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Autore: Eloise_Hawkins    25/07/2013    14 recensioni
La guerra non si è ancora conclusa: mentre Harry Potter cerca disperatamente gli ultimi Horcrux, Voldemort conquista Hogwarts, ora sua roccaforte. La popolazione magica vive nel terrore, nascondendosi in piccoli gruppi e cercando di sopravvivere nonostante le continue incursioni dei Mangiamorte.
In questo clima di terrore e violenza, l’Ordine della Fenice, o almeno ciò che ne rimane, come la creatura da cui prende il nome tenta di risorgere dalle sue ceneri, accogliendo sotto la sua ala protettiva chiunque ne abbia bisogno ma, soprattutto, chiunque sia disposto a combattere.
Hermione Granger milita tra le fila del Bene, prima combattente in ogni battaglia. La sua concentrazione, però, vacilla quando Draco Malfoy, pur avendola riconosciuta nonostante il suo travestimento, la lascia libera di scappare. Perchè? E cosa nasconde lo sguardo grigio di quel ragazzo?
La guerra è ormai alle porte: un'ultima possibilità, una sola speranza, per chi nella vita ha fatto solo scelte sbagliate. E, forse, per chi ha ancora la possibilità di commetterle.
Ispirato a "Espiazione", di Ian McEwan
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger, Luna Lovegood, Neville Paciock, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Espiazione

 

 

 

 

 

« È una storia da dimenticare

È una storia da non raccontare

È una storia un po’ complicata.

È una storia sbagliata.

Cominciò con la luna sul posto

E finì con un fiume d’inchiostro.

È una storia un poco scontata.

È una storia sbagliata »

 

Una storia sbagliata – Fabrizio De Andrè

 

 

 



Diagon Alley non era altro che un cupo agglomerato di casupole plumbee e vecchi negozi dai muri incrostati e dagli interni polverosi. Gli antichi sogni di gloria che aveva vissuto, e che molti maghi ricordavano ancora, si erano infranti insieme ai vetri delle botteghe che un tempo costeggiavano la strada. La luce era diventata presto memoria sbiadita: uno spesso strato di nuvole copriva il cielo ormai grigio del luogo. Il sudiciume aveva preso possesso di ogni mattone, incuneandosi tra gli stretti vicoli che separavano le dozzinali case dalle finestre ricoperte di sporco, e rigagnoli fangosi scivolavano lungo le strade, tuffandosi in pozzanghere dall’aspetto altrettanto lercio. Il lezzo che si respirava, un misto di denso putridume e afrore grasso, marciume e sudore, era il risultato di anni di incivile incuria e sporcizia accumulata. L’opaca fuliggine dell’aria era stemperata solo da vaghi e incerti sprazzi di cielo che si intravvedevano tra un tetto e l’altro.

Una figura incappucciata si muoveva furtivamente tra i vicoli cupi, le braccia avvolte attorno a un fagotto che emetteva piccoli lamenti inconsistenti. Il mantello che ricopriva il viso della strega scivolò indietro, rivelando una ciocca di ricci neri e una pelle di pesca, imbrattata qua e là da macchie di terra e fuliggine. Un vagabondo, fermo in un angolo nella vana speranza di ottenere un po’ di elemosina, le sorrise, scoprendo la macchia scura di un dente mancante e indirizzandole proposte oscene. L’unica risposta che ricevette fu un mugolio – la lingua stretta tra i denti e l’orgoglio sepolto sotto terra. La giovane donna arricciò il nasino, sistemò meglio il cappuccio sul capo e, dopo aver sussurrato dolci parole al fagotto che stringeva tra le mani, proseguì a passo spedito verso il piccolo negozio che occupava il fono della via.

L’insegna della farmacia doveva aver conosciuto senz’altro tempi migliori, e di sicuro un tempo le vetrine erano stato pulite, perché tra le macchie di unto e sporco riuscivano ancora a intravvedersi flaconi di unguenti miracolosi e pubblicità che promettevano risultati definitivi contro la maggior parte delle malattie del mondo magico.

Quando la strega spinse la porta, uno scampanellio stranamente allegro e dissonante annunciò il suo ingresso. Un untuoso ometto spuntò all’improvviso da sotto il bancone, sistemandosi sul naso gli occhiali dalle spesse lenti e rivolgendo alla donna un’occhiata sospettosa. Ne sondò per qualche istante il volto in penombra, soffermandosi sui ricci scomposti e sugli occhi sfuggenti, per poi abbassare lo sguardo sul fagotto.

« Come posso aiutarla? » domandò con tono professionale, il dubbio un’acquosa nota di sottofondo che non intimorì la giovane.

Hermione trasse un respiro profondo e si avvicinò un po’ di più al bancone. Un cono di luce le colpì il profilo dritto e la bocca morbida, rivelando un viso dai tratti fini e delicati e uno sguardo deciso e profondo. Con una leggerezza delicatissima poggiò il fagotto sul legno liscio del tavolo, sotto gli occhi attenti e curiosi del farmacista; poi, scostò un lembo.

L’uomo emise un mugolio a metà tra il sorpreso e l’infastidito quando il minuto visetto di un neonato fece capolino dal mucchio di stracci che ne avvolgevano il corpicino. Aveva un colorito pallido e guance fin troppo scavate per un bambino della sua età: era evidentemente malato.

« Ha la febbre alta da quasi due settimane. Non so più cosa fare, ho provato con ogni tipo di pozione, ma… » cominciò a spiegare la giovane strega, ma fu interrotta da un brusco gesto del farmacista, che chinò il capo e si avvicinò al neonato tanto che il suo naso ne sfiorò il visetto smunto. Lo squadrò con occhio clinico solo per qualche istante, prima di parlare.

« È Bugattola. Una malattia virale rara, ma che si sta diffondendo sempre di più in questi ultimi anni. È dovuta a scarse condizioni igieniche » Gli occhi dell’uomo si assottigliarono appena, il suo sguardo divenne una lucente punta di spilla accesa dal sospetto. « L’ultimo caso che ho trattato ci ha lasciato due settimane fa» La sua voce si inasprì « Emmeline Vance, una sciocca dissidente che ha pagato con la vita i suoi ideali ».

Hermione riuscì a non trasalire solo con un grandissimo sforzo di volontà. Cacciò indietro le lacrime che le erano risalite, immediate, fino agli occhi, mascherando il dolore per quell’improvvisa e inaspettata notizia con un timore che non era del tutto infondato.

« Ce la farà, non è vero? » domandò, la gola annodata dall’ansia. Il farmacista le scoccò un’occhiata sospettosa, prima di chinare il capo e osservare con attenzione il neonato, che aveva cominciato ad emettere deboli vagiti di protesta.

« La malattia è già a uno stato avanzato. Servono immediatamente delle medicine » Puntò gli occhi, scurissimi, sulla strega. « Medicine molto costose » sottolineò con una sfumatura di crudele soddisfazione nella voce.

Hermione sostenne con fierezza il suo sguardo indagatore, glissando con dignità su quella luce malvagia che leggeva in fondo agli occhi dell’uomo: la disgustava il suo modo di guardarla, e ancor di più la repelleva quella latente compiacenza che vibrava dentro la sua voce, quella sua inquietante perfidia che lo schermava dalla compassione.

« Allora mi dia immediatamente queste medicine. Farò tutto ciò che è necessario perché Ted guarisca » disse la giovane con tono estremamente autoritario, sfidando con lo sguardo l’uomo. Lui indietreggiò appena, colpito da quell’autorevolezza, così dissonante con la figura dimessa e femminea della donna che aveva di fronte. Il suo sospetto fu scalfito dalla capacità della strega di dissimulare, da quell’orgoglio mai seppellito che era stato la più utile delle sue armi, in molte occasioni.

Il farmacista si esibì in un piccolo, breve inchino, prima di sparire oltre la porta che conduceva al magazzino.

Hermione, finalmente rimasta sola, fu libera di respirare e di concedersi un attimo di tregua dallo sguardo inquisitore dell’uomo. Si chinò sul piccolo Ted, regalandogli un bacio delicatissimo e cullandolo con la dolcezza di una donna e la reverenza di una madre. Il bimbo aveva cominciato a lamentarsi e piangere: i suoi vagiti, prima inconsistenti e deboli, si fecero via via più rumorosi. La giovane aveva il sospetto che il suo evidente nervosismo, tradito dagli scatti ansiosi delle sue braccia, contribuisse al malessere del bimbo, ma non riuscì a controllarsi né a scacciare quella sensazione che si stava aggrovigliando attorno al suo cuore.

La porta della farmacia si aprì con uno scatto improvviso. I campanelli risuonarono allegramente nell’aria, e una folata di aria putrida e fredda investì il viso della strega che, d’istinto, nascose il volto alla vista del nuovo avventore, fingendo di essere profondamente interessata a una mistura maleodorante che prometteva capelli lisci e fluenti. Considerata la sua chioma crespa e ribelle, non era una scusa poco plausibile.

« Harris! » chiamò a gran voce il nuovo giunto, con un tono evidentemente impaziente. Hermione gli lanciò un’occhiata furtiva: le dava le spalle, ma anche se non ne vedeva il viso sarebbe stato impossibile non riconoscere la chioma biondissima che ne ornava il capo. Le sfuggì un rantolo di panico, soffocato sulla fronte di Teddy con un bacio maldestro.

L’uomo si voltò appena verso di lei, scrutandola con una luce infastidita nello sguardo chiaro. Non fece in tempo a lanciarle più di uno sguardo: il farmacista riemerse dalle tenebre del suo ripostiglio con diversi flaconi tra le braccia. Quando vide il mago che attendeva davanti il bancone sussultò appena e, dopo aver riversato alla rinfusa le boccette e le ampolle appena recuperate, si avvicinò al giovane con un sorriso sornione sul volto.

« Signorino Malfoy, è sempre un piacere vederla. È venuto per il solito ordine settimanale? È tutto pronto, vado subito a prendere le sue cose » La sua voce era intrisa di un opportunismo talmente strisciante che ad Hermione risalì per la gola un conato di nausea acidulo. Non era certa se ciò fosse dovuto al nome pronunciato dal farmacista, che confermava i suoi peggiori sospetti, o alla meschina ipocrisia dimostrata dallo stesso; tutto ciò che riusciva a fare, era cullare Teddy, ma lo faceva in modo tanto nervoso da risultare maldestra.

« E tu, fai stare zitto quel marmocchio » Draco Malfoy latrò quell’avvertimento scorbutico mentre il farmacista spariva di nuovo oltre la porta del ripostiglio. Nonostante la strega fosse perfettamente cosciente della sua posizione di inferiorità, del pericolo che correva e della stupidità delle sue azioni, nonostante fosse risaputamente razionale e certamente poco impulsiva, non riuscì a trattenersi dal ribattere: l’insolenza e l’arroganza di quel ragazzino viziato erano una ragione sufficiente per rischiare.

« È solo un bambino, non lo vede? E sta male » commentò caustica, nascondendo il volto dietro l’ombra del mantello e tra le coperte che avvolgevano l’esile corpicino del bimbo. Gli scoccò solo un’occhiata breve, abbastanza torva da imprimere al suo tono e alle sue parole incisività, ma quel secondo fu sufficiente: le pupille di Malfoy si dilatarono per lo stupore.

Il farmacista tornò dopo pochi minuti, tra le braccia un grosso scrigno dall’interno del quale provenivano tintinnii dissonanti.

« Ecco, Signorino Malfoy » Mentre l’uomo poggiava la cassa sul bancone, la manica del braccio sinistro si alzò di qualche centimetro, abbastanza perché un lembo del tatuaggio nero giaietto che spiccava livido sulla pelle fosse visibile a tutti i presenti.

Hermione deglutì in silenzio, stringendo a sé il piccolo Ted con una punta di panico a destabilizzarle le mani. Mentre Malfoy controllava il contenuto dello scrigno, consultando una lista appena tirata fuori dalla tasca del lungo mantello scarlatto che contraddistingueva lui e la sua casta, il farmacista presentò alla strega il conto da pagare.

« Centodieci galeoni?! » ripeté lei, spalancando la bocca, oltraggiata da quel prezzo eccessivo. « Ma sono solo tre flaconi, com’è possibile…? »

« Questo è il prezzo! Se non può pagare, quella è la porta » ribatté caustico, indicando l’uscio con un sorriso di crudele soddisfazione sul volto.

Hermione strinse i denti, combattendo il desiderio di dare una lezione all’uomo dinnanzi a sé e imponendosi una calma che non le apparteneva. Diede una carezza leggera al piccolo Teddy, bollente di febbre, spegnendo tra le dita i suoi flebili lamenti, mentre lo cullava con delicatezza. Quando alzò lo sguardo, incrociò gli occhi grigi di Draco Malfoy fissi su di lei, una nota di incerta perplessità ad aleggiare dietro le pupille dilatate.

« Mi domando perché ragazze così giovani si ostinano a riprodursi se poi non sono nemmeno capaci di mantenere il proprio figlio » Un ghigno divertito gli arricciò le labbra sottili. Il giovane infilò nella tasca del mantello la lista che il farmacista gli aveva consegnato poco prima, poi compì un paio di passi in direzione di Hermione e lanciò un’occhiata al neonato che lei teneva tra le braccia. Istintivamente, la ragazza strinse il bambino, nascondendo il suo visetto pallido alla vista del Mangiamorte.

« Se non sono capace di mantenere mio figlio, è solo a causa dei prezzi disonesti che impongono i commercianti » Hermione era sempre stata una donna orgogliosa e caparbia. Persino in una situazione come quella, in un momento in cui sapeva di doversi nascondere, in un frangente in cui la prudenza sarebbe dovuta essere la sua arma e difesa principale – se non per sé, almeno per il piccolo Teddy – non riuscì a tenere a freno la lingua. Le parole le sfuggirono dalle labbra prima che lei potesse fermarle, con tono fermo e deciso, una punta di fierezza a colorarle la voce e un’altezzosità che non le apparteneva ad accenderle lo sguardo.

Il ghigno sul volto di Draco Malfoy si allungò: divenne qualcosa di molto simile a un sorriso, nascosto sotto una smorfia di velato disappunto.

« Come ti permetti, piccola, sudicia… ? »

« Devo andare, Harris » La rabbia del farmacista svaporò in un’accondiscendente sorriso di circostanza. Nonostante il rossore del viso rivelasse una collera non del tutto scomparsa, e lo sguardo, rivolto alla ragazza, brillasse di indignazione, il viso dell’uomo era una perfetta maschera di servilismo e compiacenza.

« Arrivederci, Signorino Malfoy. Porti i miei saluti a suo padre. E al nostro amato Signore Oscuro, naturalmente » L’inchino fin troppo profondo in cui l’uomo si profuse permise a Hermione di arricciare il naso in una smorfia di palese disgusto che non sfuggì al giovane Mangiamorte. Prima di imboccare la porta, Draco Malfoy si fermò e si voltò verso di lei. La cassa di legno che galleggiava a mezz’aria alle sua spalle urtò la sua schiena con un leggero tintinnio.

« E metta sul mio conto anche tutto ciò che serve alla signorina…? » Sfumò le ultime parole, spostando lo sguardo da un perplesso e offeso farmacista a un’incredula Hermione, che si riprese appena in tempo per replicare, con tutta la dignità e la prontezza di cui era capace.

« Edwards. Michelle Edwards. E non accetto elemosina » precisò con un’accesa sfumatura di disappunto nella voce acuta. Le guance si colorarono di un delicato rossore, senza alcun motivo apparente, quando lui, con due rapidi passi, le si avvicinò tanto da poter sentire il suo profumo forte e sprezzante, il suo respiro caldo e spezzato.

« Le Mezzosangue come te dovrebbero solo ringraziarmi quando decido di essere così generoso. Non credi, Granger? » Fu un sussurro gelido che paralizzò ogni pensiero, mormorato con voce timida e piccola, leggera, quasi quelle parole volessero imprimerle qualcosa in fondo all’anima. Fortunatamente, fu anche un bisbiglio che solo lei udì.

Mentre il farmacista guardava entrambi con espressione sospettosa, alternando lo sguardo dall’espressione decisa e vagamente divertita dell’uno, alla smorfia atterrita e incredula dell’altra, Draco Malfoy imboccò la porta e sparì tra le strade scure di Diagon Alley.

 

***

 

Quando Draco varcò la porta di casa, una cassa tintinnante ricolma di oggetti a galleggiare alle sue spalle, la donna gli lanciò un’occhiata penetrante. Il pensiero irriverente che formulò nella sua testa le disegnò sulle labbra un sorriso sarcastico, destinato a sfiorire sotto l’occhiata implacabile che il figlio le lanciò.

« Sei stato fuori tutta la notte » commentò con tono severo Narcissa, sorseggiando con raffinata pacatezza il suo thè corretto, dal quale esalava un sottile filo di fumo. I suoi occhi si socchiusero delicatamente, mentre le labbra cesellate si chiudevano, modellandosi sulla forma della ceramica. Con somma eleganza, si accomodò all’indietro, contro il morbido schienale della poltrona, mentre Draco, stranamente iracondo, sbuffava. La sua espressione era uno specchio fin troppo chiaro dei suoi sentimenti. Si aspettava di vedere un’ombra calare implacabile su quel viso perfetto, per cui fu sorpreso quando vi lesse solo una leggera indifferenza, quasi annoiata, la stessa che lei indossava da diversi mesi, ormai.

Il suo genuino stupore non ebbe modo di cristallizzarsi sul volto diafano: in quel momento la porta si spalancò con uno schiocco.

« Finalmente! » La vocetta infantile ma incredibilmente dura di sua zia trapanò il cervello di Draco. Una smorfia increspò la superficie nivea del suo volto di porcellana. « Era un compito piuttosto semplice, perché ci hai messo tanto? » latrò con una dolcezza tanto allarmante quanto inquietante.

Bellatrix divorò la stanza con falcate rapide e precise, poi si chinò verso lo scrigno e ne controllò il contenuto. Il suo sguardo brillò di sadica soddisfazione, prima di posarsi, sospettoso, sul nipote.

« Problemi? » chiese, un’occhiata carica di dubbio e inquisizione a perforare persino l’anima di Draco. La vorace sollecitudine con cui lo fissava suscitò nel giovane una crescente sensazione di claustrofobia. Un’espressione di riluttante rispetto aleggiò per un attimo sui suoi lineamenti affilati.

« No » ribatté bruscamente lui, la voce accesa da una sfumatura tagliente. Bellatrix, oltraggiata da quell’impertinenza, aveva già poggiato le lunghe dita sulla tasca che conteneva la bacchetta, quando sua sorella, con estrema pacatezza, parlò.

« Draco è stanco, Bella. Lascia che vada a riposare » esalò Narcissa, la voce accordata come un perfetto strumento musicale. Pur occupando un angolo della stanza, la sua presenza era ingombrante e stranamente prepotente.

Gli occhi neri di Bellatrix, sottili come spilli, saettarono per un attimo sullo schienale della poltrona dietro cui si nascondeva la sorella. La donna, i capelli neri a contornarle il capo come il disordinato velo di una sposa funebre, strinse le labbra, e lanciò un ultimo sguardo a Draco, prima di scomparire oltre la porta con lo scrigno sotto braccio.

Narcissa attese qualche minuto, prima di parlare.

« Moderazione. Autocontrollo » disse solamente, come se quelle uniche parole fossero una spiegazione sufficiente. Nonostante il tono definitivo e lapidario con cui le pronunciò, c’era qualcosa di caldo e rassicurante in quella voce.

Draco strinse i denti nella parodia di un sorriso, ma lo scintillio inquieto dei suoi occhi non si incrinò.

« Non posso salvarti dai tuoi pensieri, Draco. Nascondili. » La dignità dello sguardo che gli rivolse era forse l’unico motivo per cui Draco la ammirava, segretamente, così tanto.

 

***

 

Nei giorni successivi, Hermione non poté fare a meno di pensare al suo incontro con Malfoy. La febbre di Teddy stava lentamente scomparendo, lasciando spazio a un colorito roseo e sano, e questo era forse l’unico aspetto positivo della sua gita fuori dall’accampamento. Nonostante il successo della sua missione, il sorriso di Andromeda e il dolce sollievo nello sguardo di Tonks e Lupin, infatti, la giovane Grifondoro continuava a domandarsi il motivo non solo di quella gentilezza, stranamente dissonante se accostata a una persona come Draco Malfoy, ma anche – soprattutto – della grazia concessa dal Mangiamorte che era il ragazzo.

Non erano più un segreto i nomi dei seguaci di Voldemort: da quando il Signore Oscuro aveva preso il potere, il veleno dei suoi ideali si era esteso fino al Ministero, impossessandosi del cuore della maggior parte della popolazione del Mondo Magico. Per paura, ipocrisia o reale intenzione, molti si erano uniti a lui, e tutti portavano con estremo compiacimento la divisa rossa che contraddistingueva i Mangiamorte. Non c’era più vergogna, in quel Marchio Nero che un tempo veniva nascosto; non più timore nel mostrare l’appartenenza a quei ranghi che ormai erano diventati, più che l’eccezione, la regola.

E l’Ordine della Fenice, o ciò che ne rimaneva, non poteva far altro che nascondersi, nel tentativo di salvare i pochi rimasti fedeli a Silente e alla sua causa.

La guerra si protraeva da ormai due anni: quando il Preside di Hogwarts era morto, assassinato da un uomo di cui si fidava ciecamente e che invece aveva rivelato la sua vera faccia, Voldemort aveva conquistato prima la scuola, poi il Ministero, e da Londra si stava estendendo al Regno Unito intero, con l’intenzione di espandersi in Europa e poi anche oltre i confini a lui conosciuti. Non si era fermato davanti a niente, non aveva risparmiato nessuno.

Due anni. Una carneficina continua.

I Mangiamorte non facevano altro che mietere vittime, poco importava da che parte stessero o quali colpe avessero: uccidevano indistintamente, per il solo piacere di farlo. Lo facevano perché potevano farlo, perché niente e nessuno glielo impediva.

E a loro, l’Esercito di Silente, l’Ordine della Fenice; a loro – chiunque si ostinasse a portare avanti un ideale che in troppo credevano morto – non restava altro da fare che nascondersi, e agire silenziosamente quando potevano, nella speranza, un giorno, di riuscire a vincere non solo quelle piccole guerriglie che scoppiavano di tanto in tanto, come focolai di una malattia difficile da estirpare, in villaggi o città, ma soprattutto le battaglie, quelle vere, che decretavano il destino dei vincitori e dei vinti.

Hermione aveva rischiato la vita e la libertà tante volte, e altrettante aveva tentato, invano, di salvare chi poi aveva avuto un destino più ingiusto e crudele del suo. Durante quegli anni aveva imparato a convivere con il dolore, la paura, l’ansia di essere scoperti, catturati, uccisi. Aveva imparato ad accogliere la morte con lacrime di contrizione che si spegnevano insieme alle prime luci dell’alba, perché non poteva permettersi debolezze, perché i decessi e le scomparse erano compagni indesiderati ma sempre presenti.

Eppure mai, nemmeno una volta, le era capitato di incontrare un Mangiamorte che l’avesse riconosciuta senza ingaggiare uno scontro all’ultimo sangue. Soprattutto, non quel Mangiamorte.

L’aveva visto altre volte, Draco Malfoy, questo è naturale. In quanto nipote di Bellatrix, la prima e più leale servitrice di Voldemort, era presente a qualsiasi battaglia lei avesse preso parte, mai schierato in prima linea ma sempre pronto a difendere la linea nemica. In effetti, prima di quel momento non ci aveva mai fatto caso, ma non l’aveva mai visto attaccare per primo.

Ma perché l’aveva lasciata andare? Se l’aveva davvero riconosciuta, perché non l’aveva catturata, uccisa?

Hermione sapeva che il suo travestimento e la sua Trasfigurazione potevano ingannare un occhio poco attento o conosciuto, ma non chi per anni l’aveva vista camminare tra i corridoi della scuola; tuttavia, non avrebbe mai immaginato di incontrare proprio Draco Malfoy a Diagon Alley, soprattutto, non in un luogo in cui la luce avrebbe potuto scoprirla.

E invece aveva incrociato lo sguardo con uno dei Mangiamorte più pericolosi in circolazione: non perché fosse il più preparato o abile, ma perché era il più vicino a Voldemort in persona. E lei non era forse la migliore amica di Harry Potter, il Ragazzo che è Sopravvissuto e dal quale Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato è ossessionato?

Eppure, lui non aveva mosso un muscolo per nuocerle in alcun modo, né aveva rivelato la sua presenza. La sua supponenza era la stessa di sempre, i suoi occhi raccontavano la stessa superbia che per anni lei aveva osservato, a scuola, e da cui si era dovuta schermare il più delle volte. Cosa era cambiato in lui? Cosa l’aveva spinto a tacere? Era un piano? Uno schema progettato per annientarli, di cui le sfuggiva la trama precisa?

Erano domande a cui Hermione non riusciva a dare risposta. Non poteva fare a meno di pensare a quell’episodio, senza però riuscire a venirne a capo.

« Smettila di pensare alla fortuna sfacciata che hai avuto e concentrati » sibilò con una sfumatura di irritazione Ginny, da dietro il cappuccio che tentava maldestramente di celarne l’identità. Il viso smagrito era incorniciato da ciocche castane insudiciate, tra le quali spiccavano però, con insolita e orgogliosa ferocia, ciuffi scarlatti che chiedevano il riscatto del suo cognome.

« Sono concentrata » mugolò Hermione, che dopo l’ultima esperienza aveva deciso di perdere più tempo per domare la ribellione dei suoi ricci – nemmeno quando era a scuola si era impegnata tanto.

« Che ore sono? »

« Dodici e quattro » Una pausa. La maggiore lanciò un’occhiata al vicolo che aveva di fronte: in fondo, due sagome scarlatte accesero di colore l’anonimo grigio di Diagon Alley. « Andiamo. Abbiamo undici minuti »

Erano figure esili, incappucciate da stoffe scure e sdrucite, scialbe e impersonali quanto tutto ciò che le circondava, e proprio per questo poco riconoscibili. Percorsero con passi frettolosi, il capo chino e le dita serrate attorno al legno caldo della bacchetta, una via stretta e sudicia: i denti stretti per non soccombere all’orrore dei cadaveri abbandonati ai lati della strada, raggiunsero l’uscio scardinato di una casupola diroccata. Due colpi secchi alla porta, che si spalancò con un cigolio che sembrava un lamento. Con uno sguardo a metà tra l’inorridito e il rabbioso, Ginny entrò nell’abitazione mentre l’altra rimaneva fuori di guardia, ascoltando solo con un orecchio ciò che succedeva all’interno.

« Le medicine, Doris »

« Grazie. Grazie, davvero » Una voce fin troppo commossa e colma di gratitudine fino allo stremo. Troppo per non suscitare compassione, e la rabbia dell’impotenza. « Le vostre provviste. Non è molto, ma è tutto quello che ho potuto fare »

« Andrà benissimo. Meglio di radici trasfigurate, comunque » La voce di Ginny voleva essere ironica, ma conteneva un’inconfondibile nota di amarezza. « Ti ringrazio. Ora vado, prima che… »

Hermione perse il filo della conversazione quando quella parte del suo cervello ancora rimasta vigile e attenta a ciò che succedeva all’esterno registro un movimento che non avrebbe dovuto presentarsi nel suo campo visivo. Un secondo dopo, un lembo scarlatto comparve da dietro l’angolo.

La sorpresa fu tale che la ragazza non riuscì a trattenere un sussulto, ma la sua prontezza di spirito e il suo sangue freddo le permisero di pensare a un rapido Incantesimo di Disillusione Non Verbale, e un altrettanto veloce, silenzioso, avvertimento per Ginny.

Due Mangiamorte le sfilarono accanto, ignari della sua presenza, inghiottita dai mattoni sbiaditi e affumicati della casupola davanti a cui, immobile e senza fiato, sostava.

« Come hai potuto dimenticarlo? »

« Non è stata colpa mia! »

« Pregustavo già il mio vino d’ortica. Ah… »

Le parole dei due uomini si persero nella nebbiolina leggera della via che avevano imboccato. Hermione attese ancora qualche minuto, prima di richiamare Ginny con un fluido movimento del polso.

« Che è succ… dove sei?! » Gli occhi scuri dell’amica la trapassarono senza vederla, con una perplessa preoccupazione a velarle il viso, quasi irriconoscibile a causa della Trasfigurazione dietro cui era costretta a celarsi.

Hermione si lasciò scivolare di dosso l’Incantesimo di Disillusione, ma non diede tempo all’altra di meravigliarsi.

« Muoviamoci: siamo in ritardo » disse pragmatica. La prese per mano e percorse a ritroso lo stesso cammino attraversato precedentemente, gettando occhiate preoccupate all’orologio: erano passati tredici minuti, due in più del necessario, due in più del consentito. Due minuti che potevano costare loro molto, troppo.

Camminavano divorando metri, a loro volta divorate dalla fretta e dalla paura, il tempo un carnefice crudele che non risparmiava né il cuore né i pensieri. Quando intravidero il muro che le divideva dalla salvezza, quello che, una volta superate, le avrebbe condotte dentro il Paiolo Magico e quindi fuori dal raggio dell’incantesimo Anti-Smaterializzazione, imposto su Diagon Alley e un altro centinaio di luoghi magici, si permisero di rilassarsi e rallentare appena l’andatura. La fretta pungeva ad entrambe i piedi: era una colpa che non avrebbero dovuto mostrare, fin troppo rivelatrice delle loro intenzioni e del crimine che stavano commettendo.

« Ehi, voi due! Perché tanta fretta? »

Non si fermarono. Finsero di non aver sentito quella voce, che aveva punto le orecchie e perforato il cervello, trivellando la ragione e scavando baratri di paura dentro di loro. Chinarono il capo nel tentativo di nascondersi ancora di più: la speranza che quei tre Mangiamorte le lasciassero perdere rombava dentro di loro al ritmo sordo del cuore, che pompava furiosamente.

Speranza vana: la rinnovata fretta con cui si diressero verso il Paiolo Magico suscitò il sospetto di quegli uomini vestiti di rosso, che le richiamarono ancora una volta, prima di scambiarsi sguardi dubbiosa ma crudelmente soddisfatti e sguainare le bacchette.

Li separavano cinque metri, ma in linea d’aria i Mangiamorte erano più vicini di loro al Paiolo Magico: avrebbero sbarrato loro la strada, tagliando ogni via di fuga.

Hermione elaborò un piano con la lucida razionalità che l’aveva sempre contraddistinta: se era così che doveva finire, avrebbe perlomeno cercato di creare più problemi possibile, e soprattutto di salvare la sua migliore amica.

« Taglia per quel vicolo, arriva dietro il Paiolo. Io li distraggo » sussurrò rapidamente a Ginny, che le scoccò un’occhiata scandalizzata.

« Cosa? Non se ne parla, non ti lascio qui » protestò a bassa voce, rallentando il passo fino quasi a fermarsi del tutto. L’altra scoccò un’occhiata agli uomini, che squadravano lei e l’amica con sguardi avidi ed espressioni maligne, quindi riportò gli occhi in quelli della ragazza e la squadrò con serietà.

« Vai. Io ti raggiungo » mentì con ferma prontezza, anche se nel fondo del suo stomaco si agitava un mostro che si nutriva di terrore. Ma Hermione aveva imparato da tempo a mettere a tacere l’ansia e la prudenza: perché se la seconda non permette di mangiare, la prima rischia di ucciderti. O di uccidere le persone a cui vuoi bene.

« Non ci provare » Ginny digrignò i denti. Sembrava una bestia ferita, e nei suoi occhi brillava l’oltraggio subito per quella che sapeva essere un’enorme bugia.

Con la coda dell’occhio, Hermione vide che uno dei Mangiamorte si stava avvicinando. Non c’era tempo per discutere, né per litigare: la nobiltà d’animo della giovane Weasley, amicizia e lealtà che lei mai aveva messo in dubbio, la lusingavano, ma suscitavano anche angoscia e rabbia. Non doveva essere suo l’ennesimo nome aggiunto alla lista dei morti. Non poteva essere il suo.

Mentre uno degli uomini, ormai a poco meno di due metri da loro, agitava la bacchetta pronunciando, con voce ferma e decisa: « Finite Incantatem », Hermione spinse con quanta forza aveva in corpo la sua migliore amica verso il vicolo di fronte, sperando che quella spinta fosse sufficiente a farla ragionare, e fuggire. Il fascio di luce dell’incantesimo, però, colpì il corpo esile di Ginny proprio mentre l’altra la scagliava con energia il più lontano possibile. Il movimento brusco e improvviso, del tutto inaspettato, fece scivolare il cappuccio della ragazza sulle spalle. Una cascata di capelli rosso fuoco esplose nel centro della via.

« È una Weasley! » ruggì uno dei Mangiamorte, indicando con selvaggia soddisfazione quel segno di riconoscimento che era diventato una maledizione.

Ginny, riacquistato un precario equilibrio, sgranò gli occhi e lanciò uno sguardo furente all’amica: una supplica accorata e un’implorazione muta brillavano dietro le iridi scure.

« Vai! » urlò Hermione, prima di lanciare un Incantesimo Esplosivo contro gli uomini. Non ebbe tempo di controllare se l’altra avesse seguito o meno il suo consiglio: approfittò della confusione generata, della polvere fitta, dei detriti e dei calcinacci volanti, per fuggire nella direzione opposta, sperando vivamente che Ginny fosse tanto intelligente e pronta da seguire il suo consiglio e defilarsi il più in fretta possibile.

Il cuore le batteva furiosamente nel petto, dandole l’impressione di poter prendere il volo da un momento all’altro, strappando la prigione di ossa e carne che lo teneva ancorato alla vita e fuggendo a quella pressione nervosa a cui lei lo stava sottoponendo. La ragazza sentiva il moto laminare del sangue che rombava nelle orecchie. La bacchetta stretta in pugno, non riusciva a pensare a nient’altro che a quel suono: né i rapidi e precisi lampi che guizzavano accanto a lei, né le urla dietro di lei dovevano distoglierla dalla sua corsa folle.

Hermione lanciò dietro di sé una Fattura, senza fermarsi né prendere la mira: non era certa che lo scoppio che seguì fosse un buon segno, ma non si curò di voltarsi indietro per controllare. Invece, imboccò una stradina alla sua destra, nascondendosi nell’incavo creato dalle schiene di due case troppo vicine tra loro per poter essere legali. Approfittò della nebbiolina scura che avvolgeva le strade per fermarsi, riprendere fiato e controllare la situazione.

Al di là del suo nascondiglio, il clamore raggiunse livelli allarmanti, per poi scemare e infine spegnersi lentamente. I Mangiamorte che la stavano inseguendo dovevano averla superata, ma lei non osò affacciarsi per moltissimi minuti. Attese che il suo cuore riacquistasse un battito normale, prima di spingere la testa oltre la cornice del muro. La strada sembrava libera.

Senza attendere un attimo di più e senza preoccuparsi di nient’altro che non fosse la sua meta, Hermione ricominciò a correre, stavolta nella direzione opposta: la bacchetta era ancora saldamente serrata tra le sue dita e la sua mente vigile e attenta a ogni movimento o suono. Ben presto riuscì a intravedere, a pochi metri da lei, l’insegna del Paiolo Magico, che appariva e spariva, avvolta da un vapore lattiginoso. Proprio quando credeva di essere salva, però, una sagoma scarlatta sbucò da un vicolo buio.

 

***

 

Ginny avvertiva un dolore lancinante trafiggerle il petto, ma non osò fermarsi: la vita della sua migliore amica era nelle sue mani, e lei non poteva permettersi di perderla. Perciò, nonostante il fiatone e il dolore alle gambe, continuò a correre fino a quando non giunse sul limitare di un bosco. Solo allora si concesse una brevissima pausa: lanciò occhiate guardinghe e sospette intorno a sé, prima di compiere un passo deciso e sicuro e scomparire nel folto del bosco.

Ricomparve dall’altro lato della barriera eretta per proteggere l’accampamento, e senza guardarsi intorno si diresse di corsa verso una grande tenda gialla che ondeggiava al lieve vento che spirava, pochi metri più in là. Riposava all’ombra di un vecchio salice e aveva l’aria quieta e stanca di un vecchio guerriero: qualche macchia scura e diversi strappi ne denunciavano un uso prolungato ed eccessivo.

« Lupin, mamma, papà! » chiamò Ginny, ormai senza fiato. Si fermò solo quando i tre adulti si fiondarono fuori dalla tenda, direttamente su di lei, la preoccupazione a lampeggiare negli occhi di tutti.

« Che è successo? Sei ferita? »

« No. Ma Hermione… » La ragazza ansimò, in preda al panico e a un bruciore talmente intenso ai polmoni, che ogni respiro o parola era sofferenza pura. « Li ha distratti per permettermi di scappare, credo sia stata catturata » I suoi occhi scuri si puntarono dritti in quelli della madre: la paura era schermata dietro un velo di lacrime che, più che renderla facile, la facevano sembrare incredibilmente combattiva e assolutamente decisa a tornare indietro. « Dobbiamo tornare indietro, dobbiamo aiutarla, dobbiamo… »

L’espressione di sua madre, prima ancora che le parole di Lupin, le fecero morire le parole sulle labbra. La voce le mancò quando la smorfia di Molly e il sospiro di Arthur denunciarono la sua paura più profonda.

« No » Fu Lupin a dirlo, con la decisione stanca e sofferente di un padre che decide di abbandonare un figlio. Aveva il dolore negli occhi, ma sul suo viso c’era la determinazione di un leader e la risolutezza di un uomo.

Ginny spalancò lo sguardo ed emise un gemito incredulo. Se avesse avuto ancora un briciolo di forza in lei, se solo le sue gambe, il suo corpo, avessero ascoltato il comando imposto dal cervello, o anche solo il suo desiderio, si sarebbe lanciata contro l’uomo e lo avrebbe preso a pugni e a calci fino a quando non avesse acconsentito a tornare indietro, da Hermione. Se avesse avuto fiato, avrebbe gridato, strepitato tutta la sua indignazione e protestato contro quella decisione assurda, crudele, lapidaria. Il tono del suo vecchio professore di Difesa Contro le Arti Oscure era fin troppo definitivo per poter controbattere, ma lei non aveva intenzione di lasciar perdere.

« Lei l’avrebbe fatto » pronunciò lentamente, un sibilo intriso di rancore e disperazione insieme. Nel suo sguardò saettò un’ombra scura, densa d’odio ma anche di speranza.

« Si vive insieme, si muore soli » Lupin emise un sospiro stanco. « Sono le nostre regole, Ginevra. E le ha decise anche lei » mormorò, atono e monocorde. Improvvisamente, sembrava invecchiato di centinaia di anni, come se il peso di quella decisione, insieme a tutte quelle prese in precedenza, agli anni di guerra, ai dolori e alle perdite, fosse precipitato su di lui in quel preciso momento.

« Pensaci. Quanti dei nostri sono stati catturati? » Arthur intervenne con tono delicato e tenue, ma la smorfia sul suo viso lascia intravedere la sua totale contrarietà a quella decisione.

« Ma lei è diversa! » Ginny scosse il capo e fece un passo indietro, ferita.

« È una di noi, esattamente come gli altri » La voce di Molly era tanto asciutta e risolutiva da mettere un punto a quella seppur breve discussione.

« Harry non ve lo perdonerà mai » Ginny digrignò i denti come una bestia ferita, stringendo i pugni e gonfiando il petto con quanta più dignità possibile. Dietro i suoi occhi, si agitava un’ombra feroce ma incerta. Pronunciare quel nome era al tempo stesso un balsamo e un dolore: conteneva i suoi timori più crudeli e le sue speranze più dolci.

« Harry non è qui adesso » disse Lupin voltandole le spalle.

« Harry è solo un ragazzo » aggiunse nello stesso momento Arthur con un sospiro.

« Harry è la nostra unica salvezza » Con un’espressione ferita ma combattiva, Ginny si Smaterializzò con uno schiocco.

 

***

 

Hermione tentò di divincolarsi dalla presa salda dell’uomo che, tagliandole la strada proprio quando credeva di essere salva, l’aveva privata di ogni speranza di salvezza.

« Non agitarti piccola » Il rude abbraccio dell’uomo si serrò maggiormente quando lei si azzardò ad alzare un ginocchio per caricare un calcio. Il fiato le si spezzò nei polmoni e per un attimo alla ragazza mancò il respiro: la morsa in cui la stringeva era tanto forte da darle la sensazione che, da un momento all’altro, le sue costole si sarebbero rotte. « Non vorrei rovinarti » Intorno a lei si stava condensando un sottile fumo color cenere. Brandelli di pulviscolo argentati danzavano dentro la lama di luce che, dalla finestra rotta di una casa, si proiettava sulla strada, a pochi metri da lei. « Sono certo che il Signore Oscuro mi coprirà di lodi e doni per il regalo che sto per portargli » Il suo sussurro, basso e gelido, sapeva di alcool e tabacco; la sua pelle odorava di sudore e muffa. Le mani ruvide del Mangiamorte le sfiorarono in modo apparentemente casuale il seno, per poi serrarsi ancora di più attorno alla sua cassa toracica. «Non posso portargli un regalo danneggiato, non credi? ». La punta della bacchetta le sfiorò la guancia, risalì lungo gli zigomi e si fermò sulla tempia. Con la coda dell’occhio, Hermione colse il sorriso sadico dell’uomo: gli mancava un incisivo, e aveva una lunga cicatrice che gli attraversava la guancia destra.

« Stupeficium »

Hermione chiuse gli occhi, aspettando il dolore, ma il dolore non giunse mai. Al contrario, la sensazione di costrizione al petto si allentò, permettendo alla paura di sgusciare fuori da lei con un’unica, lenta espirazione. Quando, lentamente e con perplessa incredulità, la ragazza riaprì le palpebre, il Mangiamorte giaceva ai suoi piedi, Schiantato.

La giovane strega si guardò intorno, spaesata, alla ricerca del suo salvatore. Si aspettava di vedere capelli rossi, da qualche parte, come un unico punto di luce e colore in quel buio sporco che era Diagon Alley; forse, persino due dolci occhi verdi, un sorriso di incoraggiamento al di sotto di una cicatrice che era la fonte di tutti i loro problemi. Invece, tutto ciò che vide fu la foschia opaca di due iridi di ghiaccio che per un attimo, solo un istante infinitesimale, sembrarono risolvere il proprio mistero, stemperando la freddezza e l’orgoglio dentro la speranza di uno sguardo.

Hermione Granger era una strega potente, ma furba. Conosceva i suoi limiti e, soprattutto, era capace di valutare con freddezza le situazioni. Non rimase immobile a domandarsi cosa quegli occhi grigi volessero suggerirle, né sapeva che quell’unico momento poteva rivelarsi catartico, in un certo qual modo, risolutore, per un futuro prossimo che lei non poteva ancora vedere.

« Dover »

Bastò una voce lontana, l’eco di passi affrettati e voraci in lontananza.

Gli voltò le spalle proprio mentre, lo sguardo ancora fisso su di lei, Malfoy si puntava la bacchetta alla tempia. Il tonfo che seguì fu coperto dal sonoro schiocco della sua Smaterializzazione.

 

 

 

 

 

   
 
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