“Weasley se magari
ti degnassi di spostare quel tuo testone rosso, potrei vedere anche io i voti
finali…”.
“Come se non lo
sapessi, Malfoy, che cosa hai avuto… ti sarai comprato tutti gli Eccellente…!”.
E
con quali soldi, razza di idiota: mi hanno confiscato i beni.
Certo
che i Weasley sono la famiglia peggiore di Maghi.
E
dicessero ora che sono razzista… questo è semplice spirito di osservazione.
Spostatasi
finalmente quella piattola della Weasley, Draco si avvicinò al pannello che
esponeva i voti dei M.a.g.o. fino a che non trovò il suo nome: sospirò di
sollievo nel constatare che la sua riga recava una lunga fila di E, la sua
media era rimasta alta come sperava. Saint Suliac ormai era raggiunta, aveva
spedito la pozione una settimana prima e gli avevano già fatto sapere che
funzionava perfettamente e che era stata già testata su diversi soggetti
problematici, che avevano risposto bene al trattamento. C’era solo da risolvere
la questione dell’opale obbligatoriamente indossato, ma era una quisquilia.
Contiamo
che a settembre lei possa proseguire con le ricerche in modo da ovviare a
questo problema, signor Malfoy.
Era già
un’ammissione ufficiosa, servivano solo i voti dei M.a.g.o. ed, una volta resi
noti, avrebbero spedito la lettera formale. I suoi genitori erano stati avvisati
qualche giorno prima e gli avevano risposto in un modo entusiasta che lo aveva
sorpreso.
Sorpreso sì, perché
i suoi, ormai, avevano una vita loro in America. Difficile da dire e difficile
da negare, ma Draco si era scoperto contento, anzi felice di questo. Avevano
comprato una casa bianca di legno sulla spiaggia a Martha’s Vineyard ed avevano
fatto amicizia con una coppia di giovani maghi che vivevano lì vicino e che li
aiutavano ad ambientarsi. Ma non era quella la notizia.
La vera novità era
che sua madre, Narcissa, era rimasta incinta.
A gennaio sarebbe
nata sua sorella, per cui già avevano scelto il nome Maia, una stella della
costellazione del Toro: quella novità lo riempì di un senso di tenerezza e
pienezza che non aveva a che vedere ormai più nulla con l’egocentrismo smodato
dell’unigenito che era stato. Lucius e Narcissa, nelle loro lettere, sembravano
riconciliati con la vita e Maia ne sarebbe stata il segno; e lui Draco, ormai
non più bambino, provava la sensazione che si prova alla fine dell’estate,
quando le foglie cadono e l’aria diventa fredda, e tu rimpiangi il sole rovente
ma al contempo pregusti le mattine meno invadenti di luce. Lasci il posto ad
altro, sapendo che non sarebbe stato migliore, ma solo diverso. Aveva ottenuto
il permesso di passare quell’estate con i suoi, l’ultima da figlio unico.
L’estate prossima, ci sarebbe stata Maia e Draco già se l’immaginava: bionda
come lui, magari con gli occhi azzurri di sua madre, che gorgheggiava alle onde
del mare con un accento diverso dal suo. Se l’immaginava portata naturalmente a
fidarsi, dopo essere cresciuta in un bene meno nevrotico del suo. La vedeva
attaccata ai suoi genitori ma più libera e più vogliosa di esplorare, perché i
vecchi errori non si ripetono e Maia non avrebbe avuto dentro la zavorra di un
cordone ombelicale, che lui aveva rescisso solo da poco. E Draco già l’adorava,
in un modo ancestrale che si poteva chiamare solo sangue, quella sorellina, che
avrebbe avuto sempre diciotto anni meno di lui. Era già tangibile, visibile, reale,
stagliata nel suo orizzonte con la compiutezza del riscatto.
Mentre guardava
ancora il pannello dei voti finali, Draco pensò che Maia non sarebbe mai venuta
ad Hogwarts: sarebbe sicuramente andata alla St. Elizabeth, l’accademia magica
americana. Non avrebbe mai conosciuto quella Sala, quel parco… e non avrebbe
nemmeno mai conosciuto i colori delle Case.
In America i
liberali le avevano abolite da un pezzo.
Non avrebbe
conosciuto niente di tutto quello, forse neanche di Voldemort e della parte che
aveva avuto la sua famiglia in quella storia. E Maia, quindi, non avrebbe mai
capito la storia di Hermione Granger, quando avrebbe provato a raccontargliela,
per spiegarle perché ha tante amiche da portarsi a letto, ma mai nessuna
fidanzata. Ma d’altronde, pensava
Draco, chissà se avrò mai la voglia di
raccontarla davvero questa storia a qualcuno… si voltò sospirando, inseguendo una voce alle
sue spalle. Lo scuoteva come un terremoto, ma presto non l’avrebbe udita più,
quindi andava bene anche sprofondare ed annegare e crollare e morire sconfitti,
se sarebbe durata poco.
Hermione era seduta
al suo tavolo da Grifone, circondata da una massa informe di persone che Draco
non vedeva davvero. Aveva i capelli legati in una coda alta sul capo, gli occhi
sereni e puliti, l’aspetto sano di una persona che aveva ripreso a mangiare e
dormire regolarmente, le sopracciglia aggrottate di quando sentiva una
sciocchezza ed essa era arrivata in quell’occasione da Dean Thomas, stravaccato
accanto a lei.
Faceva sempre
impressione a tutti, figuriamoci a lui, vederla aprire con normalità la bocca e
parlare come se nulla fosse accaduto: la sua voce era tornata quella di sempre,
limpida, cristallina, mai incerta, dai toni rotondi e fieri. Nessuno aveva
capito come mai le fosse sparita e tornata all’improvviso, e nemmeno lei aveva
spiegazioni, ma alla fine nessuno le aveva chieste. Era tornata e tanto
bastava.
Rideva Hermione,
gesticolando in modo acceso, mentre la Weasley le parlava sopra e lei, per
nulla intimorita, continuava la sua filippica con un tono che non ammetteva
repliche. Si mise nervosamente i capelli dietro le orecchie e Draco sospirò con
tranquillità, l’opale era al suo posto, doveva essersi bevuta il ricordo che le
aveva indotto e che le suggeriva di non toglierselo.
Anche quella
visione, per Draco, ebbe il sapore della riconciliazione, ma contrariamente a
quanto era avvenuto per la notizia di Maia, era un sapore arcigno ed aspro:
certo, aveva fatto la cosa giusta, lo sapeva, ma era difficile comunicare a
tutte le parti di sé quella idea e quel pensiero. Il cervello lo aveva capito,
il cuore lo aveva accettato chiudendosi in sé e il sangue continuava a
ribollire, vedendola ormai libera di volarsene tra le braccia di un altro. Seguì
da lontano la linea delle labbra che continuavano ad aprirsi, soffiando fuori
le parole che le fiorivano in gola: il ricordo del loro sapore bagnato lo
spinse a voltare la testa dall’altra parte, allontanandosi finalmente dal
pannello dei voti.
Tra qualche ora,
l’espresso per Londra sarebbe partito, portandosi via per sempre il ricordo di
quell’anno di bronzo acceso dagli occhi di Hermione Granger: l’avrebbe vista
abbracciare alla stazione Harry Potter ed esitare un po’ alla vista di Ron
Weasley. Poi l’avrebbe ugualmente abbracciato e l’avrebbe spiata mentre
chiudeva gli occhi, una piccola lacrima spersa sul viso. Avrebbe accettato
l’aiuto di Weasley padre per portare il suo baule, avrebbe messo un braccio
attorno alle spalle di Ginny Weasley ed avrebbe continuato a ciarlare per ore
su che cosa doveva fare quell’estate.
Draco, armeggiando
con le sue cose in un binario privo di persone che lo aspettavano, l’avrebbe
vista superarlo e l’avrebbe sentita dire accorata, con la sua voce ovvia: “Ma
certo che devo studiare, ci mancherebbe anche che mi dimentico tutto quello che
so!”. Potter e Weasley avrebbero risposto in modo ironico, mentre lei sbuffava,
e tutti sarebbero scoppiati a ridere nell’ansia grata di riaverla lì.
Quando sarebbe stato
certo che lei era lontana, Draco si sarebbe girato spiando la sua schiena per
l’ultima volta, salutando una parte di sé che ancora non sapeva di che
dimensioni fosse, ma che se ne andava via per sempre. Vivitela tutta, Hermione Granger, questa vita urlata. Fa che ne sia valsa
la pena di tutto questo.
Addio...
Hermione.
Avrebbe indugiato
ancora un po’ sulla schiena di lei che era scossa dalle risate, sulla treccia
che le ballava armonicamente alle spalle, sui passi adesso distesi ed ampi, sul
suono della sua voce che echeggiava come campanelle: e poi con un sospiro, si
sarebbe smaterializzato alla Passaporta internazionale, mentre la risata di
Hermione Granger si attenuava nelle sue orecchie.
Nel binario nove e
tre quarti, ormai deserto, Hermione Granger aspettava il suo turno per
attraversare il passaggio del muro: quando rimase sola, si voltò su sé stessa
con un sorriso, salutando una parte di sé che se ne andava via per sempre e che
non sapeva ancora di che dimensioni fosse. Iniziava una nuova vita, non peggiore,
non migliore, solo diversa: sarebbe stato il riscatto e la riconciliazione per
la guerra.
Sorrise ancora,
aperta, fiduciosa e grata, ancora una nebbia di lacrime commosse negli occhi. Se
le asciugò con il dorso della mano, l’opale alla luce del sole le rimandò un
riflesso iridescente negli occhi castani. Lo guardò con attenzione studiandolo,
ricordandosi di averlo avuto in guerra da una strega che le aveva detto che le
avrebbe portato fortuna e di non toglierlo mai. E lei, che scaramantica non lo
era mai stata, ci aveva creduto: lo portava quando avevano vinto la guerra,
doveva essere anche merito suo se era andato tutto bene.
Anche
se… Hermione con
un brivido ricordò le parole della strega: alcune, ossia le prime in cui le
parlava dell’anello, erano chiare e nette; le ultime erano confuse e strane,
sembrava persino che avesse cambiato voce.
Le aveva detto: Vivi una vita urlata, Granger: non sei
nata per il silenzio, sei una parola incarnata con dentro centinaia di milioni
di altre parole. Poi non ricordava che cosa altro avesse detto, fino al suo
saluto, disperato, accorato… questo, almeno, se puoi, non te lo dimenticare
mai… Hermione.
Non se le era
dimenticato: sognava quella voce ogni notte.
Quella voce le
diceva parole che non ricordava e che tentava sempre di afferrare, ma che
sfuggivano come acqua tra le dita. Ogni notte intuiva che quella voce non poteva
essere quella della strega, ma ogni mattina il ritorno alla coscienza la convinceva
che doveva essere per forza così.
Ogni notte, ogni
singola notte, Hermione Granger ricordava quella voce, pur senza sentire le
parole che diceva. Ed ogni notte, ogni singola notte, quella voce si faceva più
distinta.
Una mattina
qualunque, il risveglio le portò una convinzione ormai non più sradicabile.
Quella non era la voce della strega.
Era un’altra voce,
da ragazzo, che gli sembrava di conoscere ma non che ricordava dove l’avesse
udita.
Ricordava solo che
lei, di quella voce, si era perdutamente innamorata.
Sai cosa, Ginny, non è che io
possa dire di stare male… sono felice, contenta, rinata. Ho voglia di fare un
sacco di cose, sento come se mi fossi addormentata e mi fossi svegliata
solamente adesso. Come se la mia vita abbia iniziato ad appartenermi soltanto
da questo momento… quando non riuscivo a parlare… io ricordo di essermi persa,
di non essere esistita. E adesso io esisto davvero, esisto sul serio, mi
riconosco nei passi, nei gesti, nelle parole, anzi soprattutto nelle parole…
perché io stessa sono una parola incarnata con dentro centinaia di milioni di
altre parole.
Ma Ginny, dentro, in fondo a me,
nascosto, quasi invisibile, c’è un buco.
Un vuoto che risucchia tutto il
resto.
È una mancanza continua, di
qualcosa che non riesco nemmeno a capire che cosa sia.
Ci sono momenti, momenti qualunque
dove succede la cosa più stupida e io scoppierei a piangere di nostalgia.
I fuochi d’artificio… mi fanno
piangere. Mi danno la sensazione di un vuoto d’aria nello stomaco e poi il
sollievo come quando ti metti ad urlare… e poi l’odore della carta, Ginny,
l’odore della carta è uno strazio continuo, che tipo vado a pezzi ogni secondo,
e mi volto in giro e non so nemmeno io che sto cercando, ma ogni cosa che
faccio, ogni cosa che leggo, mi punge dentro di questa mancanza. E la pozione
guaritrice, mi mette ansia, terrore, tutt’ad un tratto… e in guerra io non l’ho
mai usata… perché ne ho paura, adesso, come
se mi ricordasse che stavo per perdere qualcuno? E poi ci sono dei fiori…
piccoli con la corolla rotonda, violacei… e se li vedo, mi si stringe qualcosa
dentro. Proprio stringere, strizzare, come se mi dovessero sputare fuori. E la
pioggia, Ginny, la pioggia… mi fa arrossire. Mi incendia come una foglia secca.
Ci credi, Ginny? Ci credi? La pioggia,
che fa fresco… a me la pioggia fa sentire caldo, e mi bagno, e ad ogni goccia
che filtra sul collo, è come… non so come spiegarlo… è come essere baciata. Già
baciata, ecco, Dio… è come essere baciata dalla persona che ami di più al
mondo, e che te la vuoi tenere vicina per sempre, e che se si allontana tu
improvvisamente cessi di esistere, e non sai nemmeno come fare a tornare
indietro.
Il buco dentro si risucchia quella
che sono, e sputa fuori tutto questo.
Tu dici che è normale, che forse è
una reazione alla guerra, alla mancanza della voce, alla separazione da Ron… e
magari è così, magari hai ragione. Forse sono diventata ipersensibile e voglio
solo ricominciare disperatamente a vivere.
Però Ginny, spiegami… perché se è
vero tutto questo, perché se in fondo è una cosa bella, perché se è una cosa
normale, sana, meravigliosa, perché se voglio solo continuare a vivere, perché
se in realtà non mi manca niente, perché se è tutto questo, Ginny… … perché
allora non smette un secondo di fare male?
Draco Malfoy,
nell’estate dei suoi diciannove anni, si concesse il lusso di possedere
qualcosa di babbano.
Sembrava ormai
anacronistico mostrarsi disgustati verso qualsiasi cosa non fosse approvato da
generazioni di maghi, e sarebbe bastato semplicemente inarcare un sopracciglio
scettici per non essere scambiati per improvvisi babbanofili convinti. Del
resto, era la vita stessa ad andare in quella direzione.
A Martha’s Vineyard,
di babbani c’erano a grappoli: ricchi, biondi, alti, con occhi azzurro-grigi e
lineamenti affilati, inaspettatamente più simili ai suoi genitori di quanto
fossero stati i purosangue inglesi. E i vicini di casa con cui Narcissa e
Lucius avevano stretto amicizia erano mezzosangue. Anch’essi ricchi, biondi, ma
indiscutibilmente mezzosangue. C’erano ancora momenti in cui, in particolari
discorsi, si scontravano aspramente, ma i Malfoy avevano imparato nei mesi
dell’esilio una maggiore tolleranza e predisposizione all’accettazione.
Intimamente, erano convinti ancora della differenza tra le razze dei maghi, ma
il mondo era andato talmente a scatafascio con Voldemort, minando alla serenità
della loro famiglia, che ormai erano solo idee stantie e vecchie, che
abbandonarle era impossibile, ma rigettarle era almeno auspicabile.
Se si voleva che
tutto restasse com’era, tutto doveva cambiare: e per guadagnarsi la loro
nicchia di agi, i Malfoy pragmaticamente avevano intuito che, in America,
l’aria era diversa. Nessuno nemmeno proponeva una distinzione tra maghi,
addirittura molti babbani erano informati del mondo della Magia.
Per sopravvivere,
quindi, avevano dovuto adattarsi in fretta, avendo peraltro in questo
un’eccellente insegnante: Andromeda Black, la sorella di Narcissa, riaccolta e
perdonata dopo le sciagure presenti, soprattutto dopo la morte di Bellatrix Lestrange
ed assurta ai ranghi di più idonea insegnante del mondo nuovo, che era appena
nato. Andromeda era a Martha’s Vineyard una settimana sì e l’altra no, divisa
dalla gestante sorellina solo dai suoi doveri di nonna dello scapestrato ed
orfano nipotino, Teddy, affidato a Molly Weasley nei periodi in cui la nonna
non c’era. Era stata Andromeda ad insegnare a sorella e cognato come muoversi
in quel mondo estraneo e potenzialmente nemico, a trarne nei mesi persino
piacere, ad inserirsi con cautela, finché le sue visite si erano fatte solo di
cortesia, quando Narcissa aveva scoperto di aspettare Maia.
Ad inizio luglio,
quando andò ad accogliere il nipote Draco alla Passaporta, Andromeda sospirava
per il caldo e la fatica che gli sarebbe spettata con il giovane Malfoy:
ricordava un ragazzetto razzista, pavido, pallido come un morto, dai capelli
biondi slavati e dallo sguardo viziato e presuntuoso. Voleva sinceramente bene
a sua sorella, era contenta che finalmente le cose stessero andando meglio, ma
temeva fortemente che non sarebbe riuscita a sradicare dalla testa di Draco
tutti i pregiudizi che diciannove anni di vita gli avevano inculcato,
rinvigoriti dall’avere sempre avuto vita facile e capricci esauditi.
Ma alla Passaporta,
arrivò un giovane uomo alto, bello, dalla postura eretta e dal passo sicuro.
Aveva un colorito ben più roseo del solito, capelli rilucenti al sole e un
fisico solo più magro, sotto la polo azzurra. Gli occhi di Draco ad Andromeda
parvero subito spenti, tristi, cupi, piegati da un velo che il nipote
egocentrico che aveva conosciuto in modo casuale, non aveva mai avuto. Per
tutti i tre mesi in America, non perse mai quello sguardo, ed esso diventava
fondo come l’inferno quando Andromeda si ritrovava a parlare di Teddy e delle
sue avventure alla Tana. Lì, Draco le pareva attento, curioso, seduto quasi
sull’orlo delle sedie, in tensione: interrogato, però, negava, diceva solo che
voleva conoscere il figlio di sua cugina. Un giorno, però, per caso, accadde
che Andromeda nominasse “quella graziosa ragazza nata babbana che è tanto amica
di Harry Potter e che credo che sia la fidanzata di Ronald”: Draco si alzò
bruscamente dalla sedia, che ricadde indietro con un tonfo sordo, e disse che
aveva bisogno di farsi una doccia, lasciando la stanza.
Ad Andromeda questo
comportamento parve persino più strano di quando lo aveva visto armeggiare
confuso con un cellulare, chiedendo numi alla zia: non lo usava mai in sua
presenza, eppure si era fatto erudire su ogni aspetto del suo funzionamento,
dalle chiamate internazionali a quelle anonime, a come interrompere bruscamente
una telefonata, alla possibilità che si capisse da dove la telefonata
giungesse.
Interrogata Cissy,
Andromeda non ebbe delucidazioni: la sorella, preoccupata, disse solo che
doveva aver trascorso un anno difficile e solitario ad Hogwarts e che, sebbene
nelle lettere non ne avesse volutamente fatto parola, questo l’aveva cambiato
profondamente. Tutti erano cambiati profondamente, pensò Andromeda con un filo
di comprensione frammista alla sofferenza per il ricordo della sua bambina
persa in guerra: era contenta che questo fosse avvenuto anche a Draco. In fondo,
era decisamente diventato una persona migliore. Se ne chiedeva solo il prezzo,
ma, non avendone spiegazioni, ben presto abbandonò l’osservazione maniacale del
ragazzo, curandosi solo di essere presente nei momenti in cui Draco voleva la
sua compagnia.
Che non erano molti:
Draco adorava passare le giornate in spiaggia, da solo, in una caletta dove
veniva pochissima gente. Si alzava all’alba, correva lungo il bagnasciuga per
un paio di ore e poi nuotava fino a mezzogiorno. Stava con la sua famiglia solo
il pomeriggio, intervallando spesso tale frequentazione con lo studio per Saint
Suliac. Di sera usciva e nessuno sapeva dove andasse, lasciando Lucius,
Narcissa ed Andromeda ad interrogarsi senza però il coraggio di porre domande a
quel nuovo ragazzo chiuso, eppure gentile e maturo, che era arrivato
dall’Inghilterra e che dopo i primi abbracci e saluti, sembrava vivere in un
mondo suo, da cui non voleva essere distolto e disturbato. Non era facile per i
suoi genitori avere a che fare con questo nuovo Draco, ma non ne erano
eccessivamente impensieriti: sembrava semplicemente cresciuto, anche se a
prezzo di sofferenza e dolore ben scavati negli occhi grigi. Ogni genitore
sarebbe stato fiero di un figlio che cresce e che trova la sua strada, vista
l’ammissione a Saint Suliac: ben presto Maia, con ancora un’età da verdeggiare
davanti, avrebbe coperto le crepe di affetto e di calore che Draco, non più
bambino, rifiutava con decisione educata e dolce. Narcissa e Lucius,
osservandolo uscire dalla terrazza della loro casa di legno bianco, si
auguravano solo che andasse da altri ragazzi, da un’amica, da un amore speciale
che colmasse le sue ferite. Ma, dopo un sospiro ed uno sbadiglio, come ogni
genitore, affidavano il figlio ad un mondo friabile e che può fare del male, con
la fiducia che bisogna sempre dare al sangue del tuo sangue.
Ma non potevano
concretamente sapere che cosa Draco facesse e che cosa si agitasse nel suo
animo.
Draco Malfoy,
semplicemente, tornava alla caletta seminascosta ogni notte.
Protetta da una
scogliera, il golfo era frequentato solo da amanti smaniosi di pace, che
comunque rifuggivano il ragazzo biondo seduto sulla sabbia che passava il tempo
a scrutare il mare argenteo di luna.
Solo qualche volta, vi si spingevano piccoli capannelli di ragazzi che
accendevano un fuoco, passando il tempo suonando la chitarra. Ma neanche loro
degnavano eccessivamente di attenzione Draco, che era sempre lì, ogni notte
indipendentemente da come stesse o da come si sentisse. Cambiavano solo le sue
abitudini.
Se era triste, e
Draco era avvezzo da anni alla tristezza, se ne stava semplicemente immobile a
guardare la luna muoversi nel cielo: la conosceva bene la tristezza, era una
fidanzata petulante e gelosa che reclamava attenzioni piagnucolando. Ed allora
la dovevi convincere che eri il suo solo pensiero. Guai a provare a distrarti,
guai ad ignorarla, guai a fare finta che non esistesse. Trovava una strada
peggiore per farti male.
Ma se la giornata
non era stata cattiva come le altre, Draco alla sera era un’anima in pena.
Raggiungeva la spiaggia quasi correndo, si gettava sulla sabbia come se avesse
perso l’equilibrio, restava disteso a guardare il cielo con l’ansia che gli
formicolava nelle ossa. Bastava poco per renderlo anche solo sereno, la
felicità era qualcosa che ormai considerava rinviata a data da destinarsi: ma
se aveva notato la curva della pancia di sua madre crescere sotto un vestito a
fiori, se aveva visto suo padre ridere dopo anni in cui non lo faceva, se aveva
sentito sua zia parlare di sua figlia senza piangere, se aveva notato che il
mare aveva lo stesso odore di quello inglese, se un passante lo aveva
ringraziato per strada, se una ragazza gli aveva sorriso, se un cane gli era
corso incontro scambiandolo per il suo padrone, se da Saint Suliac gli
scrivevano appunti su cosa portare ad ottobre… bè, la sensazione di sollievo e
benessere durava solo poche ore. La serenità era una moglie attenta, mai
invadente, che ti lascia libero di andare, anche se teme che tu la tradisca; e
magari tu lo fai, ma poi torni da lei, sempre, il petto pieno di spilli di
vergognosa colpa. Ecco, come si sentiva. In colpa.
Quando la malinconia
tentava di scolorire e sparire, Draco si ricordava perché era malinconico,
triste, arrabbiato, sconvolto, chiuso. Era il solo segno rimasto a dimostrargli
che Hermione Granger era esistita, c’era stata, aveva avuto le braccia attorno
alle sue spalle, le labbra sulle sue, il respiro accanto a lui. Ed allora
correva alla caletta, prendeva il cellulare tra le mani e componeva senza
nemmeno pensare un numero di telefono, la cui sequenza lo avrebbe portato
dall’altra parte del mare e del cielo, nel pomeriggio dolce di luce della
campagna londinese. Mentre sentiva lo squillo familiare, sapeva già che
probabilmente lei non avrebbe risposto, aveva solo il numero della Tana, era
quello che chiamava. Se anche ci fosse stata, le probabilità che rispondesse
lei erano basse, in quella casa piena di gente zotica. Ma la speranza mai
moriva, mai cessava. Bastava sperare che rispondesse, sperare che ci fosse,
sperare che parlasse vicino al ricevitore, facendo rotolare una parola fino
alle sue orecchie, così da ricordargli che era esistita e da rassicurarlo che
stesse bene.
La voce, in fondo,
era il segnale che la pozione continuava a funzionare.
Diceva di farlo solo per controllare che la pozione
funzionasse.
Hermione, però, non
rispondeva mai a quel telefono, non parlava nelle vicinanze del telefono e a
Draco spettava sorbirsi la voce annoiata e scocciata di Ginny Weasley, o della
madre, o del padre, cosa che suonava ulteriormente come una beffa. A volte
sentiva il pianto di Teddy Lupin, ma nulla più di questo.
A quel punto,
rassegnato, annegava nella sua apatia, si chiudeva nella fiducia smorta per la
sua pozione e ritornava a guardare il mare. In ognuna di quelle onde, si
nascondeva una piega di Hermione Granger, lontana, vicina, d’argento e d’acqua,
resa un po’ più reale dal ricordo che era esistita.
Stava meglio, la
serenità era scomparsa, sostituita da un’annacquata sensazione di giustizia
dolorosa. Giustizia sì, verso quel sentimento mai morto che non aveva ancora
bisogno di stingere e a cui si aggrappava come se fosse il solo appiglio
rimasto nel mondo… e giustizia anche intrinseca, di sapere sempre e comunque,
nonostante il dolore e nonostante tutto, che aveva fatto la cosa giusta. A quel
punto, intimamente, ringraziava che lei non avesse risposto perché non aveva bisogno
di ricordare la sua voce, sapendola rivolta ormai a tutti, e non più solo a lui.
Più calmo, si chiudeva di nuovo nel suo silenzio quieto.
L’estate passò più
velocemente di quanto si aspettasse: ben presto, la terra si tinse di ruggine
ed oro e fu tempo di partire per la Francia. Abbracciò sua madre con la
coscienza che, quando l’avrebbe rivista, non avrebbe avuto più quella pancia a
dividersi da lui, ma ci sarebbe stata Maia tra le sue braccia; salutò suo padre
con il sollievo di averlo visto libero dai suoi fantasmi ed ormai pacificato
con la vita stessa; si congedò da sua zia Andromeda, affidando al suo corpo
esile la rivoluzione copernicana della famiglia Malfoy/Black.
Lo studio lo
travolse quasi subito, non appena iniziò a frequentare le lezioni e a
trascorrere le ore nei laboratori sotterranei a mescere pozioni: sebbene fu
indirizzato da subito al perfezionamento della pozione che aveva usato su
Hermione, Draco riusciva a convivere pacificamente con il suo ricordo, stremato
dalla stanchezza e dal lavoro. Nei momenti liberi, annegava nello sconforto, ma
essi erano davvero pochi fortunatamente: Saint Suliac sembrava un’oasi in mezzo
ad un deserto. L’accademia sorgeva in una piana, seminascosta dalle montagne e
da un villaggio di case colorate: aveva un parco grande di betulle ed aceri, il
clima era mite ma spesso uggioso, gli abitanti erano severi e distanti.
Sembrava di essere
tornati alla caletta a Martha’s Vineyard, con la consolazione di avere molto di
più da fare.
E sebbene Draco
sentisse che l’animo e il cuore, pian piano, si anestetizzavano e sotto
imputridivano, condannandolo ad un futuro di sempre maggiore solitudine e
distacco, al momento non se ne preoccupava.
Poteva illudersi di
stare andando avanti, quando invece aveva solo scavato una fossa, gettandosi
dentro.
Sarebbe rimasto
sepolto vivo, marcendo e decomponendosi piano, senza nemmeno rendersene conto,
convincendosi che era sereno ed illudendosi di essere vivo per il fatto che
mangiava, dormiva e respirava. E se anni dopo, da vecchio, avrebbe concluso che
invece era morto da secoli e non se n’era accorto, sarebbe stato tardi per
dolersene troppo. Avrebbe detto misantropo, guardando l’altra gente, che non
era nato per essere padre, avere figli, amare una donna ed essere riamato: era
nato per la pozionistica e tanto bastava.
Hermione Granger
sarebbe stata cedro e vaniglia soffusi, soffocati in un tessuto estivo.
Tutto sarebbe andato
così, senza sforzo.
Se non fosse stato
per quel 18 ottobre, piombatogli tra capo e collo prima ancora di morire del
tutto.
L’alba del diciotto
ottobre iniziò nella maniera più consueta per Draco Malfoy. Era una domenica,
cosa che significava nessuna lezione e aule e laboratori deserti. C’era anche
una festa in un paese vicino, con giostre e bancarelle, e molti studenti si
erano alzati di buon mattino per fare una gita. Brigitte, la compagna di
progetto di Draco, lo aveva invitato ad unirsi a lei, ma lui aveva declinato
gentilmente l’invito.
Era una di quelle
giornate che adorava: il vento era freddo, spirava tra le montagne e portava la
promessa della neve lontana. Il sole, però, era comunque incastonato nel cielo,
aveva una luce bianca ed accecante, rinvigorito dal vento che aveva spazzato
tutte le nubi. Aveva piovuto per cinque giorni consecutivi ed adesso il parco
respirava di rugiada, brina e calore sottile e lieve.
Draco, dopo
colazione, si affacciò ad una finestra e respirò l’aria buona del parco, colma
di resina e pioggia che evaporava piano. Chiudendo gli occhi, decise
impulsivamente che avrebbe studiato all’aperto le statistiche degli ultimi
esperimenti sul biancospino in grani: di solito, evitava la luce e il parco
peggio di un vampiro, costringendo Brigitte a lavorare al chiuso. La ragazza
sbuffava e lo rimproverava spesso, ma più gente c’era, più era improbabile che
Draco si convincesse. Ma con quella gita inattesa e quella domenica calma,
nessuno si era avventurato nel parco, quindi Draco con un sospiro si concesse
di sedersi sotto una quercia, vicino ad un laghetto coperto di ninfee, la
schiena appoggiata al tronco di un albero, le gambe piegate e le carte sparse
malamente davanti a lui ed incantate per non volare via. Il tempo trascorse
velocemente senza che Draco se ne rendesse conto, finché, il sole già alto nel
cielo, si appisolò con la nuca poggiata alla corteccia, gli occhi socchiusi,
vinto dalle mille differenze dei fiori di biancospino da quelli di bucaneve.
Sotto le palpebre chiuse, scivolarono impressioni e frammenti di sensazioni
lontane, che si avvitavano tutte attorno ad un profumo ormai dimenticato: cedro
e vaniglia. Era tutto impalpabile, lieve, soffuso, al punto che non riviveva
davvero nulla. Non riusciva nemmeno ad avere quel sollievo agrodolce, la sua
mente aveva ormai talmente censurato quei ricordi, da concedergli solo il vezzo
della sterile rivisitazione senza contorni precisi. In ogni caso, erano ormai
settimane che Draco non sognava più Hermione, l’ultima volta era accaduta la
sera prima di partire da Martha’s Vineyard. Non ci era decisamente più abituato
e la cosa lo fece risvegliare di soprassalto, madido di sudore, ansimante.
Il parco era ancora
il quadro ad acquarelli di poco prima, eppure Draco, asciugandosi la fronte con
una mano, sentiva, percepiva, avvertiva che era tutto diverso adesso. Il sogno
era stato così reale che ancora adesso gli pareva di sentire l’odore di Hermione.
Persino i colori parevano distorti, più vividi, intensi, da bruciare la retina.
Forse era stanco ed aveva bisogno di dormire, si disse Draco ansiosamente,
alzandosi in piedi e preparandosi a tornare all’interno dell’accademia così da
riposarsi un po’. Il progetto si stava succhiando via tutte le sue energie e la
sua referente, la professoressa Haylee Mandrake, pretendeva sempre il massimo.
Questo,
evidentemente, lo stava portando all’esaurimento. Scuotendo il capo, ancora
scosso, Draco raccolse le sue cose, si tolse dei fili d’erba dai pantaloni e
ruotò su sé stesso.
“Malfoy?”.
Una voce, una sola
singola voce lo fece fermare, congelato.
Non era possibile,
doveva essere ancora l’effetto di quel maledetto sogno. Voce da bambola, voce da usignolo, voce scomparsa e rinata, lieve come
un petalo di seta eppure forte, stoica, decisa, come roccia e lava fusa.
Proveniva da un punto imprecisato alle sue spalle, un punto troppo vicino,
ormai prossimo, come se fosse dietro di lui. Ma non era possibile, adesso il
vento si sarebbe catturato giocondo quel refolo rassomigliante alla voce di
Hermione Granger, il cuore si sarebbe acquietato sconfitto nel petto e si
sarebbe maledetto ancora e per sempre di essersi innamorato di quella donna, di
averla lasciata andare, di non averla lasciare andare prima, di amarla ancora,
sempre, domani e ieri, oggi e comunque. Si voltò di scatto, terreo, spaventato,
convinto di doversi piegare ad una crudele fantasia.
Ed invece Hermione
Granger era lì sul serio, ad un passo da lui: la sorpresa fu tale che non
riuscì a dissimulare tutto quello che gli esplose sul viso repentinamente ed
arrossì in modo furioso.
Non poteva essere
lei, non così, non adesso, non in quel modo: era diversa, enormemente, dalla
ragazzina che aveva lasciato ad Hogwarts e dalla fanciulla spaurita che aveva
tenuto tra le braccia così tante volte. Era come se fossero passati mille anni
e mille secoli, era bellissima sempre e comunque, ma di più, perché sembrava
felice, serena, rilassata, come si era sempre augurato per lei. Aveva i capelli
più lunghi e più chiari, colmi di riflessi color oro brunito, ma erano lisci,
ordinati, lucidi. Un ciuffo le copriva lateralmente parte del viso… e già aveva
voglia di spostarglielo con la mano, di sentire sotto le dita la grana morbida
della pelle, di scoprire gli occhi che intravedeva solamente, perché non
bastava, dovevano essere nei suoi, caldi, marroni, liquidi. Era abbronzata,
sembrava appena tornata da una lunga vacanza, ed era vestita con un semplice
paio di jeans ed una maglietta rossa. Il corpo aveva recuperato forme e fogge
di un tempo, più sane, più floride. Lo sguardo sembrava pulito e sereno,
normale, solo le sopracciglia erano aggrottate dalla sorpresa di trovarlo lì.
Draco, il cuore in
gola, il respiro assente, la voce annullata, ebbe solo la forza di guardarle la
mano sinistra, dove ancora splendeva la luce iridescente dell’opale. Si sgonfiò
tutt’un tratto, ricacciando desiderio ed amore, angoscia e speranza, felicità e
sconfitta, nel fondo dello stomaco. Era un caso, amaro e maledetto, che fosse
lì: non si ricordava di lui, non aveva memoria di niente. Ed andava bene così,
ovviamente.
Va
bene così… che ti amo, è sempre stato un problema mio.
Che
ti cancellerei quel broncio sulle labbra baciandoti con tutta la forza che ci
so mettere, è un problema mio.
Che
ti rovescerei su quest’erba e ti spoglierei lentamente, lasciandoti tutto il
tempo di dirmi di no ma pregandoti, implorandoti di non farlo, è un problema
mio.
Che se non ti avessi vista adesso, avrei
pensato che tu non fossi mai stata così bella come il giorno che ti ho baciato
ed invece lo sei diecimila volte di più adesso, è un problema mio.
Che
adesso so e credo e temo e mi auguro che non ti dimenticherò mai e ti amerò
sempre, è un problema mio.
Che
mi sei mancata più di quanto sia umanamente possibile sentire la mancanza di
qualcuno, è un problema mio.
Che
dopo questo mi mancherai ancora di più, è un problema mio.
…
è tutto, sempre, solo un problema mio.
Parla
adesso, sogno stupido della mia mente idiota.
Dimmi
che sei tu, dimmi che sei sempre tu, dimmi che sei rimasta tu… ed ancora, a
costo di sangue e lacrime, andrà bene così.
Basta
che resti sempre un problema mio… e mai tuo.
“Granger… che
diamine ci fai qui?” commentò Draco asciutto, recuperando l’autocontrollo,
ancora poco convinto che lei non fosse uno scherzo della sua mente. Ma Hermione
ebbe una reazione troppo naturale per pensare che il suo cervello si fosse
fatto così accurato e Draco dovette concludere che era reale, chiedendo
silenziosamente al Dio che mancava sempre nelle sue preghiere, di quale colpa
arcana si fosse macchiato per incorrere anche in questo, specie se, per la
prima volta nella vita, aveva fatto qualcosa da buono, e non da bastardo
codardo doppiogiochista quale era sempre stato.
Hermione fece una
smorfia buffa, mostrando quanto fosse incredula che lui fosse lì, e bofonchiò:
“Sto facendo una ricerca… devo incontrare una professoressa di qui… ma tu,
invece… studi qui?”. Il suo tono scettico gli fece più male che farlo
arrabbiare, era lì grazie a lei. Trattenne il tonfo sordo nel petto,
socchiudendo gli occhi, Hermione lo guardò curiosamente, piegando la testa di
lato.
“Già… che tu ci
creda o no, qui gli insegnanti non hanno i loro paladini da preferire a
discapito di quelli realmente capaci…” la sua voce stridette nelle sue orecchie
così tanto da dargli la nausea, al punto che dovette sedersi per combattere
l’istinto di vomitare. Mettere su quella maschera, quelle vestigia di passato
ormai consunto era troppo… ma quello era il solo Draco Malfoy che Hermione
Granger conosceva, era il solo che si aspettasse. Non poteva fare altro, non
poteva fare null’altro. Sperava solo
che se ne andasse via quanto prima, gli mancava il fiato ed aveva una paralisi
alla mascella a furia di mantenere quell’espressione. Ma, ancora, quel Dio
dell’alto dei cieli che si dice buono, ma con lui giocava al gatto e al topo,
non era di quell’avviso. Hermione, infatti, sorrise cautamente e si sedette
accanto a lui, abbracciandosi le ginocchia prima di commentare piatta, senza
partecipazione: “Ma guarda un po’… la vita è sempre piena di sorprese…”, lo
guardò con aria compita prima di sussurrare, sforzandosi di essere gentile: “Complimenti
allora, so che questa è un’accademia molto prestigiosa…”.
“Così si dice…”
biascicò Draco in risposta, stringendo tra le mani un ciuffo d’erba e
trattenendosi dall’estirparlo con rabbia e sconfitta dolente. Hermione seguì il
suo movimento in silenzio, trattenendo con una mano i capelli smossi dal vento,
poi sorridendo un pochino di più, mormorò: “Ti direi che sono contenta per te,
ma tu probabilmente non ci crederesti, vero?”.
Draco sospirò, era
come essere intrappolati in un pessimo film, costretti a recitare una parte
dalle battute scadenti e dai cliché gratuiti: “Penserei che hai preso una botta
in testa, sì…”.
“Ed allora non ti
dico niente…” sorrise ancora lei, abbracciandosi le ginocchia e poggiando il
mento su di esse. Lo guardava in modo attento, curioso, gli occhi screziati
pieni di lucciole. Lo faceva sentire a disagio quello sguardo, certo, lei nei mesi lo aveva abituato ad
essere guardato così, ma questa ragazza che piombava in una mattina qualunque
nella sua vita, aveva solo il suo aspetto, non le sue memorie. Era una
sconosciuta in fondo. In lei, era evidente l’interesse accademico consueto che
la contraddistingueva, la voglia di fargli domande, il desiderio di capire. Era
sempre stato il suo punto debole, lo sapeva. E adesso, infatti, ne era scossa
dall’interno: quello sguardo acceso, quelle guance rosse, quelle labbra morse
per trattenersi dal parlare erano solo per quello. Ma, ovviamente, a lui non
andava di parlare con lei, di inseguire negli occhi una lei che non esisteva
più. Stava già per alzarsi ed andare via, quando Hermione ruppe gli indugi e
gli chiese, la voce affrettata ed un po’ imbarazzata: “Stai facendo delle
ricerche in particolare?”.
Avvertiva dentro un
vuoto d’aria, la sensazione scomoda che gli succhiassero il respiro dai
polmoni. Non ce la faceva più, davvero. Blaterò sconfitto, con voce acida: “Come
mai tutto questo impeto di conversazione civile, Granger?”. Hermione, per un
attimo, gli parve spaurita, persa, abbandonata a sé stessa, infinitamente
piccola e fragile. Si chiuse nelle spalle ed accusò il colpo. Poi, ovviamente,
si riprese, lo guardò fissa e mormorò: “La professoressa è in ritardo e mi
annoio… e poi andiamo, che siamo rimasti ai tempi della scuola? Non penso
nemmeno che tu creda ancora alle chiacchiere dei Mezzosangue che ti appestano
se ci parli…”.
Ti
appestano se parlano solo con te per nove mesi, se li baci, se li sogni, se ti
fai contaminare l’anima da loro al punto che adesso vorresti essere morto, pur
di stare ancora qui, a parlare con un miraggio di paradiso di una donna che non
c’è più.
So
che stai bene, so che sei felice, so tutto: non potresti adesso lasciarmi in
pace? Non puoi farlo? Ancora, avida, mi vuoi per te?
Ti
sei già presa tutto, dannata strega: questo, già, non sono più io.
Ti
ho restituito a te stessa e in cambio, ho perso me stesso.
Un
me stesso inutile, sciocco, becero, codardo…
ma ero sempre io.
Adesso
sono nebbia e brace di un sogno estinto. Per favore, lasciami in pace.
Dovette sforzarsi
Draco di rispondere in modo tranquillo, facendo anche ironia: “Tecnicamente ti
appestano se li tocchi, non se ci parli…”, poi si rese conto ancora che questa
Granger era solo un’ombra, non era la sua. Questa era quella che non era mai
stata nemmeno per un secondo sua. Doveva solo far finta di niente. Prima lo
faceva, prima sarebbe finita: “… comunque sì, sto lavorando su una pozione
sulla memoria…”.
“Una cosa complicata…
ma interessante se ti riesce!” biascicò lei sinceramente colpita, e per un
attimo Draco fu anche contento di averla lì. Come se fosse fiera di lui. Hermione
socchiuse gli occhi, guardandolo di sbieco, prima di concludere: “Non pensavo
che fossi a questo livello avanzato…!”.
“Dicono che la vita
è piena di sorprese…” sorrise lui, amaro.
“L’ho sentito dire
anche io…” sorrise Hermione di rimando, un fulmine le passò negli occhi ma si
spense subito, mentre lo incalzava: “Dai racconta, Malfoy! Recupero della
memoria, quindi?”.
“No… perdita di
ricordi… d-di ricordi traumatici…” mormorò lui, sembrava uno scherzo dirlo
proprio a lei, ma se la vita si era presa questa giornata storta, tanto valeva
assecondarla. Anzi doveva assecondarla, non è che ci fossero alternative.
Proseguì disteso: “Prendi un soggetto che ha avuto una brutta esperienza e fai
sì che gli si cancelli la memoria in modo settoriale, solo in riferimento
all’esperienza negativa. Così si può procedere ad una piena riabilitazione…”.
“Ed ovvi agli
effetti collaterali dell’Oblivion, certo…” commentò meditabonda lei,
grattandosi una guancia in modo pensoso “E funziona?”. Ancora, un fulmine negli
occhi, veloce, rapido, dalla vita corta. Stavolta Draco se ne accorse, sospirò,
doveva pensare che stesse esagerando volutamente le sue doti.
Ribatté stanco,
fingendo un risentimento lontano anni luce: “Certo che funziona, Granger… non mi farebbero stare qui, altrimenti…”.
“L’ho capito… non ti
volevo offendere…”.
“Mi volevi
offendere, ma non è una novità…”.
Siamo
davvero alla pessima commedia, adesso.
“Non volevo
offenderti, o almeno non adesso…” concesse lei alla fine, e gli parve anche lei
stanca, sfibrata, demotivata tutt’un tratto “Dico solo che un pozionista
mediocre non riuscirebbe davvero a cancellare compiutamente la memoria di una
persona, c’è troppo in ballo… insomma, fino a quando si parla di fatti o di
eventi, è un conto… ma le sensazioni sono ben altra cosa, si radicano dentro ed
è difficile estirparle, no?”.
Ce l’aveva davanti
l’esempio che tutto si cancella, tutto, e niente viene risparmiato. Si
trattenne dall’urlarle conto e disse annoiato: “Mah… le sensazioni sono sempre
legate ai fatti, cancella i secondi e cancelli anche le prime…”. Quanto era
idiota, stupido, inutile stare bloccati in quella conversazione sterile, a
fingere che? Di essere amici, di conoscersi, di essersi stimati? Tutto questo,
per lei, non era mai esistito… e per lui comunque tutto faceva schifo
ugualmente. Non era questo che c’era stato.
Improvvisamente a
Draco parve che lo capisse anche lei: si alzò in piedi, velocemente, come punta
da un insetto, e gli diede le spalle, guardando verso l’accademia. Aveva le
spalle piegate, il respiro accelerato e parlava con voce sottile ed acuta: “No,
non è così, Malfoy… pensaci…”. Ancora, voleva ribatterle urlando, ma lei lo
precedette proseguendo: “Immagina un ricordo legato, che ne so… alla pioggia, ecco”. Draco sussultò,
guardando la sua schiena, di tanti esempi che stavano proprio quello doveva
prendere? Ma aveva già concluso che era una giornata da vendetta divina, quindi
non si preoccupò, ascoltava le sue parole con disinteresse. Il tono, però, di
Hermione, rapido, gli scivolò nel sangue: era accorato, colpito, coinvolto.
Lentamente più vivido, più scolpito, più tremante. Ad ogni parola,
d’improvviso, gli tremava il cuore.
Hermione, non
guardandolo ancora, proseguì, cercando di mantenere un tono piatto: “Un ricordo
che ti viene portato via, che ti viene cancellato, che ti viene estirpato, che
ti viene estorto perché magari è collegato ad un altro, infelice, amaro,
triste. E quel ricordo, però, ti ha reso felice, completo… quella sensazione si
attaccherà per sempre al suono della pioggia, al suo odore. E non ricorderai il
perché, ma sarai sempre felice nei giorni di pioggia…”, la ragazza fece una
pausa e sussurrò quasi a sé stessa: “Come se fossi amata”.
Draco si alzò in
piedi velocemente, il viso in fiamme, la mente narcotizzata, mentre lei proseguiva
con voce più flebile, quasi disperata: “E non è una bella sensazione, Malfoy,
camminare per strada con il vuoto dentro, scavato, con una mancanza così letale
di una cosa che non sai e che ti fa impazzire, e che si nutre di frammenti di
sensazioni. Ti senti condannato a vivere a metà, per sempre in un limbo dove non
sei mai triste e mai felice”. Draco strinse i pugni, mentre Hermione si voltò,
e già sembrava un’altra, già era diversa, già gli occhi erano più dolci,
tristi, meno liquidi, già adesso tutto sembrava una farsa, una finta, già
adesso notava meglio i movimenti delle dita che tremavano, già adesso
distingueva il luccichio sinistro degli occhi, già adesso distingueva quanto la
voce gli sembrasse acuta perché era tesa come una corda a fingere anche lei.
Si asciugò in
silenzio, quasi con rabbia, una lacrima che le aveva velato il viso, prima di
aggiungere incolore: “Credimi, un pozionista in gamba non dovrebbe mai
tralasciare le sensazioni”.
Draco seguì la linea
tracciata da quella lacrima, ne seguì il tragitto sulle labbra, trattenne il
sollievo e fece rinascere la paura. Un sospiro di fiato, e mormorò, stringendo
i pugni: “Tu… tu ti ricordi tutto, non è così?”.
La sua voce gli
sembrò quella di un bambino, che vede qualcosa che ha sentito raccontare nelle
fiabe diventare tangibile davanti ai suoi occhi, eppure non ci crede lo stesso.
Fu uno e trino, in un istante.
C’era, da una parte,
lo scienziato, il pozionista, il saggio: presuntuoso, sicuro, non ingannabile,
imbottito di cifre e calcoli. Quello che aveva studiato quella pozione per mesi
e che ne sapeva ogni effetto collaterale, e che sapeva che non lasciava scampo
alcuno. Il paziente non ritornava mai alla memoria, mai, specie con l’opale
indosso. E la Granger lo indossava ancora, era ben visibile sulle mani livide e
chiuse a pugno.
Dall’altra parte,
c’era l’amante, l’altruista, l’innamorato: sconfitto, vinto, votato al
sacrificio e prostrato dal fallimento. Quello che, pur lottando contro tutto sé
stesso, le aveva dato quella pozione, convinto di donarle una vita migliore, e
che ora doveva bere il calice di constatare che non ci era riuscito, che i
ricordi erano tornati, che lei probabilmente adesso stava peggio di prima e
solo per colpa sua.
E poi c’era Draco,
creatura ritagliata nello spazio lasciato dalle altre: che si sentiva felice
perché quella donna, adesso, ricordava tutto; che riscopriva l’egoismo di
amarla perché tanto la vita stessa gli si era ritorta contro, perché non era
colpa sua se lei adesso ricordava tutto, perché forse era destino non lasciarla
andare. Ma, al contempo, Draco era terrorizzato: perché la donna che era
tornata, non sapeva ancora chi fosse.
Una e trina anche
lei.
Non era la ragazzina
fragile di cui si era innamorato dapprima, quella che non avrebbe avuto quella
forza da uragano negli occhi, non avrebbe stretto così forte i pugni, non
avrebbe usato la voce con tanta facilità, non avrebbe avuto la forza
sufficiente a mostrarsi come appariva: furibonda, furiosa, furente. Specie non
con lui.
Ma non era nemmeno
quella che negli anni con lui si sarebbe arrabbiata spesso, se solo lo avesse
voluto, ma che non l’aveva mai voluto, relegandolo a fumo e vapore. Quella
Granger, salvatrice del mondo, dea della giustizia, eroina magica e strega
brillante, Grifondoro fino al midollo. Quella che era convinto di aver fatto
tornare, quella che amava allo stesso modo dell’altra, ma quella che non
avrebbe mai perso tempo con lui, non avrebbe mai avuto uno scatto emotivo tale
da arrabbiarsi con lui.
E se anche lo avesse
voluto, sarebbe stata furia e basta, come quella volta in cui lo aveva
schiaffeggiato.
Questa Granger
nuova, forte, bellissima… era un’altra… che, della prima, preservava la
dolcezza umida degli occhi, il tremore delle labbra, le spalle piegate, la
piega inconsulta e gentile dell’espressione… ma che dalla seconda, aveva
ereditato la durezza dello sguardo, la posa militaresca, l’orgoglio del viso,
l’ironia nella voce.
Era un ibrido tra le
due… un miracolo, a guardarla bene.
Perché Draco Malfoy,
in lei, guardandola, dissolveva dissidio e mistero.
Amava pure questa
Granger, anche questa: anzi, era la somma di tutto quello che amava delle prime
due. E non sapeva come si fosse meritato di avere la sua esistenza. Forse,
commentò mentalmente, non era una giornata da vendetta divina… ma da giustizia
divina.
Perché questa
Hermione… chissà come e chissà perché… vinceva scienziato ed amante, ed
inventava Draco.
Questa Hermione si
ricordava tutto.
Sprezzante, gli
occhi accesi di furia, Hermione rispose alla sua domanda, spostandosi nervosamente
un ciuffo di capelli ribelle: “Ah bé… se intendi se mi ricordo che l’opale è
una pietra di sigillo di molti incantesimi e pozioni… sì, quello me lo
ricordo…”. Con un sorriso sadico quasi, si sfilò l’anello dal dito e, con un
solo scatto nervoso della mano, lo lanciò lontano, respirando a fatica, rossa
in viso. Draco seguì sconvolto l’ellisse descritta dal cerchio di metallo, che
atterrò dritto nel laghetto alle loro spalle, alzando uno schizzo d’acqua
palustre. Tornò a lei, mentre diceva sarcastica: “Scusami, valeva parecchio?
Non avevo pianificato di gettarlo via… in fondo ci tenevi così tanto che lo
indossassi, al punto da incantarlo… ma quando mi ci metto, sono veramente
teatrale…”.
Ma chi diamine era
questa? Draco la guardò, aggrottando le sopracciglia, mentre Hermione se ne
stava di fronte con le braccia conserte, lo sguardo di sfida acceso. Un’ondata
di rabbia lieve gli bruciò lo stomaco, facendogli desiderare Hermione più di
qualsiasi altro momento della sua vita. Gli venne persino da sorridere, la
mente gliela dipinse moglie e madre che rimproverava un marito che sbuffava, ed
era naturale e bellissimo immaginarla così adesso che del derelitto non aveva
più nulla. Poi si ricordò che questa Hermione sembrava bramare decisamente la
sua testa su un piatto, quindi incrociò le braccia nervosamente e biascicò
severo: “Quando hai recuperato la memoria? Ti ho lasciato che…”.
“Che non ricordavo
nulla, certo, la pozione ha funzionato…”
questa Granger smaniava pure dalla voglia di parlare, lo interruppe
nervosamente non facendolo continuare. Ad ogni pausa del discorso, la furia
sembrava crescerle in petto: “Tutto è evaporato come se non fosse mai esistito.
Mesi e mesi della mia vita che tu ti sei permesso di cancellarmi dalla testa,
come se niente fosse… ma va bene, in fondo ho dimenticato davvero tutto, e
stavo bene, ero felice, ho fatto tante cose, sono andata a mare, a cavallo, in
montagna. Ho studiato, conosciuto gente. Ho scelto di frequentare una scuola
per imparare ad insegnare e mi sono ripresa in mano tutto, tutto. Ed indovina
un po’?”. Hermione glielo chiese davvero, con quell’aria sempre più stravolta,
i capelli spettinati, come se non avesse parlato e basta, ma avesse corso,
lottato, incespicato.
Draco rimase a
braccia conserte, mentre Hermione, tirando su con il naso, sussurrava: “Facevo
una cosa… ed avevo sempre la scomoda sensazione di volerla mostrare a qualcuno.
Mi accadeva qualcosa, e non mi rendeva felice raccontarla ad Harry, a Ron, a
Ginny. Le cose più stupide mi facevano piangere, sentire persa, sentire a
disagio… ed al contempo sentirmi felice, senza motivo. Sentivo sempre un buco
dentro, come quando fori la ruota di una bicicletta, e magari continui a
camminare pure, ma senti quell’insopportabile fruscio che ti distrae dalla
visione del tramonto, del mare, della campagna o di che diamine vuoi… ed allora
sei costretto a fermarti, a guardare, a capire da dove venga quel rumore, che
magari alla prossima curva sbandi e finisci fuori strada…”. Alle sue parole, le
braccia di Draco si erano sciolte, cadendo lungo i fianchi. Il cuore gli
batteva forte in petto, Hermione non lo guardava, sembrava rapita dal laghetto
alle loro spalle. La sua voce aveva deposto livore ed acredine, ed adesso appariva
solo triste: “La notte del 31 luglio, il giorno del compleanno di Harry, quel
buco si è fatto più forte, è diventata una voragine pronta ad inglobarmi. È
successa una cosa scema, stupida, idiota. Eravamo brilli, George ha corretto il
punch alla frutta di nascosto da sua madre, eravamo sul tetto a guardare le
stelle… e loro hanno insistito per volare con le scope, fino ad un paese
vicino, c’era un belvedere con vista sul mare o sulle montagne, non mi ricordo…
e io non ci volevo andare, dicevo che eravamo quasi ubriachi, e tutti mi
prendevano in giro dicendo che io invece ho solo paura di volare. Sbuffando,
offesa, mi sono seduta a cavalcioni su una scopa, già tremando, già temendo,
già preparandomi a dissimulare… ed invece non avevo paura. Affatto. Per nulla.
Di niente. Mi sono gettata a velocità stratosferica, sfiorando le cime degli
alberi, mentre mi urlavano dietro, chiamandomi. E lì è successo. Ginny mi ha
solo detto: “Puoi scendere a terra,
adesso?”. E io ho sentito la mia stessa voce nella testa dirlo una vita fa,
a qualcuno. È stato un ricordo più netto, meno stupido di quelle sensazioni
confuse… e non lo potevo ignorare. Sono scesa a terra, sono corsa via, ancora
sconvolta. Ho capito che era successo qualcosa quando mi sono ricordata della
funzione dell’opale, ho pensato che quella strega che mi hai fatto fintamente
ricordare, mi avesse incantato… e ne ho avuto la conferma quando l’anello non
si sfilava. Distrutta, in preda alla rabbia… ho fatto la sola cosa che mi è
saltata in mente”. Draco l’ascoltò in silenzio, guardandola. Hermione rimise
addosso quello sguardo di sfida silente, tornando ai suoi occhi grigi, prima di
bofonchiare ovvia: “Mi sono tagliata via il dito”.
“C-che cos-sa?”
Draco divenne bianco, osservando Hermione che, con tutta la calma del mondo,
gli mostrava la cicatrice che girava tutt’attorno all’anulare destro. Si era
tagliata via il dito… il 31 luglio… un mese prima che l’effetto della pozione
diventasse permanente. Ecco che era successo. Ecco come ricordava tutto.
“I ricordi sono tornati
tutti assieme…” proseguì piatta Hermione, spostando il peso da una gamba
all’altra, esitante mentre aggiungeva: “Fred, Rookwood, la sua morte, la
troncatura della mia voce… e tu che mi dai la pozione… stavo rischiando di
diventare pazza. Sul serio. Peggio di tutte le altre volte. Se avessi indossato
daccapo l’opale, probabilmente la pozione avrebbe ripreso effetto, ci ho
pensato su non più di cinque secondi. Il dolore mi stava uccidendo… eppure non
ho avuto dubbi…”.
“Su cosa?” ancora
Draco l’osservò atterrito, questa Hermione sapeva anche parlare di Fred
Weasley, ricordarlo, senza perdere la testa. Se non era la pozione… che cosa le
era successo in questi mesi?
“Ho indossato
l’opale di nuovo questa mattina, quando ero certa che la pozione non avrebbe più
avuto effetto…” la voce di Hermione era una lama stoica, dura, aveva il volto
scavato nel ghiaccio “Tu hai fatto tutto da solo, senza badare a me, senza
fidarti di me, senza rispettare me al punto da lasciarmi decidere. Hai giocato
con la mia mente, con i miei ricordi… chi diamine te ne ha dato il diritto, eh,
dimmelo, Malfoy?!. Gli si accapponò la pelle a sentirla parlare così, non aveva
bisogno di urlare o di alzare la voce, se ne stava con i pugni chiusi, a
fissarlo sconvolta, tradita e delusa. E Draco sentiva la propria testa
rovesciarsi come se si fossero messi a scuoterla. Non aveva mai dubitato di
aver fatto la cosa giusta, mai, nemmeno per un istante. Anzi era stato quello a
tenerlo in piedi, a farlo andare avanti. Adesso aveva la beffa di aver fallito,
ma anche che lei vistosamente lo odiasse. Quegli occhi… Draco non se li sarebbe
scordati mai più.
Improvvisamente fu
tutto chiaro ed evidente come se avessero acceso la luce.
Non era stato
altruista come aveva creduto, come si era gloriato di essere. L’egoismo era,
invece, stato decidere al posto suo. Toglierle il diritto di decidere, non
permetterle di scegliere che cosa fare e come essere. In un certo senso, si era
liberato di lei come se fosse una zavorra, come se fosse un peso, come se fosse
diventata troppo da sopportare. E adesso sì, che l’aveva persa sul serio. Draco
raggelò a quel pensiero, fu improvvisamente inverno e notte, sebbene fuori
ancora splendesse il sole e lei fosse ancora davanti a lui, che mormorava,
piangendo: “Questo, io non credo che te lo perdonerò mai, non dovevi farlo… non
a me… ”. Draco si lasciò cadere al suolo, le ginocchia piegate. Si mise una
mano tra i capelli, improvvisamente disperato. Il putrido cadavere che stava
diventando, aveva ragione. Lui non era fatto per amare, era come un re Mida al
contrario: tutto quello che toccava, marciva. E se lo amava, peggio.
Abbattuto, biascicò
solo, con un filo di voce: “Volevo solo… che tu… tornassi quella che sei…”.
Continuò a guardare
in basso l’erba resa danzante dal vento, mentre sentiva Hermione sospirare,
fare qualche passo e poi sedersi accanto a lui. Ne spiò il viso, di nascosto,
lei guardava ancora lontano, gli occhi tremavano lucidi, ma non piangeva più.
Aveva un respiro più calmo, adesso, il volto più roseo e la voce meno stridula
mentre aggiungeva: “C’era un’altra strada. C’è sempre un’altra strada… che è
più difficile, ma proprio perché lo è, vuol dire che è quella giusta. Tu avevi
ragione, Draco, nel tuo goffo modo da bambino viziato. Io ho permesso a me
stessa di lasciarmi andare, di incamminarmi a grandi passi verso la morte, di
non reagire, di bloccarmi nel sollievo di non dover cambiare… e questo non è da
me. E’ stato da te, ad un certo punto… per questo, assieme, è stato così, siamo
riusciti a sorreggerci per tanti mesi… ma non è da me. E adesso non è nemmeno
da te… sei andato avanti anche tu, a tuo modo. Sei venuto qui, stai studiando,
hai scelto un’altra strada. E la cosa più brutta, in tutto questo, è stata
questa… Draco… sapere che avevi deciso di lasciarmi indietro, di liberarti di
me come se fossi un problema, di mettermi sgraziatamente a posto così da non
avermi sulla coscienza…”. Draco, sconvolto, la vide piangere di nuovo,
asciugarsi le lacrime e rifiutare la mano che lui aveva già fatto correre nella
sua direzione, per stringere la sua. Non era questo, dannazione, non era stato
questo… stava andando tutto a puttane con una velocità tale che il piano
inclinato era una bazzecola.
Hermione tornò
velocemente a guardarlo negli occhi, decisa, determinata, sebbene piangesse
ancora, mormorando: “Non è facile, per me, parlare, aprire bocca, usare la mia
voce, andare avanti ugualmente, lo stesso, affastellando sogni e speranze e
rimuovendo dolore e rabbia… ma ce la sto facendo, piano piano. Ci ho messo due
mesi, ma adesso riesco a parlare con tutti. Quasi… non mi capita più di farmi
del male. E gli incubi… li controllo, quasi ce la faccio. E non è facile, non
lo è ancora adesso… ho ancora tanto da fare su me stessa per perdonarmi, per
accettarmi, per volermi bene di nuovo…
non sono qui, per caso. La professoressa del tuo progetto, Haylee… è lei
che mi sta aiutando da quando ho rotto l’effetto della pozione, faccio terapia
con lei due volte alla settimana… mi avrebbe preparato la pozione in due
secondi se avessi voluto, stavolta nemmeno l’opale avrei avuto… ma le ho detto
che non la voglio, che il prezzo è troppo alto…
quella pozione mi rende felice, ma non mi rende vera, autentica. E mi
apre dentro, peggio di una mela…”, quelle sue parole, dette con quegli occhi,
lo fecero ammattire, gli fecero risorgere amore e desiderio, assopiti nella
colpa di averla incantata. La sentì con una parte remota della sua mente
continuare a dire: “Grazie a lei sono riuscita a fare grandi progressi, di Fred
adesso sanno tutto Harry e Ginny. Chissà se un giorno lo riuscirò a dire anche
a Ron… e poi un giorno, molto probabilmente, se…”.
“Quale è il prezzo
che è troppo alto, Granger?” le chiese, interrompendola, senza preamboli,
stringendola per un polso. Hermione si voltò verso di lui con aria incredula,
meravigliata, incomparabilmente stupita.
Lo disse come se
stesse parlando con un bambino. Lo disse come se stesse spiegando perché il
giorno cede il passo alla notte. Lo disse come se non fosse stato scontato dal
primo momento, che aveva iniziato a parlare.
Lo disse con un
sorriso piccolo, minuscolo, come se stesse valutando la possibilità di
perdonarlo davvero.
Lo disse con il sole
che le feriva le iridi, come quel giorno in infermeria, a settembre dell’anno
prima.
Lo disse,
deridendolo come uno sciocco e ferendolo come un idiota… ma improvvisamente
rendendolo completo, per la prima volta nella sua vita.
“Il prezzo che non
posso permettermi di pagare, sei tu… sei sempre stato tu… posso accettare
persino di ricordare che ho causato la morte di Fred… ma non posso accettare di
dimenticare anche una sola cosa che riguardi te…”.
E Draco, che era
sempre stato egoista, capriccioso, violento persino, si comportò per l’ultima
volta male con lei, con Hermione Granger, con la donna di cui era innamorato.
Le mise una mano dietro la nuca, al contatto con i suoi capelli serici e
lunghi. Hermione strinse le spalle, quasi si impuntò sui piedi, ma quando Draco
l’attrasse più vicina, scontrandosi quasi con il suo viso in un impeto dolce,
abbandonò ogni resistenza, accogliendo la sua bocca sulla sua. Accettò Hermione
quel bacio non chiesto, imposto, comandato, sapendo che era l’ultima volta e
perdonandolo nelle lacrime che versarono assieme, l’uno sul viso dell’altra.
Draco la baciava con ansia febbrile, piangendo, singhiozzando, figlio che
chiede perdono e uomo che lo ottiene, saggiava la sua bocca con morbida
esperienza, scoprendone ogni particolare che adesso strappava al passato di
chiunque l’avesse toccata e baciata, per sigillarselo nel futuro. Giocava con
la sua lingua senza fretta, e d’improvviso tutto si riconciliava, saldandosi di
fuoco dentro di lui: ogni cosa andava a posto, ogni cosa trovava il suo posto e
tutto, tutto, sembrava essere nato per baciarsi così. Hermione chiuse le sue
spalle con le braccia, piangeva e mormorava il suo nome, e lo confondeva alle
promesse d’amore, e giurava l’amore ricambiato, e scivolava al suolo sotto di
lui, e intrecciava le dita con le sue, e lasciava che l’erba catturasse i
capelli, e concedeva a Draco il profilo di un seno da seguire con le labbra, e
gli si apriva dolce, e non conosceva vergogna e pudore, e gemeva piano sudata,
respirando sulla sua spalla, chiamando il suo nome, spalancando gli occhi alla
luce del sole, e poi chiudendoli di scatto, nel bacio che lui le dava
nell’estasi del corpo e nel riposo della mente. Se la strinse addosso per ore,
in quel parco deserto, coprendola con il suo mantello e baciandole la fronte.
Hermione non faceva nulla se non restare ad occhi chiusi, sorridere ogni tanto
ed appisolarsi, per poi disegnare cerchi sulla pelle del braccio scoperto di
lui. L’alba gli sorprese assieme, rendendo il cielo una collezione di nastri
multicolore, nessuno li aveva cercati e loro nessuno avevano cercato, ebbri
della presenza l’uno dell’altra.
Mentre un raggio di
sole le colorava il viso, Hermione fece una smorfia infastidita da bambina,
Draco le baciò la punta del naso e lei parve quasi ricordarsi una cosa
importante, alzando la testa verso di lui e guardandolo fisso negli occhi.
Sussurrò, una lacrima dispettosa negli occhi cervoni: “Se non l’avessi capito…
ti ho perdonato… ma non farmi mai più una cosa del genere, per favore… in tutto
questo… caos… di una sola cosa sono
sicura: te. Sono maledettamente e stupidamente innamorata di te…”.
Le sorrise,
baciandola ancora, senza parlare, senza dirle nient’altro. Un germe di lei,
incerto come una primavera confusa, era sempre esistito ed adesso si preparava
a fruttificare e a mettere foglie nuove.
Non c’era bisogno
che lo dicesse, che gli dicesse di amarlo.
Stava tornando
logorroica e verbosa come sempre era stata, come sempre aveva adorato che
fosse. Ma, tra loro, non ce ne era bisogno. Non ce n’era mai stato.
Gli aveva confessato
di amarlo, gridando il suo nome, soffocandolo sulla sua spalla, mentre facevano
l’amore.
Le aveva augurato
una vita urlata…
… senza sapere che
sarebbe stato con lui che l’avrebbe vissuta.
La vita, quando è
vera e non artefatta, non è mai semplice.
Per dieci anni
Hermione Granger dovette lottare contro i fantasmi nella sua mente: nonostante
la terapia due volte alla settimana a Saint Suliac, continuò ad avere ricadute,
passava giornate di malinconia estrema, piangeva in modo febbrile e non era mai
compiutamente a posto con sé stessa.
Per dieci anni,
evitò il primo aprile, chiudendosi in una stanza al buio, senza vedere nessuno
eccetto Draco.
Ma, come quando si
impara a camminare, Hermione Granger a piccoli passi si riprese sé stessa:
divenne un insegnante, raccontò tutta la verità ai suoi amici e a Ron, si
impose ogni giorno di combattere e vivere.
Per l’uomo che aveva
accanto, Draco Malfoy, che, nonostante sapeva che con una pozione, ogni sua
ombra sarebbe scomparsa, non ci pensò mai più. Amava di lei luce ed ombra, sole
e luna, stelle e nebbia.
E di ogni suo sforzo
ed impegno, ci vedeva amore per lui e riconoscenza per Dio.
Dovette ad un certo
punto dividere quell’amore, e fu come se esso raddoppiasse, ed alla fine ne
avesse la stessa parte di prima: lo dovette dividere con una bimba bionda,
dagli occhi castani, che si chiamava come la dottoressa di Hermione e la
professoressa del suo progetto.
Haylee Serena
Malfoy.
Fu sua figlia Haylee
a guarire Hermione davvero: perché se la vita ti dona una figlia nel giorno del
compleanno della persona che hai condannato innocente, allora forse sei stata
perdonata.
Ed allora sei tu
stessa a perdonarti.
Anni dopo, Draco Malfoy, padre di
famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un caminetto spento in una
calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un cane accoccolato ai suoi
piedi, la finestra aperta sul mare.
Ed una figlia, bellissima,
intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un baule pieno di
vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono ai giochi di
una decenne annoiata.
Avrebbe sorriso ed avrebbe annuito,
e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio di anni passati,
avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza da quarantenne,
il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e vaniglia. Il
sapore e l’odore dell’uragano.
Haylee avrebbe
spiato l’espressione di suo padre ed avrebbe chiesto spensierata: “Perché
sorridi, papà?”.
Prima ancora di
rispondere, Hermione sarebbe spuntata dalla cucina, una pila di compiti da
correggere e un paio di occhiali calati sul naso a darle l’aria di un gufo
buffo, appena svegliatosi. Avrebbe guardato quella camicia, la stessa che
indossava tanti anni prima, ed avrebbe sorriso anche lei. Haylee non avrebbe
capito il motivo di quei sorrisi, avrebbe sbuffato annoiata, reclamando
attenzione.
“Niente, tesoro… a
papà ricorda l’unico periodo della sua vita in cui la mamma non si dava pena di
rispondergli male, se la faceva arrabbiare… da quel momento in poi, non ha
avuto più quell’onore…”.
Haylee avrebbe
guardato i suoi genitori, senza capire, riprendendo a giocare con il suo
cagnolino.
Un giorno, lontano,
avrebbe capito che, se si scherza sul dolore, il male viene sconfitto.
Sua madre finalmente
era libera, sorrideva alla fronte aggrottata del marito, che la guardava
storto.
Concedendole di non
risponderle piccato per una volta.
Da domani, come
sempre, non avrebbe più avuto quell’onore.