchie.

Nel binario nove e tre quarti, ormai deserto, Hermione Granger aspettava il suo turno per attraversare il passaggio del muro: quando rimase sola, si voltò su sé stessa con un sorriso, salutando una parte di sé che se ne andava via per sempre e che non sapeva ancora di che dimensioni fosse. Iniziava una nuova vita, non peggiore, non migliore, solo diversa: sarebbe stato il riscatto e la riconciliazione per la guerra.

Sorrise ancora, aperta, fiduciosa e grata, ancora una nebbia di lacrime commosse negli occhi. Se le asciugò con il dorso della mano, l’opale alla luce del sole le rimandò un riflesso iridescente negli occhi castani. Lo guardò con attenzione studiandolo, ricordandosi di averlo avuto in guerra da una strega che le aveva detto che le avrebbe portato fortuna e di non toglierlo mai. E lei, che scaramantica non lo era mai stata, ci aveva creduto: lo portava quando avevano vinto la guerra, doveva essere anche merito suo se era andato tutto bene.

Anche se… Hermione con un brivido ricordò le parole della strega: alcune, ossia le prime in cui le parlava dell’anello, erano chiare e nette; le ultime erano confuse e strane, sembrava persino che avesse cambiato voce.

Le aveva detto: Vivi una vita urlata, Granger: non sei nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di altre parole. Poi non ricordava che cosa altro avesse detto, fino al suo saluto, disperato, accorato…  questo, almeno, se puoi, non te lo dimenticare mai… Hermione.

Non se le era dimenticato: sognava quella voce ogni notte.

Quella voce le diceva parole che non ricordava e che tentava sempre di afferrare, ma che sfuggivano come acqua tra le dita. Ogni notte intuiva che quella voce non poteva essere quella della strega, ma ogni mattina il ritorno alla coscienza la convinceva che doveva essere per forza così.

Ogni notte, ogni singola notte, Hermione Granger ricordava quella voce, pur senza sentire le parole che diceva. Ed ogni notte, ogni singola notte, quella voce si faceva più distinta.

Una mattina qualunque, il risveglio le portò una convinzione ormai non più sradicabile.

Quella non era la voce della strega.

Era un’altra voce, da ragazzo, che gli sembrava di conoscere ma non che ricordava dove l’avesse udita.

Ricordava solo che lei, di quella voce, si era perdutamente innamorata.

 

 

Sai cosa, Ginny, non è che io possa dire di stare male… sono felice, contenta, rinata. Ho voglia di fare un sacco di cose, sento come se mi fossi addormentata e mi fossi svegliata solamente adesso. Come se la mia vita abbia iniziato ad appartenermi soltanto da questo momento… quando non riuscivo a parlare… io ricordo di essermi persa, di non essere esistita. E adesso io esisto davvero, esisto sul serio, mi riconosco nei passi, nei gesti, nelle parole, anzi soprattutto nelle parole… perché io stessa sono una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di altre parole.

Ma Ginny, dentro, in fondo a me, nascosto, quasi invisibile, c’è un buco.

Un vuoto che risucchia tutto il resto.

È una mancanza continua, di qualcosa che non riesco nemmeno a capire che cosa sia.

Ci sono momenti, momenti qualunque dove succede la cosa più stupida e io scoppierei a piangere di nostalgia.

I fuochi d’artificio… mi fanno piangere. Mi danno la sensazione di un vuoto d’aria nello stomaco e poi il sollievo come quando ti metti ad urlare… e poi l’odore della carta, Ginny, l’odore della carta è uno strazio continuo, che tipo vado a pezzi ogni secondo, e mi volto in giro e non so nemmeno io che sto cercando, ma ogni cosa che faccio, ogni cosa che leggo, mi punge dentro di questa mancanza. E la pozione guaritrice, mi mette ansia, terrore, tutt’ad un tratto… e in guerra io non l’ho mai usata…  perché ne ho paura, adesso, come se mi ricordasse che stavo per perdere qualcuno? E poi ci sono dei fiori… piccoli con la corolla rotonda, violacei… e se li vedo, mi si stringe qualcosa dentro. Proprio stringere, strizzare, come se mi dovessero sputare fuori. E la pioggia, Ginny, la pioggia… mi fa arrossire. Mi incendia come una foglia secca. Ci credi, Ginny? Ci credi?  La pioggia, che fa fresco… a me la pioggia fa sentire caldo, e mi bagno, e ad ogni goccia che filtra sul collo, è come… non so come spiegarlo… è come essere baciata. Già baciata, ecco, Dio… è come essere baciata dalla persona che ami di più al mondo, e che te la vuoi tenere vicina per sempre, e che se si allontana tu improvvisamente cessi di esistere, e non sai nemmeno come fare a tornare indietro.

Il buco dentro si risucchia quella che sono, e sputa fuori tutto questo.

Tu dici che è normale, che forse è una reazione alla guerra, alla mancanza della voce, alla separazione da Ron… e magari è così, magari hai ragione. Forse sono diventata ipersensibile e voglio solo ricominciare disperatamente a vivere.

Però Ginny, spiegami… perché se è vero tutto questo, perché se in fondo è una cosa bella, perché se è una cosa normale, sana, meravigliosa, perché se voglio solo continuare a vivere, perché se in realtà non mi manca niente, perché se è tutto questo, Ginny… … perché allora non smette un secondo di fare male?

 

 

Draco Malfoy, nell’estate dei suoi diciannove anni, si concesse il lusso di possedere qualcosa di babbano.

Sembrava ormai anacronistico mostrarsi disgustati verso qualsiasi cosa non fosse approvato da generazioni di maghi, e sarebbe bastato semplicemente inarcare un sopracciglio scettici per non essere scambiati per improvvisi babbanofili convinti. Del resto, era la vita stessa ad andare in quella direzione.

A Martha’s Vineyard, di babbani c’erano a grappoli: ricchi, biondi, alti, con occhi azzurro-grigi e lineamenti affilati, inaspettatamente più simili ai suoi genitori di quanto fossero stati i purosangue inglesi. E i vicini di casa con cui Narcissa e Lucius avevano stretto amicizia erano mezzosangue. Anch’essi ricchi, biondi, ma indiscutibilmente mezzosangue. C’erano ancora momenti in cui, in particolari discorsi, si scontravano aspramente, ma i Malfoy avevano imparato nei mesi dell’esilio una maggiore tolleranza e predisposizione all’accettazione. Intimamente, erano convinti ancora della differenza tra le razze dei maghi, ma il mondo era andato talmente a scatafascio con Voldemort, minando alla serenità della loro famiglia, che ormai erano solo idee stantie e vecchie, che abbandonarle era impossibile, ma rigettarle era almeno auspicabile.

Se si voleva che tutto restasse com’era, tutto doveva cambiare: e per guadagnarsi la loro nicchia di agi, i Malfoy pragmaticamente avevano intuito che, in America, l’aria era diversa. Nessuno nemmeno proponeva una distinzione tra maghi, addirittura molti babbani erano informati del mondo della Magia.

Per sopravvivere, quindi, avevano dovuto adattarsi in fretta, avendo peraltro in questo un’eccellente insegnante: Andromeda Black, la sorella di Narcissa, riaccolta e perdonata dopo le sciagure presenti, soprattutto dopo la morte di Bellatrix Lestrange ed assurta ai ranghi di più idonea insegnante del mondo nuovo, che era appena nato. Andromeda era a Martha’s Vineyard una settimana sì e l’altra no, divisa dalla gestante sorellina solo dai suoi doveri di nonna dello scapestrato ed orfano nipotino, Teddy, affidato a Molly Weasley nei periodi in cui la nonna non c’era. Era stata Andromeda ad insegnare a sorella e cognato come muoversi in quel mondo estraneo e potenzialmente nemico, a trarne nei mesi persino piacere, ad inserirsi con cautela, finché le sue visite si erano fatte solo di cortesia, quando Narcissa aveva scoperto di aspettare Maia.

Ad inizio luglio, quando andò ad accogliere il nipote Draco alla Passaporta, Andromeda sospirava per il caldo e la fatica che gli sarebbe spettata con il giovane Malfoy: ricordava un ragazzetto razzista, pavido, pallido come un morto, dai capelli biondi slavati e dallo sguardo viziato e presuntuoso. Voleva sinceramente bene a sua sorella, era contenta che finalmente le cose stessero andando meglio, ma temeva fortemente che non sarebbe riuscita a sradicare dalla testa di Draco tutti i pregiudizi che diciannove anni di vita gli avevano inculcato, rinvigoriti dall’avere sempre avuto vita facile e capricci esauditi.

Ma alla Passaporta, arrivò un giovane uomo alto, bello, dalla postura eretta e dal passo sicuro. Aveva un colorito ben più roseo del solito, capelli rilucenti al sole e un fisico solo più magro, sotto la polo azzurra. Gli occhi di Draco ad Andromeda parvero subito spenti, tristi, cupi, piegati da un velo che il nipote egocentrico che aveva conosciuto in modo casuale, non aveva mai avuto. Per tutti i tre mesi in America, non perse mai quello sguardo, ed esso diventava fondo come l’inferno quando Andromeda si ritrovava a parlare di Teddy e delle sue avventure alla Tana. Lì, Draco le pareva attento, curioso, seduto quasi sull’orlo delle sedie, in tensione: interrogato, però, negava, diceva solo che voleva conoscere il figlio di sua cugina. Un giorno, però, per caso, accadde che Andromeda nominasse “quella graziosa ragazza nata babbana che è tanto amica di Harry Potter e che credo che sia la fidanzata di Ronald”: Draco si alzò bruscamente dalla sedia, che ricadde indietro con un tonfo sordo, e disse che aveva bisogno di farsi una doccia, lasciando la stanza.

Ad Andromeda questo comportamento parve persino più strano di quando lo aveva visto armeggiare confuso con un cellulare, chiedendo numi alla zia: non lo usava mai in sua presenza, eppure si era fatto erudire su ogni aspetto del suo funzionamento, dalle chiamate internazionali a quelle anonime, a come interrompere bruscamente una telefonata, alla possibilità che si capisse da dove la telefonata giungesse.

Interrogata Cissy, Andromeda non ebbe delucidazioni: la sorella, preoccupata, disse solo che doveva aver trascorso un anno difficile e solitario ad Hogwarts e che, sebbene nelle lettere non ne avesse volutamente fatto parola, questo l’aveva cambiato profondamente. Tutti erano cambiati profondamente, pensò Andromeda con un filo di comprensione frammista alla sofferenza per il ricordo della sua bambina persa in guerra: era contenta che questo fosse avvenuto anche a Draco. In fondo, era decisamente diventato una persona migliore. Se ne chiedeva solo il prezzo, ma, non avendone spiegazioni, ben presto abbandonò l’osservazione maniacale del ragazzo, curandosi solo di essere presente nei momenti in cui Draco voleva la sua compagnia.

Che non erano molti: Draco adorava passare le giornate in spiaggia, da solo, in una caletta dove veniva pochissima gente. Si alzava all’alba, correva lungo il bagnasciuga per un paio di ore e poi nuotava fino a mezzogiorno. Stava con la sua famiglia solo il pomeriggio, intervallando spesso tale frequentazione con lo studio per Saint Suliac. Di sera usciva e nessuno sapeva dove andasse, lasciando Lucius, Narcissa ed Andromeda ad interrogarsi senza però il coraggio di porre domande a quel nuovo ragazzo chiuso, eppure gentile e maturo, che era arrivato dall’Inghilterra e che dopo i primi abbracci e saluti, sembrava vivere in un mondo suo, da cui non voleva essere distolto e disturbato. Non era facile per i suoi genitori avere a che fare con questo nuovo Draco, ma non ne erano eccessivamente impensieriti: sembrava semplicemente cresciuto, anche se a prezzo di sofferenza e dolore ben scavati negli occhi grigi. Ogni genitore sarebbe stato fiero di un figlio che cresce e che trova la sua strada, vista l’ammissione a Saint Suliac: ben presto Maia, con ancora un’età da verdeggiare davanti, avrebbe coperto le crepe di affetto e di calore che Draco, non più bambino, rifiutava con decisione educata e dolce. Narcissa e Lucius, osservandolo uscire dalla terrazza della loro casa di legno bianco, si auguravano solo che andasse da altri ragazzi, da un’amica, da un amore speciale che colmasse le sue ferite. Ma, dopo un sospiro ed uno sbadiglio, come ogni genitore, affidavano il figlio ad un mondo friabile e che può fare del male, con la fiducia che bisogna sempre dare al sangue del tuo sangue.

Ma non potevano concretamente sapere che cosa Draco facesse e che cosa si agitasse nel suo animo.

Draco Malfoy, semplicemente, tornava alla caletta seminascosta ogni notte.

Protetta da una scogliera, il golfo era frequentato solo da amanti smaniosi di pace, che comunque rifuggivano il ragazzo biondo seduto sulla sabbia che passava il tempo a scrutare il mare argenteo di luna.  Solo qualche volta, vi si spingevano piccoli capannelli di ragazzi che accendevano un fuoco, passando il tempo suonando la chitarra. Ma neanche loro degnavano eccessivamente di attenzione Draco, che era sempre lì, ogni notte indipendentemente da come stesse o da come si sentisse. Cambiavano solo le sue abitudini.

Se era triste, e Draco era avvezzo da anni alla tristezza, se ne stava semplicemente immobile a guardare la luna muoversi nel cielo: la conosceva bene la tristezza, era una fidanzata petulante e gelosa che reclamava attenzioni piagnucolando. Ed allora la dovevi convincere che eri il suo solo pensiero. Guai a provare a distrarti, guai ad ignorarla, guai a fare finta che non esistesse. Trovava una strada peggiore per farti male.

Ma se la giornata non era stata cattiva come le altre, Draco alla sera era un’anima in pena. Raggiungeva la spiaggia quasi correndo, si gettava sulla sabbia come se avesse perso l’equilibrio, restava disteso a guardare il cielo con l’ansia che gli formicolava nelle ossa. Bastava poco per renderlo anche solo sereno, la felicità era qualcosa che ormai considerava rinviata a data da destinarsi: ma se aveva notato la curva della pancia di sua madre crescere sotto un vestito a fiori, se aveva visto suo padre ridere dopo anni in cui non lo faceva, se aveva sentito sua zia parlare di sua figlia senza piangere, se aveva notato che il mare aveva lo stesso odore di quello inglese, se un passante lo aveva ringraziato per strada, se una ragazza gli aveva sorriso, se un cane gli era corso incontro scambiandolo per il suo padrone, se da Saint Suliac gli scrivevano appunti su cosa portare ad ottobre… bè, la sensazione di sollievo e benessere durava solo poche ore. La serenità era una moglie attenta, mai invadente, che ti lascia libero di andare, anche se teme che tu la tradisca; e magari tu lo fai, ma poi torni da lei, sempre, il petto pieno di spilli di vergognosa colpa. Ecco, come si sentiva. In colpa.

Quando la malinconia tentava di scolorire e sparire, Draco si ricordava perché era malinconico, triste, arrabbiato, sconvolto, chiuso. Era il solo segno rimasto a dimostrargli che Hermione Granger era esistita, c’era stata, aveva avuto le braccia attorno alle sue spalle, le labbra sulle sue, il respiro accanto a lui. Ed allora correva alla caletta, prendeva il cellulare tra le mani e componeva senza nemmeno pensare un numero di telefono, la cui sequenza lo avrebbe portato dall’altra parte del mare e del cielo, nel pomeriggio dolce di luce della campagna londinese. Mentre sentiva lo squillo familiare, sapeva già che probabilmente lei non avrebbe risposto, aveva solo il numero della Tana, era quello che chiamava. Se anche ci fosse stata, le probabilità che rispondesse lei erano basse, in quella casa piena di gente zotica. Ma la speranza mai moriva, mai cessava. Bastava sperare che rispondesse, sperare che ci fosse, sperare che parlasse vicino al ricevitore, facendo rotolare una parola fino alle sue orecchie, così da ricordargli che era esistita e da rassicurarlo che stesse bene.

La voce, in fondo, era il segnale che la pozione continuava a funzionare.

Diceva di farlo solo per controllare che la pozione funzionasse.

Hermione, però, non rispondeva mai a quel telefono, non parlava nelle vicinanze del telefono e a Draco spettava sorbirsi la voce annoiata e scocciata di Ginny Weasley, o della madre, o del padre, cosa che suonava ulteriormente come una beffa. A volte sentiva il pianto di Teddy Lupin, ma nulla più di questo.

A quel punto, rassegnato, annegava nella sua apatia, si chiudeva nella fiducia smorta per la sua pozione e ritornava a guardare il mare. In ognuna di quelle onde, si nascondeva una piega di Hermione Granger, lontana, vicina, d’argento e d’acqua, resa un po’ più reale dal ricordo che era esistita.

Stava meglio, la serenità era scomparsa, sostituita da un’annacquata sensazione di giustizia dolorosa. Giustizia sì, verso quel sentimento mai morto che non aveva ancora bisogno di stingere e a cui si aggrappava come se fosse il solo appiglio rimasto nel mondo… e giustizia anche intrinseca, di sapere sempre e comunque, nonostante il dolore e nonostante tutto, che aveva fatto la cosa giusta. A quel punto, intimamente, ringraziava che lei non avesse risposto perché non aveva bisogno di ricordare la sua voce, sapendola rivolta ormai a tutti, e non più solo a lui. Più calmo, si chiudeva di nuovo nel suo silenzio quieto.

L’estate passò più velocemente di quanto si aspettasse: ben presto, la terra si tinse di ruggine ed oro e fu tempo di partire per la Francia. Abbracciò sua madre con la coscienza che, quando l’avrebbe rivista, non avrebbe avuto più quella pancia a dividersi da lui, ma ci sarebbe stata Maia tra le sue braccia; salutò suo padre con il sollievo di averlo visto libero dai suoi fantasmi ed ormai pacificato con la vita stessa; si congedò da sua zia Andromeda, affidando al suo corpo esile la rivoluzione copernicana della famiglia Malfoy/Black.

Lo studio lo travolse quasi subito, non appena iniziò a frequentare le lezioni e a trascorrere le ore nei laboratori sotterranei a mescere pozioni: sebbene fu indirizzato da subito al perfezionamento della pozione che aveva usato su Hermione, Draco riusciva a convivere pacificamente con il suo ricordo, stremato dalla stanchezza e dal lavoro. Nei momenti liberi, annegava nello sconforto, ma essi erano davvero pochi fortunatamente: Saint Suliac sembrava un’oasi in mezzo ad un deserto. L’accademia sorgeva in una piana, seminascosta dalle montagne e da un villaggio di case colorate: aveva un parco grande di betulle ed aceri, il clima era mite ma spesso uggioso, gli abitanti erano severi e distanti.

Sembrava di essere tornati alla caletta a Martha’s Vineyard, con la consolazione di avere molto di più da fare.

E sebbene Draco sentisse che l’animo e il cuore, pian piano, si anestetizzavano e sotto imputridivano, condannandolo ad un futuro di sempre maggiore solitudine e distacco, al momento non se ne preoccupava.

Poteva illudersi di stare andando avanti, quando invece aveva solo scavato una fossa, gettandosi dentro.

Sarebbe rimasto sepolto vivo, marcendo e decomponendosi piano, senza nemmeno rendersene conto, convincendosi che era sereno ed illudendosi di essere vivo per il fatto che mangiava, dormiva e respirava. E se anni dopo, da vecchio, avrebbe concluso che invece era morto da secoli e non se n’era accorto, sarebbe stato tardi per dolersene troppo. Avrebbe detto misantropo, guardando l’altra gente, che non era nato per essere padre, avere figli, amare una donna ed essere riamato: era nato per la pozionistica e tanto bastava.

Hermione Granger sarebbe stata cedro e vaniglia soffusi, soffocati in un tessuto estivo.

Tutto sarebbe andato così, senza sforzo.

Se non fosse stato per quel 18 ottobre, piombatogli tra capo e collo prima ancora di morire del tutto.

 

 

L’alba del diciotto ottobre iniziò nella maniera più consueta per Draco Malfoy. Era una domenica, cosa che significava nessuna lezione e aule e laboratori deserti. C’era anche una festa in un paese vicino, con giostre e bancarelle, e molti studenti si erano alzati di buon mattino per fare una gita. Brigitte, la compagna di progetto di Draco, lo aveva invitato ad unirsi a lei, ma lui aveva declinato gentilmente l’invito.

Era una di quelle giornate che adorava: il vento era freddo, spirava tra le montagne e portava la promessa della neve lontana. Il sole, però, era comunque incastonato nel cielo, aveva una luce bianca ed accecante, rinvigorito dal vento che aveva spazzato tutte le nubi. Aveva piovuto per cinque giorni consecutivi ed adesso il parco respirava di rugiada, brina e calore sottile e lieve.

Draco, dopo colazione, si affacciò ad una finestra e respirò l’aria buona del parco, colma di resina e pioggia che evaporava piano. Chiudendo gli occhi, decise impulsivamente che avrebbe studiato all’aperto le statistiche degli ultimi esperimenti sul biancospino in grani: di solito, evitava la luce e il parco peggio di un vampiro, costringendo Brigitte a lavorare al chiuso. La ragazza sbuffava e lo rimproverava spesso, ma più gente c’era, più era improbabile che Draco si convincesse. Ma con quella gita inattesa e quella domenica calma, nessuno si era avventurato nel parco, quindi Draco con un sospiro si concesse di sedersi sotto una quercia, vicino ad un laghetto coperto di ninfee, la schiena appoggiata al tronco di un albero, le gambe piegate e le carte sparse malamente davanti a lui ed incantate per non volare via. Il tempo trascorse velocemente senza che Draco se ne rendesse conto, finché, il sole già alto nel cielo, si appisolò con la nuca poggiata alla corteccia, gli occhi socchiusi, vinto dalle mille differenze dei fiori di biancospino da quelli di bucaneve. Sotto le palpebre chiuse, scivolarono impressioni e frammenti di sensazioni lontane, che si avvitavano tutte attorno ad un profumo ormai dimenticato: cedro e vaniglia. Era tutto impalpabile, lieve, soffuso, al punto che non riviveva davvero nulla. Non riusciva nemmeno ad avere quel sollievo agrodolce, la sua mente aveva ormai talmente censurato quei ricordi, da concedergli solo il vezzo della sterile rivisitazione senza contorni precisi. In ogni caso, erano ormai settimane che Draco non sognava più Hermione, l’ultima volta era accaduta la sera prima di partire da Martha’s Vineyard. Non ci era decisamente più abituato e la cosa lo fece risvegliare di soprassalto, madido di sudore, ansimante.

Il parco era ancora il quadro ad acquarelli di poco prima, eppure Draco, asciugandosi la fronte con una mano, sentiva, percepiva, avvertiva che era tutto diverso adesso. Il sogno era stato così reale che ancora adesso gli pareva di sentire l’odore di Hermione. Persino i colori parevano distorti, più vividi, intensi, da bruciare la retina. Forse era stanco ed aveva bisogno di dormire, si disse Draco ansiosamente, alzandosi in piedi e preparandosi a tornare all’interno dell’accademia così da riposarsi un po’. Il progetto si stava succhiando via tutte le sue energie e la sua referente, la professoressa Haylee Mandrake, pretendeva sempre il massimo.

Questo, evidentemente, lo stava portando all’esaurimento. Scuotendo il capo, ancora scosso, Draco raccolse le sue cose, si tolse dei fili d’erba dai pantaloni e ruotò su sé stesso.

“Malfoy?”.

Una voce, una sola singola voce lo fece fermare, congelato.

Non era possibile, doveva essere ancora l’effetto di quel maledetto sogno. Voce da bambola, voce da usignolo, voce scomparsa e rinata, lieve come un petalo di seta eppure forte, stoica, decisa, come roccia e lava fusa. Proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle, un punto troppo vicino, ormai prossimo, come se fosse dietro di lui. Ma non era possibile, adesso il vento si sarebbe catturato giocondo quel refolo rassomigliante alla voce di Hermione Granger, il cuore si sarebbe acquietato sconfitto nel petto e si sarebbe maledetto ancora e per sempre di essersi innamorato di quella donna, di averla lasciata andare, di non averla lasciare andare prima, di amarla ancora, sempre, domani e ieri, oggi e comunque. Si voltò di scatto, terreo, spaventato, convinto di doversi piegare ad una crudele fantasia.

Ed invece Hermione Granger era lì sul serio, ad un passo da lui: la sorpresa fu tale che non riuscì a dissimulare tutto quello che gli esplose sul viso repentinamente ed arrossì in modo furioso.

Non poteva essere lei, non così, non adesso, non in quel modo: era diversa, enormemente, dalla ragazzina che aveva lasciato ad Hogwarts e dalla fanciulla spaurita che aveva tenuto tra le braccia così tante volte. Era come se fossero passati mille anni e mille secoli, era bellissima sempre e comunque, ma di più, perché sembrava felice, serena, rilassata, come si era sempre augurato per lei. Aveva i capelli più lunghi e più chiari, colmi di riflessi color oro brunito, ma erano lisci, ordinati, lucidi. Un ciuffo le copriva lateralmente parte del viso… e già aveva voglia di spostarglielo con la mano, di sentire sotto le dita la grana morbida della pelle, di scoprire gli occhi che intravedeva solamente, perché non bastava, dovevano essere nei suoi, caldi, marroni, liquidi. Era abbronzata, sembrava appena tornata da una lunga vacanza, ed era vestita con un semplice paio di jeans ed una maglietta rossa. Il corpo aveva recuperato forme e fogge di un tempo, più sane, più floride. Lo sguardo sembrava pulito e sereno, normale, solo le sopracciglia erano aggrottate dalla sorpresa di trovarlo lì.

Draco, il cuore in gola, il respiro assente, la voce annullata, ebbe solo la forza di guardarle la mano sinistra, dove ancora splendeva la luce iridescente dell’opale. Si sgonfiò tutt’un tratto, ricacciando desiderio ed amore, angoscia e speranza, felicità e sconfitta, nel fondo dello stomaco. Era un caso, amaro e maledetto, che fosse lì: non si ricordava di lui, non aveva memoria di niente. Ed andava bene così, ovviamente.

Va bene così… che ti amo, è sempre stato un problema mio.

Che ti cancellerei quel broncio sulle labbra baciandoti con tutta la forza che ci so mettere, è un problema mio.

Che ti rovescerei su quest’erba e ti spoglierei lentamente, lasciandoti tutto il tempo di dirmi di no ma pregandoti, implorandoti di non farlo, è un problema mio.

 Che se non ti avessi vista adesso, avrei pensato che tu non fossi mai stata così bella come il giorno che ti ho baciato ed invece lo sei diecimila volte di più adesso, è un problema mio.

Che adesso so e credo e temo e mi auguro che non ti dimenticherò mai e ti amerò sempre, è un problema mio.

Che mi sei mancata più di quanto sia umanamente possibile sentire la mancanza di qualcuno, è un problema mio.

Che dopo questo mi mancherai ancora di più, è un problema mio.

… è tutto, sempre, solo un problema mio.

Parla adesso, sogno stupido della mia mente idiota.

Dimmi che sei tu, dimmi che sei sempre tu, dimmi che sei rimasta tu… ed ancora, a costo di sangue e lacrime, andrà bene così.

Basta che resti sempre un problema mio… e mai tuo.

“Granger… che diamine ci fai qui?” commentò Draco asciutto, recuperando l’autocontrollo, ancora poco convinto che lei non fosse uno scherzo della sua mente. Ma Hermione ebbe una reazione troppo naturale per pensare che il suo cervello si fosse fatto così accurato e Draco dovette concludere che era reale, chiedendo silenziosamente al Dio che mancava sempre nelle sue preghiere, di quale colpa arcana si fosse macchiato per incorrere anche in questo, specie se, per la prima volta nella vita, aveva fatto qualcosa da buono, e non da bastardo codardo doppiogiochista quale era sempre stato.

Hermione fece una smorfia buffa, mostrando quanto fosse incredula che lui fosse lì, e bofonchiò: “Sto facendo una ricerca… devo incontrare una professoressa di qui… ma tu, invece… studi qui?”. Il suo tono scettico gli fece più male che farlo arrabbiare, era lì grazie a lei. Trattenne il tonfo sordo nel petto, socchiudendo gli occhi, Hermione lo guardò curiosamente, piegando la testa di lato.

“Già… che tu ci creda o no, qui gli insegnanti non hanno i loro paladini da preferire a discapito di quelli realmente capaci…” la sua voce stridette nelle sue orecchie così tanto da dargli la nausea, al punto che dovette sedersi per combattere l’istinto di vomitare. Mettere su quella maschera, quelle vestigia di passato ormai consunto era troppo… ma quello era il solo Draco Malfoy che Hermione Granger conosceva, era il solo che si aspettasse. Non poteva fare altro, non poteva fare null’altro. Sperava solo che se ne andasse via quanto prima, gli mancava il fiato ed aveva una paralisi alla mascella a furia di mantenere quell’espressione. Ma, ancora, quel Dio dell’alto dei cieli che si dice buono, ma con lui giocava al gatto e al topo, non era di quell’avviso. Hermione, infatti, sorrise cautamente e si sedette accanto a lui, abbracciandosi le ginocchia prima di commentare piatta, senza partecipazione: “Ma guarda un po’… la vita è sempre piena di sorprese…”, lo guardò con aria compita prima di sussurrare, sforzandosi di essere gentile: “Complimenti allora, so che questa è un’accademia molto prestigiosa…”.

“Così si dice…” biascicò Draco in risposta, stringendo tra le mani un ciuffo d’erba e trattenendosi dall’estirparlo con rabbia e sconfitta dolente. Hermione seguì il suo movimento in silenzio, trattenendo con una mano i capelli smossi dal vento, poi sorridendo un pochino di più, mormorò: “Ti direi che sono contenta per te, ma tu probabilmente non ci crederesti, vero?”.

Draco sospirò, era come essere intrappolati in un pessimo film, costretti a recitare una parte dalle battute scadenti e dai cliché gratuiti: “Penserei che hai preso una botta in testa, sì…”.

“Ed allora non ti dico niente…” sorrise ancora lei, abbracciandosi le ginocchia e poggiando il mento su di esse. Lo guardava in modo attento, curioso, gli occhi screziati pieni di lucciole. Lo faceva sentire a disagio quello sguardo,  certo, lei nei mesi lo aveva abituato ad essere guardato così, ma questa ragazza che piombava in una mattina qualunque nella sua vita, aveva solo il suo aspetto, non le sue memorie. Era una sconosciuta in fondo. In lei, era evidente l’interesse accademico consueto che la contraddistingueva, la voglia di fargli domande, il desiderio di capire. Era sempre stato il suo punto debole, lo sapeva. E adesso, infatti, ne era scossa dall’interno: quello sguardo acceso, quelle guance rosse, quelle labbra morse per trattenersi dal parlare erano solo per quello. Ma, ovviamente, a lui non andava di parlare con lei, di inseguire negli occhi una lei che non esisteva più. Stava già per alzarsi ed andare via, quando Hermione ruppe gli indugi e gli chiese, la voce affrettata ed un po’ imbarazzata: “Stai facendo delle ricerche in particolare?”.

Avvertiva dentro un vuoto d’aria, la sensazione scomoda che gli succhiassero il respiro dai polmoni. Non ce la faceva più, davvero. Blaterò sconfitto, con voce acida: “Come mai tutto questo impeto di conversazione civile, Granger?”. Hermione, per un attimo, gli parve spaurita, persa, abbandonata a sé stessa, infinitamente piccola e fragile. Si chiuse nelle spalle ed accusò il colpo. Poi, ovviamente, si riprese, lo guardò fissa e mormorò: “La professoressa è in ritardo e mi annoio… e poi andiamo, che siamo rimasti ai tempi della scuola? Non penso nemmeno che tu creda ancora alle chiacchiere dei Mezzosangue che ti appestano se ci parli…”.

Ti appestano se parlano solo con te per nove mesi, se li baci, se li sogni, se ti fai contaminare l’anima da loro al punto che adesso vorresti essere morto, pur di stare ancora qui, a parlare con un miraggio di paradiso di una donna che non c’è più.

So che stai bene, so che sei felice, so tutto: non potresti adesso lasciarmi in pace? Non puoi farlo? Ancora, avida, mi vuoi per te?

Ti sei già presa tutto, dannata strega: questo, già, non sono più io.

Ti ho restituito a te stessa e in cambio, ho perso me stesso.

Un me stesso inutile, sciocco, becero, codardo…  ma ero sempre io.

Adesso sono nebbia e brace di un sogno estinto. Per favore, lasciami in pace.

Dovette sforzarsi Draco di rispondere in modo tranquillo, facendo anche ironia: “Tecnicamente ti appestano se li tocchi, non se ci parli…”, poi si rese conto ancora che questa Granger era solo un’ombra, non era la sua. Questa era quella che non era mai stata nemmeno per un secondo sua. Doveva solo far finta di niente. Prima lo faceva, prima sarebbe finita: “… comunque sì, sto lavorando su una pozione sulla memoria…”.

“Una cosa complicata… ma interessante se ti riesce!” biascicò lei sinceramente colpita, e per un attimo Draco fu anche contento di averla lì. Come se fosse fiera di lui. Hermione socchiuse gli occhi, guardandolo di sbieco, prima di concludere: “Non pensavo che fossi a questo livello avanzato…!”.

“Dicono che la vita è piena di sorprese…” sorrise lui, amaro.

“L’ho sentito dire anche io…” sorrise Hermione di rimando, un fulmine le passò negli occhi ma si spense subito, mentre lo incalzava: “Dai racconta, Malfoy! Recupero della memoria, quindi?”.

“No… perdita di ricordi… d-di ricordi traumatici…” mormorò lui, sembrava uno scherzo dirlo proprio a lei, ma se la vita si era presa questa giornata storta, tanto valeva assecondarla. Anzi doveva assecondarla, non è che ci fossero alternative. Proseguì disteso: “Prendi un soggetto che ha avuto una brutta esperienza e fai sì che gli si cancelli la memoria in modo settoriale, solo in riferimento all’esperienza negativa. Così si può procedere ad una piena riabilitazione…”.

“Ed ovvi agli effetti collaterali dell’Oblivion, certo…” commentò meditabonda lei, grattandosi una guancia in modo pensoso “E funziona?”. Ancora, un fulmine negli occhi, veloce, rapido, dalla vita corta. Stavolta Draco se ne accorse, sospirò, doveva pensare che stesse esagerando volutamente le sue doti.

Ribatté stanco, fingendo un risentimento lontano anni luce: “Certo che funziona, Granger…  non mi farebbero stare qui, altrimenti…”.

“L’ho capito… non ti volevo offendere…”.

“Mi volevi offendere, ma non è una novità…”.

Siamo davvero alla pessima commedia, adesso.

“Non volevo offenderti, o almeno non adesso…” concesse lei alla fine, e gli parve anche lei stanca, sfibrata, demotivata tutt’un tratto “Dico solo che un pozionista mediocre non riuscirebbe davvero a cancellare compiutamente la memoria di una persona, c’è troppo in ballo… insomma, fino a quando si parla di fatti o di eventi, è un conto… ma le sensazioni sono ben altra cosa, si radicano dentro ed è difficile estirparle, no?”.

Ce l’aveva davanti l’esempio che tutto si cancella, tutto, e niente viene risparmiato. Si trattenne dall’urlarle conto e disse annoiato: “Mah… le sensazioni sono sempre legate ai fatti, cancella i secondi e cancelli anche le prime…”. Quanto era idiota, stupido, inutile stare bloccati in quella conversazione sterile, a fingere che? Di essere amici, di conoscersi, di essersi stimati? Tutto questo, per lei, non era mai esistito… e per lui comunque tutto faceva schifo ugualmente. Non era questo che c’era stato.

Improvvisamente a Draco parve che lo capisse anche lei: si alzò in piedi, velocemente, come punta da un insetto, e gli diede le spalle, guardando verso l’accademia. Aveva le spalle piegate, il respiro accelerato e parlava con voce sottile ed acuta: “No, non è così, Malfoy… pensaci…”. Ancora, voleva ribatterle urlando, ma lei lo precedette proseguendo: “Immagina un ricordo legato, che ne so… alla pioggia, ecco”. Draco sussultò, guardando la sua schiena, di tanti esempi che stavano proprio quello doveva prendere? Ma aveva già concluso che era una giornata da vendetta divina, quindi non si preoccupò, ascoltava le sue parole con disinteresse. Il tono, però, di Hermione, rapido, gli scivolò nel sangue: era accorato, colpito, coinvolto. Lentamente più vivido, più scolpito, più tremante. Ad ogni parola, d’improvviso, gli tremava il cuore.

Hermione, non guardandolo ancora, proseguì, cercando di mantenere un tono piatto: “Un ricordo che ti viene portato via, che ti viene cancellato, che ti viene estirpato, che ti viene estorto perché magari è collegato ad un altro, infelice, amaro, triste. E quel ricordo, però, ti ha reso felice, completo… quella sensazione si attaccherà per sempre al suono della pioggia, al suo odore. E non ricorderai il perché, ma sarai sempre felice nei giorni di pioggia…”, la ragazza fece una pausa e sussurrò quasi a sé stessa: “Come se fossi amata”.

Draco si alzò in piedi velocemente, il viso in fiamme, la mente narcotizzata, mentre lei proseguiva con voce più flebile, quasi disperata: “E non è una bella sensazione, Malfoy, camminare per strada con il vuoto dentro, scavato, con una mancanza così letale di una cosa che non sai e che ti fa impazzire, e che si nutre di frammenti di sensazioni. Ti senti condannato a vivere a metà, per sempre in un limbo dove non sei mai triste e mai felice”. Draco strinse i pugni, mentre Hermione si voltò, e già sembrava un’altra, già era diversa, già gli occhi erano più dolci, tristi, meno liquidi, già adesso tutto sembrava una farsa, una finta, già adesso notava meglio i movimenti delle dita che tremavano, già adesso distingueva il luccichio sinistro degli occhi, già adesso distingueva quanto la voce gli sembrasse acuta perché era tesa come una corda a fingere anche lei.

Si asciugò in silenzio, quasi con rabbia, una lacrima che le aveva velato il viso, prima di aggiungere incolore: “Credimi, un pozionista in gamba non dovrebbe mai tralasciare le sensazioni”.  

Draco seguì la linea tracciata da quella lacrima, ne seguì il tragitto sulle labbra, trattenne il sollievo e fece rinascere la paura. Un sospiro di fiato, e mormorò, stringendo i pugni: “Tu… tu ti ricordi tutto, non è così?”.

La sua voce gli sembrò quella di un bambino, che vede qualcosa che ha sentito raccontare nelle fiabe diventare tangibile davanti ai suoi occhi, eppure non ci crede lo stesso. Fu uno e trino, in un istante.

C’era, da una parte, lo scienziato, il pozionista, il saggio: presuntuoso, sicuro, non ingannabile, imbottito di cifre e calcoli. Quello che aveva studiato quella pozione per mesi e che ne sapeva ogni effetto collaterale, e che sapeva che non lasciava scampo alcuno. Il paziente non ritornava mai alla memoria, mai, specie con l’opale indosso. E la Granger lo indossava ancora, era ben visibile sulle mani livide e chiuse a pugno.

Dall’altra parte, c’era l’amante, l’altruista, l’innamorato: sconfitto, vinto, votato al sacrificio e prostrato dal fallimento. Quello che, pur lottando contro tutto sé stesso, le aveva dato quella pozione, convinto di donarle una vita migliore, e che ora doveva bere il calice di constatare che non ci era riuscito, che i ricordi erano tornati, che lei probabilmente adesso stava peggio di prima e solo per colpa sua.

E poi c’era Draco, creatura ritagliata nello spazio lasciato dalle altre: che si sentiva felice perché quella donna, adesso, ricordava tutto; che riscopriva l’egoismo di amarla perché tanto la vita stessa gli si era ritorta contro, perché non era colpa sua se lei adesso ricordava tutto, perché forse era destino non lasciarla andare. Ma, al contempo, Draco era terrorizzato: perché la donna che era tornata, non sapeva ancora chi fosse.

Una e trina anche lei.

Non era la ragazzina fragile di cui si era innamorato dapprima, quella che non avrebbe avuto quella forza da uragano negli occhi, non avrebbe stretto così forte i pugni, non avrebbe usato la voce con tanta facilità, non avrebbe avuto la forza sufficiente a mostrarsi come appariva: furibonda, furiosa, furente. Specie non con lui.

Ma non era nemmeno quella che negli anni con lui si sarebbe arrabbiata spesso, se solo lo avesse voluto, ma che non l’aveva mai voluto, relegandolo a fumo e vapore. Quella Granger, salvatrice del mondo, dea della giustizia, eroina magica e strega brillante, Grifondoro fino al midollo. Quella che era convinto di aver fatto tornare, quella che amava allo stesso modo dell’altra, ma quella che non avrebbe mai perso tempo con lui, non avrebbe mai avuto uno scatto emotivo tale da arrabbiarsi con lui.

E se anche lo avesse voluto, sarebbe stata furia e basta, come quella volta in cui lo aveva schiaffeggiato.

Questa Granger nuova, forte, bellissima… era un’altra… che, della prima, preservava la dolcezza umida degli occhi, il tremore delle labbra, le spalle piegate, la piega inconsulta e gentile dell’espressione… ma che dalla seconda, aveva ereditato la durezza dello sguardo, la posa militaresca, l’orgoglio del viso, l’ironia nella voce.

Era un ibrido tra le due… un miracolo, a guardarla bene.

Perché Draco Malfoy, in lei, guardandola, dissolveva dissidio e mistero.

Amava pure questa Granger, anche questa: anzi, era la somma di tutto quello che amava delle prime due. E non sapeva come si fosse meritato di avere la sua esistenza. Forse, commentò mentalmente, non era una giornata da vendetta divina… ma da giustizia divina.

Perché questa Hermione… chissà come e chissà perché… vinceva scienziato ed amante, ed inventava Draco.

Questa Hermione si ricordava tutto.

Sprezzante, gli occhi accesi di furia, Hermione rispose alla sua domanda, spostandosi nervosamente un ciuffo di capelli ribelle: “Ah bé… se intendi se mi ricordo che l’opale è una pietra di sigillo di molti incantesimi e pozioni… sì, quello me lo ricordo…”. Con un sorriso sadico quasi, si sfilò l’anello dal dito e, con un solo scatto nervoso della mano, lo lanciò lontano, respirando a fatica, rossa in viso. Draco seguì sconvolto l’ellisse descritta dal cerchio di metallo, che atterrò dritto nel laghetto alle loro spalle, alzando uno schizzo d’acqua palustre. Tornò a lei, mentre diceva sarcastica: “Scusami, valeva parecchio? Non avevo pianificato di gettarlo via… in fondo ci tenevi così tanto che lo indossassi, al punto da incantarlo… ma quando mi ci metto, sono veramente teatrale…”.

Ma chi diamine era questa? Draco la guardò, aggrottando le sopracciglia, mentre Hermione se ne stava di fronte con le braccia conserte, lo sguardo di sfida acceso. Un’ondata di rabbia lieve gli bruciò lo stomaco, facendogli desiderare Hermione più di qualsiasi altro momento della sua vita. Gli venne persino da sorridere, la mente gliela dipinse moglie e madre che rimproverava un marito che sbuffava, ed era naturale e bellissimo immaginarla così adesso che del derelitto non aveva più nulla. Poi si ricordò che questa Hermione sembrava bramare decisamente la sua testa su un piatto, quindi incrociò le braccia nervosamente e biascicò severo: “Quando hai recuperato la memoria? Ti ho lasciato che…”.

“Che non ricordavo nulla, certo,  la pozione ha funzionato…” questa Granger smaniava pure dalla voglia di parlare, lo interruppe nervosamente non facendolo continuare. Ad ogni pausa del discorso, la furia sembrava crescerle in petto: “Tutto è evaporato come se non fosse mai esistito. Mesi e mesi della mia vita che tu ti sei permesso di cancellarmi dalla testa, come se niente fosse… ma va bene, in fondo ho dimenticato davvero tutto, e stavo bene, ero felice, ho fatto tante cose, sono andata a mare, a cavallo, in montagna. Ho studiato, conosciuto gente. Ho scelto di frequentare una scuola per imparare ad insegnare e mi sono ripresa in mano tutto, tutto. Ed indovina un po’?”. Hermione glielo chiese davvero, con quell’aria sempre più stravolta, i capelli spettinati, come se non avesse parlato e basta, ma avesse corso, lottato, incespicato.

Draco rimase a braccia conserte, mentre Hermione, tirando su con il naso, sussurrava: “Facevo una cosa… ed avevo sempre la scomoda sensazione di volerla mostrare a qualcuno. Mi accadeva qualcosa, e non mi rendeva felice raccontarla ad Harry, a Ron, a Ginny. Le cose più stupide mi facevano piangere, sentire persa, sentire a disagio… ed al contempo sentirmi felice, senza motivo. Sentivo sempre un buco dentro, come quando fori la ruota di una bicicletta, e magari continui a camminare pure, ma senti quell’insopportabile fruscio che ti distrae dalla visione del tramonto, del mare, della campagna o di che diamine vuoi… ed allora sei costretto a fermarti, a guardare, a capire da dove venga quel rumore, che magari alla prossima curva sbandi e finisci fuori strada…”. Alle sue parole, le braccia di Draco si erano sciolte, cadendo lungo i fianchi. Il cuore gli batteva forte in petto, Hermione non lo guardava, sembrava rapita dal laghetto alle loro spalle. La sua voce aveva deposto livore ed acredine, ed adesso appariva solo triste: “La notte del 31 luglio, il giorno del compleanno di Harry, quel buco si è fatto più forte, è diventata una voragine pronta ad inglobarmi. È successa una cosa scema, stupida, idiota. Eravamo brilli, George ha corretto il punch alla frutta di nascosto da sua madre, eravamo sul tetto a guardare le stelle… e loro hanno insistito per volare con le scope, fino ad un paese vicino, c’era un belvedere con vista sul mare o sulle montagne, non mi ricordo… e io non ci volevo andare, dicevo che eravamo quasi ubriachi, e tutti mi prendevano in giro dicendo che io invece ho solo paura di volare. Sbuffando, offesa, mi sono seduta a cavalcioni su una scopa, già tremando, già temendo, già preparandomi a dissimulare… ed invece non avevo paura. Affatto. Per nulla. Di niente. Mi sono gettata a velocità stratosferica, sfiorando le cime degli alberi, mentre mi urlavano dietro, chiamandomi. E lì è successo. Ginny mi ha solo detto: “Puoi scendere a terra, adesso?”. E io ho sentito la mia stessa voce nella testa dirlo una vita fa, a qualcuno. È stato un ricordo più netto, meno stupido di quelle sensazioni confuse… e non lo potevo ignorare. Sono scesa a terra, sono corsa via, ancora sconvolta. Ho capito che era successo qualcosa quando mi sono ricordata della funzione dell’opale, ho pensato che quella strega che mi hai fatto fintamente ricordare, mi avesse incantato… e ne ho avuto la conferma quando l’anello non si sfilava. Distrutta, in preda alla rabbia… ho fatto la sola cosa che mi è saltata in mente”. Draco l’ascoltò in silenzio, guardandola. Hermione rimise addosso quello sguardo di sfida silente, tornando ai suoi occhi grigi, prima di bofonchiare ovvia: “Mi sono tagliata via il dito”.

“C-che cos-sa?” Draco divenne bianco, osservando Hermione che, con tutta la calma del mondo, gli mostrava la cicatrice che girava tutt’attorno all’anulare destro. Si era tagliata via il dito… il 31 luglio… un mese prima che l’effetto della pozione diventasse permanente. Ecco che era successo. Ecco come ricordava tutto.

“I ricordi sono tornati tutti assieme…” proseguì piatta Hermione, spostando il peso da una gamba all’altra, esitante mentre aggiungeva: “Fred, Rookwood, la sua morte, la troncatura della mia voce… e tu che mi dai la pozione… stavo rischiando di diventare pazza. Sul serio. Peggio di tutte le altre volte. Se avessi indossato daccapo l’opale, probabilmente la pozione avrebbe ripreso effetto, ci ho pensato su non più di cinque secondi. Il dolore mi stava uccidendo… eppure non ho avuto dubbi…”.

“Su cosa?” ancora Draco l’osservò atterrito, questa Hermione sapeva anche parlare di Fred Weasley, ricordarlo, senza perdere la testa. Se non era la pozione… che cosa le era successo in questi mesi?

“Ho indossato l’opale di nuovo questa mattina, quando ero certa che la pozione non avrebbe più avuto effetto…” la voce di Hermione era una lama stoica, dura, aveva il volto scavato nel ghiaccio “Tu hai fatto tutto da solo, senza badare a me, senza fidarti di me, senza rispettare me al punto da lasciarmi decidere. Hai giocato con la mia mente, con i miei ricordi… chi diamine te ne ha dato il diritto, eh, dimmelo, Malfoy?!. Gli si accapponò la pelle a sentirla parlare così, non aveva bisogno di urlare o di alzare la voce, se ne stava con i pugni chiusi, a fissarlo sconvolta, tradita e delusa. E Draco sentiva la propria testa rovesciarsi come se si fossero messi a scuoterla. Non aveva mai dubitato di aver fatto la cosa giusta, mai, nemmeno per un istante. Anzi era stato quello a tenerlo in piedi, a farlo andare avanti. Adesso aveva la beffa di aver fallito, ma anche che lei vistosamente lo odiasse. Quegli occhi… Draco non se li sarebbe scordati mai più.

Improvvisamente fu tutto chiaro ed evidente come se avessero acceso la luce.

Non era stato altruista come aveva creduto, come si era gloriato di essere. L’egoismo era, invece, stato decidere al posto suo. Toglierle il diritto di decidere, non permetterle di scegliere che cosa fare e come essere. In un certo senso, si era liberato di lei come se fosse una zavorra, come se fosse un peso, come se fosse diventata troppo da sopportare. E adesso sì, che l’aveva persa sul serio. Draco raggelò a quel pensiero, fu improvvisamente inverno e notte, sebbene fuori ancora splendesse il sole e lei fosse ancora davanti a lui, che mormorava, piangendo: “Questo, io non credo che te lo perdonerò mai, non dovevi farlo… non a me… ”. Draco si lasciò cadere al suolo, le ginocchia piegate. Si mise una mano tra i capelli, improvvisamente disperato. Il putrido cadavere che stava diventando, aveva ragione. Lui non era fatto per amare, era come un re Mida al contrario: tutto quello che toccava, marciva. E se lo amava, peggio.

Abbattuto, biascicò solo, con un filo di voce: “Volevo solo… che tu… tornassi quella che sei…”.

Continuò a guardare in basso l’erba resa danzante dal vento, mentre sentiva Hermione sospirare, fare qualche passo e poi sedersi accanto a lui. Ne spiò il viso, di nascosto, lei guardava ancora lontano, gli occhi tremavano lucidi, ma non piangeva più. Aveva un respiro più calmo, adesso, il volto più roseo e la voce meno stridula mentre aggiungeva: “C’era un’altra strada. C’è sempre un’altra strada… che è più difficile, ma proprio perché lo è, vuol dire che è quella giusta. Tu avevi ragione, Draco, nel tuo goffo modo da bambino viziato. Io ho permesso a me stessa di lasciarmi andare, di incamminarmi a grandi passi verso la morte, di non reagire, di bloccarmi nel sollievo di non dover cambiare… e questo non è da me. E’ stato da te, ad un certo punto… per questo, assieme, è stato così, siamo riusciti a sorreggerci per tanti mesi… ma non è da me. E adesso non è nemmeno da te… sei andato avanti anche tu, a tuo modo. Sei venuto qui, stai studiando, hai scelto un’altra strada. E la cosa più brutta, in tutto questo, è stata questa… Draco… sapere che avevi deciso di lasciarmi indietro, di liberarti di me come se fossi un problema, di mettermi sgraziatamente a posto così da non avermi sulla coscienza…”. Draco, sconvolto, la vide piangere di nuovo, asciugarsi le lacrime e rifiutare la mano che lui aveva già fatto correre nella sua direzione, per stringere la sua. Non era questo, dannazione, non era stato questo… stava andando tutto a puttane con una velocità tale che il piano inclinato era una bazzecola.

Hermione tornò velocemente a guardarlo negli occhi, decisa, determinata, sebbene piangesse ancora, mormorando: “Non è facile, per me, parlare, aprire bocca, usare la mia voce, andare avanti ugualmente, lo stesso, affastellando sogni e speranze e rimuovendo dolore e rabbia… ma ce la sto facendo, piano piano. Ci ho messo due mesi, ma adesso riesco a parlare con tutti. Quasi… non mi capita più di farmi del male. E gli incubi… li controllo, quasi ce la faccio. E non è facile, non lo è ancora adesso… ho ancora tanto da fare su me stessa per perdonarmi, per accettarmi, per volermi bene di nuovo…  non sono qui, per caso. La professoressa del tuo progetto, Haylee… è lei che mi sta aiutando da quando ho rotto l’effetto della pozione, faccio terapia con lei due volte alla settimana… mi avrebbe preparato la pozione in due secondi se avessi voluto, stavolta nemmeno l’opale avrei avuto… ma le ho detto che non la voglio, che il prezzo è troppo alto…  quella pozione mi rende felice, ma non mi rende vera, autentica. E mi apre dentro, peggio di una mela…”, quelle sue parole, dette con quegli occhi, lo fecero ammattire, gli fecero risorgere amore e desiderio, assopiti nella colpa di averla incantata. La sentì con una parte remota della sua mente continuare a dire: “Grazie a lei sono riuscita a fare grandi progressi, di Fred adesso sanno tutto Harry e Ginny. Chissà se un giorno lo riuscirò a dire anche a Ron… e poi un giorno, molto probabilmente, se…”.

“Quale è il prezzo che è troppo alto, Granger?” le chiese, interrompendola, senza preamboli, stringendola per un polso. Hermione si voltò verso di lui con aria incredula, meravigliata, incomparabilmente stupita.

Lo disse come se stesse parlando con un bambino. Lo disse come se stesse spiegando perché il giorno cede il passo alla notte. Lo disse come se non fosse stato scontato dal primo momento, che aveva iniziato a parlare.

Lo disse con un sorriso piccolo, minuscolo, come se stesse valutando la possibilità di perdonarlo davvero.

Lo disse con il sole che le feriva le iridi, come quel giorno in infermeria, a settembre dell’anno prima.

Lo disse, deridendolo come uno sciocco e ferendolo come un idiota… ma improvvisamente rendendolo completo, per la prima volta nella sua vita.

“Il prezzo che non posso permettermi di pagare, sei tu… sei sempre stato tu… posso accettare persino di ricordare che ho causato la morte di Fred… ma non posso accettare di dimenticare anche una sola cosa che riguardi te…”.

E Draco, che era sempre stato egoista, capriccioso, violento persino, si comportò per l’ultima volta male con lei, con Hermione Granger, con la donna di cui era innamorato. Le mise una mano dietro la nuca, al contatto con i suoi capelli serici e lunghi. Hermione strinse le spalle, quasi si impuntò sui piedi, ma quando Draco l’attrasse più vicina, scontrandosi quasi con il suo viso in un impeto dolce, abbandonò ogni resistenza, accogliendo la sua bocca sulla sua. Accettò Hermione quel bacio non chiesto, imposto, comandato, sapendo che era l’ultima volta e perdonandolo nelle lacrime che versarono assieme, l’uno sul viso dell’altra. Draco la baciava con ansia febbrile, piangendo, singhiozzando, figlio che chiede perdono e uomo che lo ottiene, saggiava la sua bocca con morbida esperienza, scoprendone ogni particolare che adesso strappava al passato di chiunque l’avesse toccata e baciata, per sigillarselo nel futuro. Giocava con la sua lingua senza fretta, e d’improvviso tutto si riconciliava, saldandosi di fuoco dentro di lui: ogni cosa andava a posto, ogni cosa trovava il suo posto e tutto, tutto, sembrava essere nato per baciarsi così. Hermione chiuse le sue spalle con le braccia, piangeva e mormorava il suo nome, e lo confondeva alle promesse d’amore, e giurava l’amore ricambiato, e scivolava al suolo sotto di lui, e intrecciava le dita con le sue, e lasciava che l’erba catturasse i capelli, e concedeva a Draco il profilo di un seno da seguire con le labbra, e gli si apriva dolce, e non conosceva vergogna e pudore, e gemeva piano sudata, respirando sulla sua spalla, chiamando il suo nome, spalancando gli occhi alla luce del sole, e poi chiudendoli di scatto, nel bacio che lui le dava nell’estasi del corpo e nel riposo della mente. Se la strinse addosso per ore, in quel parco deserto, coprendola con il suo mantello e baciandole la fronte. Hermione non faceva nulla se non restare ad occhi chiusi, sorridere ogni tanto ed appisolarsi, per poi disegnare cerchi sulla pelle del braccio scoperto di lui. L’alba gli sorprese assieme, rendendo il cielo una collezione di nastri multicolore, nessuno li aveva cercati e loro nessuno avevano cercato, ebbri della presenza l’uno dell’altra.

Mentre un raggio di sole le colorava il viso, Hermione fece una smorfia infastidita da bambina, Draco le baciò la punta del naso e lei parve quasi ricordarsi una cosa importante, alzando la testa verso di lui e guardandolo fisso negli occhi. Sussurrò, una lacrima dispettosa negli occhi cervoni: “Se non l’avessi capito… ti ho perdonato… ma non farmi mai più una cosa del genere, per favore… in tutto questo… caos… di una sola cosa sono sicura: te. Sono maledettamente e stupidamente innamorata di te…”.

Le sorrise, baciandola ancora, senza parlare, senza dirle nient’altro. Un germe di lei, incerto come una primavera confusa, era sempre esistito ed adesso si preparava a fruttificare e a mettere foglie nuove.

Non c’era bisogno che lo dicesse, che gli dicesse di amarlo.

Stava tornando logorroica e verbosa come sempre era stata, come sempre aveva adorato che fosse. Ma, tra loro, non ce ne era bisogno. Non ce n’era mai stato.

Gli aveva confessato di amarlo, gridando il suo nome, soffocandolo sulla sua spalla, mentre facevano l’amore.

Le aveva augurato una vita urlata…

… senza sapere che sarebbe stato con lui che l’avrebbe vissuta.

 

 

La vita, quando è vera e non artefatta, non è mai semplice.

Per dieci anni Hermione Granger dovette lottare contro i fantasmi nella sua mente: nonostante la terapia due volte alla settimana a Saint Suliac, continuò ad avere ricadute, passava giornate di malinconia estrema, piangeva in modo febbrile e non era mai compiutamente a posto con sé stessa.

Per dieci anni, evitò il primo aprile, chiudendosi in una stanza al buio, senza vedere nessuno eccetto Draco.

Ma, come quando si impara a camminare, Hermione Granger a piccoli passi si riprese sé stessa: divenne un insegnante, raccontò tutta la verità ai suoi amici e a Ron, si impose ogni giorno di combattere e vivere.

Per l’uomo che aveva accanto, Draco Malfoy, che, nonostante sapeva che con una pozione, ogni sua ombra sarebbe scomparsa, non ci pensò mai più. Amava di lei luce ed ombra, sole e luna, stelle e nebbia.

E di ogni suo sforzo ed impegno, ci vedeva amore per lui e riconoscenza per Dio.

Dovette ad un certo punto dividere quell’amore, e fu come se esso raddoppiasse, ed alla fine ne avesse la stessa parte di prima: lo dovette dividere con una bimba bionda, dagli occhi castani, che si chiamava come la dottoressa di Hermione e la professoressa del suo progetto.

Haylee Serena Malfoy.

Fu sua figlia Haylee a guarire Hermione davvero: perché se la vita ti dona una figlia nel giorno del compleanno della persona che hai condannato innocente, allora forse sei stata perdonata.

Ed allora sei tu stessa a perdonarti.

 

 

Anni dopo, Draco Malfoy, padre di famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un caminetto spento in una calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un cane accoccolato ai suoi piedi, la finestra aperta sul mare.

Ed una figlia, bellissima, intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un baule pieno di vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono ai giochi di una decenne annoiata.

Avrebbe sorriso ed avrebbe annuito, e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio di anni passati, avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza da quarantenne, il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e vaniglia. Il sapore e l’odore dell’uragano.

 

Haylee avrebbe spiato l’espressione di suo padre ed avrebbe chiesto spensierata: “Perché sorridi, papà?”.

Prima ancora di rispondere, Hermione sarebbe spuntata dalla cucina, una pila di compiti da correggere e un paio di occhiali calati sul naso a darle l’aria di un gufo buffo, appena svegliatosi. Avrebbe guardato quella camicia, la stessa che indossava tanti anni prima, ed avrebbe sorriso anche lei. Haylee non avrebbe capito il motivo di quei sorrisi, avrebbe sbuffato annoiata, reclamando attenzione.

“Niente, tesoro… a papà ricorda l’unico periodo della sua vita in cui la mamma non si dava pena di rispondergli male, se la faceva arrabbiare… da quel momento in poi, non ha avuto più quell’onore…”.

Haylee avrebbe guardato i suoi genitori, senza capire, riprendendo a giocare con il suo cagnolino.

Un giorno, lontano, avrebbe capito che, se si scherza sul dolore, il male viene sconfitto.

Sua madre finalmente era libera, sorrideva alla fronte aggrottata del marito, che la guardava storto.

Concedendole di non risponderle piccato per una volta.

Da domani, come sempre, non avrebbe più avuto quell’onore.

 

   
 
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