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Autore: B Rabbit    26/07/2013    3 recensioni
Tratto dalla one-shot:
Tre giorni.
Tre giorni che era rinchiuso in quella stanza.
Tre giorni che usciva da quella porta solo quando il padre voleva.
Tre giorni che non vedeva più lei.
[…]
Era lì, la sua Rin era lì, dietro quel muro e lui la percepiva.
Si avvicinò lentamente con le stesse emozioni nel cuore di un profugo che raggiungeva il luogo tanto agognato; sfiorò con le dita la parete, immaginando la mano della sorella in quel punto, e allora accarezzò la vernice, come se volesse trasmettere il tocco sulla pelle chiara di lei.
«Len…»
Sorrise.
Mi ha sentito…
«Sono qui, Rin» posò il palmo sulla superficie tinta d’azzurro e immaginò il viso della ragazza, le sue labbra morbide arcuarsi tenuamente.
«Sono qui» ripeté, sperando di rassicurarla.
«Sei qui…» rispose lei con la voce incrinata dalle lacrime prossime a precipitare.
---
Le presi la mano e ci incamminammo velocemente verso la stazione ferroviaria, pronti a prendere il primo treno disponibile.
---
«Scusami, Len, per colpa mia…»
[…]
«Scema» le sussurrò tenuamente, stringendola a sé. «La tua unica colpa è quella di rendermi felice amandomi»
[Incesto – il rating giallo è per quello – quindi MANEGGIARE CON CURA.]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Len Kagamine, Nuovo personaggio, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: AU | Avvertimenti: Incest
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Di natura cristallina sono composte
le lacrime di cielo


E in esse la verità confina

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Nonostante la voce della sorella lo chiamasse da qualche secondo con tono falsamente dolce, Len non alzò lo sguardo dal libro, continuando a leggere il paragrafo di biologia con la speranza che Rin, notando l’attenzione dimostrata per il libro scolastico e la presenza nelle orecchie delle cuffiette bianche a separarlo dal mondo, se ne andasse insieme alla sua offerta.
E mentre il miraggio desiderato si disfaceva, lei insistette con voce supplichevole, adagiandosi sul lato opposto del tavolo e scrutando gli occhi socchiusi di Len che, sospirando sconfitto, alzò controvoglia il capo e fissò la bionda.
«Dimmi»
La gemella sorrise raggiante e si levò dal tavolo, mostrando il suo libro di matematica. Le congetture del ragazzo ebbero conferma.
«No» rispose secco, ritornando alla glicolisi che amorevolmente lo attendeva.
«E dai!» insistette Rin, tirando appena un ciuffetto ribelle del fratello. «Cinque minuti, ti prometto che gli esercizi li farò io, sola»
Il diciassettenne fissò gli occhi luminosi e azzurri che lo attraversavano imploranti. Sospirò di nuovo.
«E va bene» concesse alla fine, invitando la sorella sulla sedia vicina con la mano. «Però questa domenica rifarai il mio letto»
«Accordato!»
La ragazza si sedette vicino a lui, e cingendogli il collo, lo baciò appena sulle labbra.


«Grazie»



♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦





Nostra madre ebbe me e Rin in età giovane, durante l’ultimo anno di università, e appena quell’uomo seppe della sua gravidanza se ne andò via, lasciandola sola con quel frutto, con noi che le rovinammo la vita.
Nonostante questo, lei non lo ha mai odiato, ci ripeteva sempre con un sorriso che lo amava.
Sebbene le difficoltà e l’ira dei suoi genitori – passeggera, perché fin da subito l’hanno incoraggiata senza mettere in discussione le sue scelte – si è laureata con il massimo dei voti, e dopo mesi passati alla ricerca di un lavoro ci ebbe durante una notte di neve.
“Siete e sarete il mio più bel regalo di Natale”, lo diceva ogni volta con un abbraccio, quando arrivava il 27 Dicembre.

Passate alcune settimane, ci trasferimmo nella cittadina dove abitavano i nonni, e dopo pochi anni, nostra madre incontrò un uomo, un banchiere della sua stessa età.
Al nostro ottavo compleanno a me e a Rin ci fu promesso un padre affettuoso. Un padre vero.
Si sposarono a maggio con il sole che augurava loro una vita serena.

Però, dopo sei anni e poco più, mia madre morì con un sorriso; un tumore ce l’aveva rubata.
Nostro padre soffrì molto, per mesi ebbe gli occhi arrossati.
Continuò a lavorare, a volte fino a tardi, forse per distrarsi, ma sapevamo che, appena ci guardava negli occhi, vedeva nostra madre, e allora tratteneva con forza le lacrime.

I nostri problemi ebbero luogo a scuola, ci chiamavano
“figli della sfortuna” perché avevamo fatto scappare “nostro padre” e ucciso nostra madre.
Non dicemmo nulla a nessuno, neanche ai nonni.

Ho sempre voluto proteggere Rin da ogni pericolo, fin da quando eravamo piccoli, e una volta picchiai un mio compagno di classe perché la spinse a terra, mentre lei piangeva ancora a causa di quell’affermazione, di quella frase dannatamente dolorosa e, forse, vera.

Fu in uno di quei giorni che la baciai per la prima volta, non in veste di fratello, ma come un ragazzo qualunque.

Per tre anni andammo avanti così, nascondendo questo legame, questo amore pericoloso.
Nostro padre era sempre impegnato con il lavoro, rientrava spesso a tarda notte. Non fu arduo nascondergli questo.

Però il dolore scosse nuovamente le nostre vite, e ad aprile fummo scoperti.
Rinchiusi come bestie.



♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦





Fissò la porta davanti a sé, rimanendo invisibilmente legato alla parete della propria stanza, quasi non avesse il coraggio di allontanarsi da essa, come se quel muro fosse in realtà un pensiero o una speranza a cui aggrapparsi disperatamente.
I raggi evanescenti della luna piena filtravano dalle tendine semplici della finestra, colorando la stanza di un azzurro lievemente scuro, regalandole un eccentrico senso di astrazione.
Era solo, inglobato in una bolla di cristallo traboccante di asfissiante silenzio, in cui proliferanti pensieri negativi gli tormentavano la mente, fino a lasciare nel cuore un senso di vuoto come scia.
Una piccola lanterna bianca tempestata da fori a forma di stella era posta vicino alla porta, bruciando la moquette blu con un cerchio di luce dorata e allungando gli oggetti della stanza, impressionando la loro forma estesa sulle pareti.
Piegò la gamba sinistra lasciando la destra distesa, e scrutò il soffitto disseminato di stelle nere, volate su quel cielo finto dalle decorazioni infantili del piccolo lume.
Impresse nella propria visuale quella strana e falsa aurora zaffirina creata dalla luce della notte.

Tre giorni.
Tre giorni che era rinchiuso in quella stanza.
Tre giorni che usciva da quella porta solo quando il padre voleva.
Tre giorni che non vedeva più lei.
L’astinenza dal suo calore si sentì di nuovo, bruciandogli piano la ragione, come farebbe una qualsiasi lingua di fiamma con la candela che le permetteva di vivere.
Coprì gli occhi con l’incavo del gomito e deglutì, scacciando faticosamente ogni pazzo pensiero.
Il bruciore assillante si affievolì, lenito però da un senso, una percezione che avanzava sinuosa nella sua mente, scivolando come pioggia fino al suo cuore, dove mutò in debole tepore.
Rin…?
Guardò con gli occhi sgranati la parete alla sua sinistra e si alzò, vacillando appena.
Era lì, la sua Rin era lì, dietro quel muro e lui la percepiva.
Si avvicinò lentamente con le stesse emozioni nel cuore di un profugo che raggiungeva il luogo tanto agognato. Sfiorò con le dita la parete, immaginando la mano della sorella in quel punto, e allora accarezzò la vernice, come se volesse trasmettere il tocco sulla pelle chiara di lei.
«Len…»
Sorrise.
Mi ha sentito…
«Sono qui, Rin» posò il palmo sulla superficie tinta d’azzurro e immaginò il viso della ragazza, le sue labbra morbide arcuarsi tenuamente.
«Sono qui» ripeté, sperando di rassicurarla.
«Sei qui…» rispose lei con la voce incrinata dalle lacrime prossime a precipitare.
Il diciassette si morse il labbro, percependo il cuore affogare nel liquido nero e vischioso della loro tristezza. Posò la fronte sulla parete e socchiuse gli occhi blu.
«Rin…» sussurrò, e appena arrivarono i singhiozzi strinse forte le palpebre.
«Rin» la chiamò ancora, la voce che somigliava più a un lamento.
Cercò di calmarsi, di ragionare, di trovare qualcosa che la rasserenasse: e come una frusta, la soluzione arrivò con uno schiocco.



«Len…?»
Non c’era più. Non percepiva più la sua ombra sul muro.
Non c’era più.
Schiuse le labbra per chiamarlo di nuovo, ma una voce smorzata dalla distanza la zittì.
Sgranò gli occhi.
Sta… cantando
La canzone che avevano scritto insieme durante quei pomeriggi grigi di gennaio, quando la neve era troppa e rischiavano seriamente di affondare.
Quella canzone triste che parlava di separazione, della paura per un futuro che ora anche loro provavano e che, sì, presto si sarebbe rivolta verso il presente.
Quella canzone resa ancor più malinconica dalla voce di Len, che sicuramente impediva all’angoscia di mutar forma, di divenire lacrime solo per lei, per non farla sprofondare ancora di più nel dolore.
Soppresse un singhiozzo e si asciugò frettolosamente le lacrime.
Rimase in silenzio, mentre quella melodia le portava i sentimenti del fratello, del suo amato.
«”Ci rivedremo quando il mondo ci accetterà”» finì, anticipandolo sul testo.



Sorrise, riavvicinandosi alla parete. «Ci rivedremo quando il mondo ci accetterà… fino ad allora, spererò»
«Len…»
Posò il palmo sulla vernice dove sentiva la mano della sorella.
«Len…» la voce era un sussurro, già ovattato a causa della parete. «Len… dobbiamo scappare»
Il biondo guardò interrogativo il muro, come se su di esso fosse proiettata la figura esile della bionda.
«Non dire scemenze» disse preoccupato.
«Dobbiamo fuggire, Len»
Corrucciò la fronte.
«Andrà tutto bene, papà quel giorno era confuso e presto capirà di aver sbagliato. Ci libererà»
Posò la fronte sulla parete e guardò in basso.
«No, Len, dobbiamo andare via, ti prego»
Deglutì.
«…Perché, Rin?»
Aspettò con angoscia la voce della ragazza, mentre il tempo giocava a cristallizzarsi come acqua.


«… Perché noi ——— »





Sgranò gli occhi.
«Aspe- … Rin…!»



E la sentenza arrivò brutale





♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦





Preparammo tutto in fretta.
In ciascuna delle due borse mettemmo dei ricambi d’abito e oggetti utili che ci sarebbero serviti per la fuga; dovevamo prendere solo lo stretto necessario in modo da poter viaggiare leggeri.
Mi tremavano le mani, quella notte.

Decidemmo di lasciare i cellulari sui rispettivi letti, per rendere difficile il futuro e probabile rintraccio; non avvisammo nessuno, neanche gli amici più importanti.
Non riuscii a separarmi, però, da
quel ciondolo, la piccola Chiave di Fa in oro che mi regalò mia madre al nostro terzo compleanno.
Anche Rin la prese, la sua Chiave di Violino in argento.

Arrivato l’inevitabile momento, gettai prima la borsa fuori dalla finestra e guardai un po’ titubante il giardino che circondava la casa.
Per fortuna il muro esterno aveva delle scalette bianche dove le rose rampicanti crescevano, quindi non dovevo seguire l’esempio del mio bagaglio.
Dopo aver toccato terra, guardai con ansia la
sua finestra: e quando la vidi affacciarsi, un sorriso mesto ad arricciarle le labbra, il futuro mi parve meno crudele, e il peso sulle spalle evaporò alla vista di quegli occhi arrossati dal pianto.
Afferrai prontamente la borsa che mi lanciò, e appena toccò il terzultimo piolo, la presi in braccio e la strinsi a me, accarezzandole i capelli.
Le dissi che sarebbe andato tutto bene, e che le uniche ferite che avrebbe riportato sarebbero state quei graffietti che aveva alle braccia e alle gambe.
Le presi la mano e ci incamminammo velocemente verso la stazione ferroviaria, pronti a prendere il primo treno disponibile.

Abitavamo in una cittadina tranquilla, piccola e semplice, e con i nostri due anni di stipendi lavorativi più gli extra dei periodi estivi, allontanarsi sarebbe stato meno difficile.




♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦




Guardava con occhi stanchi l’orizzonte che, nonostante la velocità e il movimento del treno, sembrava non cambiare.
L’alba sarebbe apparsa nei prossimi attimi, smorzando la monotonia scura del cielo con le sue sfumature rosate.
Len le accarezzò il dorso della mano con il pollice, lentamente, sorridendo nel sentire la stretta delle sue dita sottili stringersi calorosamente.
«Tra un po’ dovremmo arrivare» le disse con voce dolce, rivolgendole lo sguardo. «Quando scenderemo andremo a mangiare qualcosa»
La ragazza annuì docilmente, posando la guancia sulla sua spalla sinistra.
Il biondo la guardò e le scostò con la mano destra una piccola ciocca sfuggita dall’elastico.
«Tranquilla» posò il mento sul suo capo, continuando a carezzarle la mano. «Andrà tutto bene»
La giovane voltò lentamente la testa, nascondendo il viso nell’incavo tra il collo e la spalla del fratello.
«Scusami Len, per colpa mia…»
Il diciassettenne sorrise amareggiato.
«Scema» le sussurrò tenuamente, stringendola a sé. «La tua unica colpa è quella di rendermi felice amandomi»
Rin si abbandonò sul petto dell’altro e strinse tra le mani la stoffa bianca della sua maglietta. «Scusami…»
«Sssh» le carezzò lentamente i capelli per tutta la loro lunghezza.
«Andrà tutto bene»



♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦




Quando scendemmo dal treno il sole ci salutò raggiante, finalmente uscito dai meandri dell’orizzonte.
Prese le borse, andammo al bar della stazione, perennemente aperto per i viaggiatori e i fuggiaschi come noi.
Volevo che Rin riposasse prima del prossimo treno, era pallida e le mani le tremavano, ma appena ci inoltrammo nella città alla ricerca di un rifugio, un uomo anziano ci guardò meravigliato, e ci disse che assomigliavamo incredibilmente ad una ragazza, una sua vecchia studentessa, che lì affrontò la vita universitaria.

Fummo costretti a scappare di nuovo.

Guardammo il tabellone dei treni e decidemmo di prendere il più economico tra i tragitti lunghi.
La feci sedere al posto vicino la finestra e l’avvolsi nella coperta trovata in uno scomparto.
La strinsi a me e le dissi di dormire, ma lei si rifiutò, e mi rispose che voleva rimanere sveglia insieme a me.
Non la contraddissi.



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«Va tutto bene?»
La sorella annuì e accettò la sua mano, scendendo piano l’ultimo gradino del vagone. «Mi gira solo un po’ la testa» rispose, e alzando il viso gli sorrise serenamente. «E tu?» Il biondo le baciò la fronte, carezzandole con i polpastrelli la mano mentre la lasciava scivolare via.
«Non sono deboluccio come qualcuno, signorinella»
Len rise alla risposta – pizzico – che l’altra gli diede.
«Scemo» e incrociò le braccia sottili, mettendo su un adorabile broncio.
Il fratello rise ancora e prese le borse che aveva abbandonato precedentemente sul mattonato, intimando, con un cenno del capo, la diciassettenne ad incamminarsi insieme a lui verso l’uscita dei binari.
«Dici che papà ci troverà?» chiese, cercando di afferrare dalla mano del biondo la propria borsa.
«Sono quattro giorni che prendiamo treni durante le ore deserte e che ci nascondiamo di giorno» rispose, sopprimendo ogni tentativo dell’altra. «Ci stiamo allontanando velocemente» «Secondo te sui giornali si parla della nostra fuga?»
Il giovane rimase in silenzio, salendo i gradini che allacciavano il passaggio sotterraneo con l’esterno.
«Non lo so» ammise, guardando attentamente la strada per poter attraversare. «Ma se è così, spero che non ci siano le nostre foto»



♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦




Affittammo una stanza singola in un hotel non troppo distante dalla stazione, in modo da poter esporci in minor tempo la notte.
Dopo aver lasciato le borse, Rin si diresse verso il bagno per farsi una doccia.
Io mi sedetti sul letto e tastai il materasso. Era davvero morbido.
Quando entrai anch’io in bagno, la trovai immersa nella vasca che mi indicava divertita la schiuma.
La raggiunsi e giocammo con quella spuma artificiale, come facevamo negli anni d’infanzia.
E quando la abbracciai a fine battaglia, Rin mi disse che dovevamo immediatamente partire.
Aveva ancora paura.

Viaggiammo con i treni per altri due giorni.
In un’edicola controllai velocemente i giornali, ignorando lo sguardo truce del venditore.
Soltanto su un quotidiano appariva la nostra scomparsa, raccontata in un trafiletto di fine pagina, appena sette righe.
C’erano scritti unicamente l’ubicazione della nostra città e l’età.
Niente nomi, niente descrizione.
Era perfetto.

Abbandonammo i treni per passare agli autobus.
In un paesino minuscolo nessuno ci avrebbe mai riconosciuti nei due ragazzi scappati di casa.
Prendemmo una decina di mezzi e alla fine trovammo il posto perfetto.
Un’insieme di case situate a valle di una delle tante colline, circondate da un bosco di castagni.
Mi sentì sollevato.

Forse eravamo giunti alla fine del viaggio.



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Mentre aspettava la chiave della loro nuova stanza dal vecchio gestore, il giovane diede un fugace sguardo a Rin, seduta sul divano della modesta hall intenta ad accarezzare un cucciolo di Cocker Spaniel.
Erano passati quindici giorni da quella notte, trascorsi nei treni, bus e camere estranee.
Osservò con un sorriso la sorella che giocava spensierata con quel cagnolino dagli occhioni grandi, marroni e dolci.
«Ecco qui» lo risvegliò l’anziano, rivolgendogli un sorriso, nato dalla sua indole gentile e non dal lavoro.
Il ragazzo prese la chiave argentata e ringraziò cordialmente il signore perennemente sorridente.
«Sei triste?»
Len si meravigliò a quella domanda e chiese il perché.
«Beh, il mio Timothy ha conquistato la tua ragazza»
Il giovane sgranò gli occhi, e percepì chiaramente le guance bruciare.
L’anziano rise e aggirò il bancone in ciliegio, accostandosi al nuovo arrivato.
«Tranquillo, non te la ruba mica»
Il biondo borbottò qualcosa, massaggiandosi imbarazzato la nuca con la mano sinistra. L’uomo lo guardò per qualche istante, per poi osservare la scena davanti a loro.
«Volete rimanere qui?» chiese infine, alzando la mano in risposta al saluto fattogli dalla ragazza.
«A vivere in questo posto, intendo»
Len sospirò, socchiudendo gli occhi.
«Vorremmo…»
L’uomo sorrise e posò la mano sulla spalla destra del diciannovenne.
«Allora siete il benvenuti» disse, scrutando l’espressione stanca ma serena del giovane.
«Grazie…» rispose alla fine.
L’animale tornò scodinzolante verso il padrone, salutando il nuovo arrivato con un abbaio.
«Però non potete rimanere per sempre in questa pensione…» ammise il vecchio, carezzando la testolina scura del cucciolo che gli era saltato sul ginocchio.
Rin si alzò dal divano dorato e si avvicinò a loro, accostandosi al fratello.
«Beh… una casa al momento è troppo, per noi…» ribatté afflitto il biondo.
Il proprietario si puntellò il mento con l’indice, riflettendo sulla situazione.
E dopo alcuni attimi, i suoi occhi verdi si illuminarono.
«Forse ho trovato una soluzione» annunciò eccitato.
La ragazza rivolse un sguardo interrogativo al gemello, che rispose sollevando le spalle.
«Dobbiamo andare da Ada, una mia vecchia conoscenza»
L’anziano afferrò il suo cappello, un modello alla lobbia con il nastro nero e la stoffa color terra, e ordinò al fedele collega di raggiungere la signora e annunciare così il loro arrivo.
Rin uscì subito dopo con l’intenzione di seguire Timothy.
«Aspetti!»
L’uomo si voltò, guardando il ragazzo.
«Dimmi» gli disse con un sorriso gentile.
Len sospirò, volgendo lo sguardo verso il bancone.
«Perché… tutto questo? Per degli estranei, per dei ragazzi…»
Il signore sorrise ancora, addolcendo l’espressione e socchiudendo gli occhi.
«Vedi, ormai in questo paese ci sono solo anziani, i giovani se ne sono andati alla ricerca di opportunità»
L’anziano zittì il diciassettenne con un gesto della mano.
«Quando vi ho visti, ho notato l’inquietudine nei vostri occhi, non la solita spensieratezza giovanile. Sei arrivato fin qui per proteggere lei, vero?»
Len annuì docilmente con un cenno del capo.
«Vi aiuterò, noi uomini siamo fatti così, e credo che Ada farà lo stesso»
Il ragazzo si morse il labbro inferiore e soppresse le lacrime, suscitate da un senso di commuovente tepore che gli avvolse il petto.
«Grazie, nonno…» sgranò gli occhi per l’appellativo detto, e cercò subito di scusarsi, ma l’uomo lo calmò con un sorriso.
«Tranquillo, nipote. Mi chiamo Akito»
Il biondo annuì, leggermente imbarazzato.
«Len, e lei Rin»
Il signore sorrise e gli cinse le spalle con un braccio, intimandolo a raggiungere la compagna.
«Ah» il biondo si fermò vicino l’uscita, posando la mano sulla cornice del battente e guardando curioso l’anziano.
«Come ha fatto a capire che…»
L’uomo rise.
«Dalla tua espressione ebete»

…Cavolo



«Come mai tutto questo tempo? Il negozio è alla fine della stessa strada» chiese la diciassettenne.
Len si massaggiò il collo, scusandosi.
«Beh, io e il… n-nonno Akito…»
«Scusami bambina, non trovavo più le chiavi della pensione. Sai, la vecchiaia» rispose ammiccando, ottenendo una flebile risata da Rin.
Il giovane alzò lo sguardo ed osservò l’insegna nera del negozio, incisa da un’elegante scrittura smorta, il candore del bianco corrotto dal tempo e dalle intemperie.
«Antiquariato?»
L’anziano rise.
«Si, ad Ada sono sempre piaciute queste cose. Ma non pensate in grande, è una botteghina»
I gemelli annuirono ed entrarono subito dopo l’uomo, seguiti da Timothy.
«Buongiorno donzella!» proruppe Akito.
I ragazzi sgranarono gli occhi, osservando increduli l’interno.
Lampadari in cristallo o dalle sottili e magnifiche strutture in metallo nero pendevano imponenti dal soffitto, tintinnando appena ad ogni soffio d’aria.
Quadri e dipinti vari erano impiccati sulle pareti chiare del negozio, i quali sulla tela custodivano l’immagine di nature rigogliose o paesaggi desolati in cui pennellate e colori accesi o freddi ospitavano le emozioni impresse dal pittore, pronte a destarsi e a far emozionare gli occhi che si sarebbero posati su quel frammento d’anima.
Vicino ai muri riposavano mobili e cassepanche dalla fattura pregiata, che rilucevano appena quando i raggi del giorno si tuffavano in quel mare scuro di legno.
Su delle mensole brillavano piccoli oggetti e graziose statuette in vetro, mentre sul tavolino al centro della stanza risiedeva un’antica macchina da scrivere, una Smith Premier, affiancata da alcuni fogli immacolati in disordine.
«Akito, sei tu?» una voce risuonò dal piano superiore.
«Si, Ada!»
Nascosto dietro la libreria c’era un piccolo spazio buio da cui fioriva una vecchia scala a chiocciola dalla ringhiera nera.
Accompagnata dagli scricchiolii dei gradini, una donna scese lentamente la scalinata, salutando con la mano l’anziano.
«Oh, stavi sistemando il piano superiore?» domandò l’amico, notando lo straccio impolverato e la crocchia bianca un po' sfatta della signora.
«Si, è un tale disastro…»
Ada posò il panno grigio sul bancone ed osservò incuriosita i giovani, subito presentati dal proprietario della pensione.
«Dei novelli sposini alla ricerca di tranquillità?»
I due fratelli sbarrarono gli occhi e l’anziana rise, deliziata dal viso avvampato di Rin e dal balbettio sconnesso di Len.
«Vorrebbero rimanere qui» riferì Akito, sopprimendo con dei colpetti di tosse il suo sorriso divertito.
La donna annuì, intuendo la visita e l’eventuale richiesta del conoscente.
«Bene» disse, avvicinandosi ad una credenza e aprendo un cassetto. «E’ lontana da qui, circa due ore di camminata, ma se volete sarà tutta vostra»
I due giovani fecero per domandare e chiedere spiegazioni, ma la donna, alzando la mano pallina e magra, mostrò vittoriosa ai gemelli un mazzetto di chiavi argentate.
«La casa è disabitata da una decina d’anni, ma ogni tanto vado a ripulirla»
Si avvicinò a Len e gli tese il mazzo, sorridendo mestamente.
«Era di mio figlio»
Il biondo annuì e strinse forte le chiavi nel palmo destro.
«Grazie, grazie davvero»
Ada scosse stancamente il capo e volse lo sguardo verso la ragazza.
«Sicuramente sarete appena arrivati, e tu sei stanca» disse dolcemente a Rin, carezzandole la guancia. «Dovresti riposare, piccina mia»
«Ha ragione» intervenne Akito, indicando la porta con un cenno del capo. «La camera vi aspetta con trepidazione»
«La casa la vedrete domani» aggiunse l’amante di antiquariato.
I diciassettenni si guardarono e sorrisero, felici.
Len le accarezzò la mano con le dita, Rin gliele strinse.
«Si»
E insieme, si incamminarono verso quella nuova esistenza.



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Lo stabile – un vecchio casale disabitato – si trovava sul colle dove, a valle, ospitava il paese.
Era un posto tranquillo, circondato dal bosco e dalla rara tranquillità che offriva unicamente la natura.
Come aveva affermato la nonna, ricoprimmo la distanza in circa due ore di cammino.
Riuscii a convincere Rin a rimanere alla pensione solo grazie all’intervento del nonno che, pur di dissuaderla, ammise di aver bisogno di aiuto alla locanda.
In tre giorni di duro lavoro, l’abitazione riacquistò il suo iniziale splendore.
Per fortuna i mobili non furono portati via dal vecchio inquilino, il figlio cresciuto nell’antiquariato, e non mostravano segni di eventuale passaggio di tarli.
C’era una camera matrimoniale, e nonostante le due brande nelle altre due stanze, ero sicuro che Rin volesse condividere quella camera con me, e quell’idea un po’ mi imbarazzava.

Quando Rin entrò per la prima volta nella casa, pianse, incredula del traguardo raggiunto insieme.
Non dimenticherò mai le sue lacrime cristalline.

I primi giorni li trascorremmo all’avventura di quel luogo, sprofondando mano nella mano nella foresta priva di pericoli.
Il nonno Akito non volle i soldi per il periodo di pernottamento, dicendoci che mai avrebbe fatto pagare alla
famiglia un piacere offerto col cuore.
La nonna Ada mi donò un impiego, e dopo neanche cinque giorni dal nostro incontro divenni il suo assistente.
Chiesi a Rin di non lavorare. Era mio compito, del resto.
Come al solito fu testarda, ma alla fine acconsentì, prenotando però tutti i compiti legati alla nuova abitazione.
Accettai, ma a volte, di soppiatto, aiutavo anche io.

I soldi restanti del viaggio li conservammo per il futuro all’interno di un cofanetto in legno, trovato nell’armadio della camera matrimoniale.

I giorni,
le settimane trascorrevano placide come lo scendere di un ruscello.



♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦




I fasci di luce mattutina si insinuavano dolcemente fra le verdi fronte dei castagni, tappezzando l’erba con un gioco di ombre e macchie di sole, che facevano brillare come perle preziose le ultime lacrime di rugiada formatesi con la notte.
Un leggere vento smuoveva il prato e le foglie dei fitti cespugli, espandendo nell’aria l’odore di erba.
Rin si avvicinò – i piedi nudi e i sandali bianchi nella mano sinistra – a un possente albero in cerca di asilo e freschezza, e posò la destra sulla corteccia liscia.
«E’ meraviglioso qui, vero?»
Len camminò lentamente verso la sorella, le scarpe tenute strette fra le dita.
«Si»
SI sedette vicino a lei, rilassandosi contro il tronco dal colore bruno chiaro tendente al grigio.
«L’aria è davvero fresca»
La ragazza annuì e alzò gli occhi blu, ma li socchiuse subito a causa dei coni dorati che brillavano dai vuoti delle fronde e che la abbagliavano.
Passeggiò intorno al fusto dell’albero, segnandone la circonferenza con le dita sulla corteccia, mentre il vestito bianco ondeggiava tenuamente ai suoi passi delicati e alla flebile brezza; si avvicinò ad un ramo basso ed osservò le foglie lunghe.
«Che fai?» chiese il biondo, seguendo i movimenti della giovine con lo sguardo. «Ti interessi di botanica?»
La ragazza rise cristallina – il tuo polmoni si stringono, Len, e il tuo cuore si dimentica di combattere per degli attimi. Non ti sei ancora abituato a quella risata che ti confonde? – e il fratello sorrise dolcemente, confortato da quella voce intrisa di spensierata gioia.
Si alzò da quella macchia d’erba e d’ombra e raggiunse la fanciulla, fermandosi dietro di lei e posando la mano destra sulla sua omonima che carezzava curiosa le foglie.
Rin socchiuse gli occhi e si lasciò sorreggere dal corpo dell’altro, percependo vibrare sulla propria schiena la tenue eco del suo cuore.
Il giovane le prese entrambe le mani e le portò vicino ai fianchi, distendendo le braccia; le diede un bacio sul capo, i fili dorati che gli solleticavano le labbra, ed alzò lo sguardo, ammirando le foglie verdi illuminate dal sole.
«Sei felice» sussurrò lei, sorridendo tenuamente. «Il tuo cuore è tranquillo, non sento tristezza»
Len le accarezzò la tempia con la punta del naso, ed inspirò l’odore delicato sprigionato dalla sua pelle.
«Anche nel tuo non c’è traccia di amarezza» e lasciandole le mani, indietreggiò appena in modo che la sorella potesse voltarsi.
Il biondo arretrò ancora di qualche passo, sorridente, e, senza allontanare gli occhi dalle iridi azzurrine dell’altra, fece un piccolo inchino, tendendo il palmo destro verso di lei.
«Mi concedereste questo ballo, madamigella?»
La giovane sbatté le ciglia, stupita dalla proposta; allungò la mano verso la sua e la posò su di essa.
«Non c’è neanche la musica»
Il gemello le strinse delicatamente la mano e si avvicinò alla sorella. «Non per molto»
E avvolgendole la vita con il braccio sinistro, il ragazzo improvvisò un motivo calmo ma privo di tristezza o malinconia.
Incominciarono a volteggiare nella piccola radura circondata dai castagni, l’abito bianco della diciassettenne che piroettava insieme a loro.
La bionda rise e si strinse di più al fratello, che aprì la bocca per rinvigorire le note e accelerò leggermente la semplice melodia.
Rin nascose il viso nell’incavo del suo collo e percepì la pelle del giovane tremare e contrarsi alla voce che mutava, seguendo uno spartito ideato sul momento.
«Sei uno stupido, Len!» e lui rispose con una risata che scosse nuovamente la sua gola, e anche lei rise, sollevando appena il viso e guardando il bosco che roteava insieme a loro.
Il gemello le strinse saldamente la vita e, sorridendo maliziosamente – «…Len? Cosa vuoi-» – , gridò divertito “Casqué!” e si abbandonò all’indietro, trascinando l’altra con sé.
Atterrarono fra i fili verdi con un leggero tonfo, accompagnato dalla voce acuta della compagna.
«Ma… ma Len
Il ragazzo rise, lasciando scivolare via il braccio sul terreno. «Cosa?»
«Scemo»
La gemella tirò fuori la lingua e mugugnò, provocando l’ilarità dell’altro.
«Non te lo aspettavi?»
«Da te ci si può aspettare di tutto» rispose agitando la chioma dorata, sollevandosi appena dal corpo del biondo. «Con quella testa che ti ritrovi»
Il diciassettenne fletté la gamba sinistra, sfiorandole involontariamente il fianco con il ginocchio, e le posò la mano sulla guancia.
«Allora anche tu hai la stessa testa, siamo gemelli no?»
Rin rise – «Scemo» – e lo guardò, il sorriso sempre ad arricciarle le labbra di ciliegia .
«Mi dai troppe volte dello stupido» la mano scivolò via dalla sua guancia e si tuffò nel mare dei suoi capelli.
Lei abbassò il capo fino a sfiorargli il naso col proprio e soffiò sulle sue labbra appena aperte; socchiuse le palpebre, celando le iridi dietro le lunghe ciglia.
Il ragazzo sollevò il capo dall’erba e morse la bocca della sorella, facendola ridere flebilmente; la guidò verso di lui, congiungendo i loro tiepidi petti e i cuori palpitanti.
Si guardarono, gli occhi lucidi.
Il giovane le prese il viso tra le mani e avvicinò il volto al suo; la chiamò, la voce bassa e fragile, appena sussurrata, e la baciò fugacemente per poi guardarla negli occhi.
Aveva paura di infastidirla.
Rin strisciò gli avambracci sull’erba per sorreggersi meglio e vezzeggiò con la punta della lingua la bocca del fratello, lentamente, sopprimendo ogni sua titubanza; gli prese il labbro inferiore tra i denti e glielo tirò senza fargli male, succhiandoglielo.
Il biondo prese possesso della sua bocca, la baciò ripetutamente, le chiese il permesso con carezze e morsi, e lei sospirò, schiudendo esitante le labbra e congiungendo le loro lingue.
E i battiti accelerarono, i cuori si sincronizzarono, fra sguardi languidi e sospiri e carezze febbrili, mentre il gioco sulla dominanza del ritmo veniva disputato da entrambi.
Involontariamente si alzò, Len, e, senza mai spezzare il legame, strinse a sé la sorella, inginocchiata fra le sue gambe piegate.
La bionda fece scivolare i palmi sul petto dell’altro, risalendo piano e imprimendo sulla pelle gli accenni dei muscoli, dell’addome, le linee delle costole, cingendogli poi il collo con le braccia esili; e quando l’esigenza d’ossigeno divenne sempre più grande, martellando insistentemente ed eclissando la voglia di prolungare all’infinito quel bacio, Rin si allontanò appena, mordendogli la bocca.
Il giovane le diede un bacio di congedo e soffiò sulle sue labbra rosse e lucide. Aveva voglia di morderle, ma resistette.
La guardò e il cuore non si acquietò; le accarezzò il viso, posando piccoli baci sulle guance imporporate, mentre il respiro caldo di lei gli lambiva l’orecchio.
«Len»
La sua voce lo scosse impercettibilmente e posò la fronte sulla sua spalla, respirando piano mentre le sue braccia sottili lo stringevano appena, come formate da particelle d’aria.
Lo chiamò ancora e ancora, carezzandogli i capelli e intrecciando le dita con le ciocche di sole.
Il giovane inspirò piano e le diede un bacio sulla pelle scoperta della spalla, sciogliendo l’abbraccio.
Guardò il viso di Rin, le accarezzò la pelle delicata con le iridi scure e tormentate come le acque dell’oceano selvaggio, spumoso, e quando riunì gli occhi con quelli della sorella, chiari e limpidi, simili al cielo che da bambino scrutava insieme a lei, il cuore perse un battito, e un senso di freddo vuoto velò come un sudario la melodia vitale.
Provò timore e spavento e paura, terrore di non avere più Rin vicina.
Un mese. E’ passato solo un mese dalla nostra fuga
Scoprì nuovamente quanto le era preziosa, e nell’immaginare un futuro doloroso, il cuore lo trafisse con un singolo, lento e forte battito, che si propagò come cerchi concentrici insieme ad altre, identiche note cardiache.
Era come se il suo stesso corpo lo supplicasse di non richiamare più tristezza e probabili avvenimenti nella sua mente.
Cosa posso fare?
Una macchia pulsante emerse nei suoi pensieri come una goccia di sangue nero, e dolcemente si allargò nella sua coscienza, divorando con l’inchiostro i suoi timori reconditi.
Era calore.
Rin gli stava accarezzando la guancia umida.
… Quando ho iniziato a piangere?
«Tranquillo, andrà tutto bene, ricordi?»
Il ragazzo la guardò leggermente spaurito, gli occhi vitrei come quelli di un bambino perso in una foresta nera, ma la paura appassì, piano, perché ogni essere sa che la notte buia scapperà dalla luce, in qualsiasi luogo o terra dimori.
«Forse è vero» sussurrò lei, rincuorandolo con tenere carezze. «Nostro padre ci starà ancora cercando»
Il cuore batté nuovamente forte, e Len digrignò appena i denti, serrando gli occhi, mentre quei rintocchi brutali lo laceravano con le vibrazioni.
«E dopo aver smesso di cercare, ci aspetterà a casa» la sua voce era cristallina, e quella limpidezza trasmetteva nitido sconforto.
«In fondo, lui ha accettato il ruolo di quell’uomo. E’ nostro padre»
Le lacrime gli bruciarono di nuovo gli occhi, e Rin si chinò a soccorrerlo, baciandogli le palpebre chiuse, come una madre farebbe con il figlioletto ferito.
«Tranquillo Len» la voce vibrò e anche la gemella cominciò a piangere, le gocce trasparenti di lei che si unirono con quelle del biondo, per poi scorrere insieme sulla pelle di lui.
Il giovane aprì gli occhi e vide quelle perle liquide districarsi dalle ciglia della sorella, e le sentì infrangersi sui propri zigomi.
Il sottile filo del cuore di lei ti avvolge, trasmettendoti l’amarezza che le addolora il petto.
Si diede dello stupido, debole e cieco, e accarezzandole la guancia la baciò dolcemente.
La diciassettenne di accasciò sul suo petto e strinse fra le mani la sua maglietta, socchiudendo gli occhi lucidi e stanchi.

«Andrà tutto bene, Len»



♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦





Il tempo continuò a scorrere, trascinando con sé i giorni e maggio.
La primavera finì, e l’estate mutò ancora una volta la natura.
Continuai a lavorare insieme alla nonna Ada, mente Rin rimaneva sulla collina, inoltrandosi nel bosco e avventurandosi nei dintorni.
Era sua abitudine aspettarmi fuori casa, all’ombra dell’ultimo castagno, e quando mi scorgeva veniva ad abbracciarmi.

Durante la notte piangeva, si svegliava a causa degli incubi e io la abbracciavo, cullandola come ho sempre fatto quando eravamo bambini.

Settembre arrivò, e un giorno la nonna mi chiese di chiudere gli occhi perché aveva una sorpresa per me e Rin, come “anniversario” del nostro arrivo qui, avvenuto cinque mesi prima.
Mi guidò verso la scala a chiocciola, e con paura salì piano i gradini.
Quando aprì gli occhi rimasi stupefatto.

Era un pianoforte.
Un pianoforte verticale dal delicato color marrone chiaro.
Il legno curato riluceva ai tocchi dei raggi che entravano dalla finestra, e i tasti bianchi e neri erano perfetti, l’avorio brillava.
Non trattenni le lacrime.
Era troppo. Un regalo del genere non doveva essere per noi, due pazzi fuggiaschi troppo giovani.
La nonna insistette, e disse che, un giorno, avrebbe voluto ascoltare me e Rin suonare, insieme, con un sorriso.
La ringraziai, anche se le parole erano insignificanti davanti a quel gesto.

Il nonno Akito mi aiutò a portarlo a casa, e miracolosamente lo strumento musicale arrivò integro a destinazione.
Lo adagiammo con delicatezza nel soggiorno, vicino alla finestra, e appena fui solo nella stanza, Rin sgattaiolò via dal suo “nascondiglio”.
Quando lo vide, si appoggiò alla cornice della porta e iniziò a piangere silenziosamente
. Sorrideva.

Ogni pomeriggio suonavo il piano e lei cantava, oppure ci destreggiavamo insieme su quei tasti lisci.
A volte suonavamo canzoni o brani che conoscevamo, ma la maggior parte del tempo improvvisavamo sul momento.

Un giorno, mentre ordinavo il polveroso e caotico piano superiore dell’antiquariato, la nonna mi mostrò un vecchio vaso, dicendomi che, in quel paesino, c’era l’usanza di piantare un qualsivoglia albero all’inizio di una nuova vita.
Quel vaso avrebbe dovuto contenere il germoglio della sua felicità, ma a causa di sventurati eventi, quella pianta non nacque mai.
Non mi disse altro e mi regalò quel vaso che aveva preparato per noi.
“E’ un castagno” precisò, indicando la morbida terra del contenitore di terracotta, “ Piantatelo vicino casa”.
Quando tornai a casa lo mostrai a Rin e le spiegai il significato.
Volle tenerlo con sé, per il momento, vicino al nostro letto.




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30 Novembre 20XX



Scese velocemente le scale, saltando senza paura alcuni scalini e fischiettando una melodia appena nata, e si avvicinò rapido verso il divano rosso, dove Rin sorseggiava con attenzione una cioccolata troppo calda.
La abbracciò da dietro lo schienale, sperando di non farle rovesciare il contenuto bollente sul maglioncino lillà.
«Quanto sei allegro» notò la ragazza, ridendo argentina mentre Len le carezzò i capelli con un bacio.
«Sarà la stagione» ipotizzò, liberando dall’abbraccio la sorella e dirigendosi in cucina, dove prese un brik arancione al gusto di banana.
La bionda inarcò un sopracciglio chiaro, scettica e divertita. «Sicuro?»
Il fratello annuì con un movimento veloce del capo, continuando a bere dalla piccola cannuccia bianca e sedendosi sul divano, di fianco a lei.
«Hai già visto la neve, eppure non sei mai stato così felice» sorseggiò con calma la cioccolata, guardando con occhi socchiusi il giovane, che sembrava particolarmente attratto dalle diverse striature delle pareti in legno.
Len finì in fretta il succo e, dopo aver gettato il cartoncino insieme ai simili nella busta verde del riciclaggio, ritornò in salotto e baciò teneramente la fanciulla.
«Vado giù in paese, tornerò presto» sorrise alla risata dell’altra.
«Ancora? Ci sei andato l’altro ieri, e la nonna ha detto che potevi rimanere a casa questa settimana»
Il diciassettenne si inginocchiò dinanzi alla sorella, incrociò le braccia sulle sue ginocchia e posò il mento sopra.
«Beh, potrebbero servirci delle cose, e magari la nonna avrà bisogno di un aiuto»
La gemella sorrise e gli accarezzò piano i capelli dorati. «Sei davvero felice, salti come una cavalletta»
«Non dovrei?» inarcò le labbra chiare e sottili. «Fra un mese sarà Natale, e dopo il nostro diciottesimo compleanno. Potremo avere un regalo meraviglioso, il più bello di sempre»
Allungò il viso e le baciò e carezzò con la punta del naso il ventre.
«Saremo genitori»
Rin sorrise.
«Saremo genitori» ripeté, posando le mani ai lati del pancione.
Il biondo posò l’orecchio sul suo grembo e ascoltò in silenzio, il sorriso sempre più grande ed estasiato.
«Ora che ci penso» disse, alzandosi in piedi. «Non abbiamo ancora scelto un nome»
«Vero» ammise la ragazza, pensierosa. «Non sappiamo però il sesso, e forse ci verrà in mente sul momento»
Len annuì e la aiutò ad alzarsi dal divano - «Dovresti rimanere seduta e riposare» , «Non soffro di artrosi» - , dirigendosi poi verso la porta per uscire.
«Fa’ attenzione» lo ammonì la giovane con tono affettuoso, raggiungendolo lentamente.
«Ehi, dovrei essere io a dirlo» rispose l’altro divertito, indossando il giubbotto blu notte.
«Fai la brava» Len la baciò rapidamente, flettendo poi le gambe per essere all’altezza della pancia gonfia. «E anche tu, piccolina»
«O piccolino»
Il ragazzo annuì e baciò nuovamente la diciassettenne. «O piccolino»
Len aprì appena la porta in modo che il freddo non entrasse dentro ed uscì, ma prima di richiudere il battente, la guardò fugacemente dallo spazietto tra legno e legno. «Ci vediamo questo pomeriggio»
Lo salutò con la mano, seguendo con lo sguardo la porta che si chiudeva, e, passati alcuni attimi, si allontanò verso la scala.
Sostenendo il ventre con la mano sinistra, Rin salì piano i gradini scuri, reggendosi con la destra al lucido corrimano.
Vinto l’ultimo scalino, si diresse verso la porta in ciliegio celata nella penombra della fine del corridoio, e, sorridendo, entrò nella stanza, facendo cigolare gli infissi.
«La tua cameretta» sussurrò, abbassando lo sguardo sul rigonfiamento.
L’arredamento basilare era quello del vecchio inquilino – la cassettiera, l’armadio e la scrivania erano quelli trovati- , e Len spostò unicamente nell’ultima camera singola la rete del letto e il materasso, in modo che il piccolo – o piccola, come amava dire sempre lui – potesse avere più spazio per le future gattonate.
Rin sorrise nel ricordare la lista degli oggetti che il ragazzo fece, preoccupandosi di ogni singola cosa – “Il pavimento! La bambina potrebbe farsi male con il legno!” – , forse anche troppo.
Si addentrò nella cameretta illuminata dai morbidi raggi del sole, calpestando la moquette oltremare che il compagno ritenne perfetta per la propria figlia.
Manca solo che cominci a parlare con una vocina scema
A quel pensiero rise, immaginando il momento in cui, tenendo il nato stretto fra le braccia, Len avrebbe iniziato a volteggiare, a fare facce buffi e cantare.
Ammirò il lettino con le sbarre in legno – la splendida culla color crema dalle tendine marroni era nella loro camera – e scorse sul materasso sottile i coniglietti e i gattini di pezza, privi di pelo sintetico o bottoni come occhi, perché Len aveva insistito tanto.
Prese un coniglietto rosso e accarezzò la superficie, tracciando con l’indice le linee del musetto nero e degli occhi verdi cuciti con il cotone.
Lo sguardo, però, migrò verso la parete, dove il vero tesoro risiedeva, e lasciò l’amichetto.
Una grande sedia a dondolo dal legno scuro e lucido risiedeva sotto la finestra, dove i raggi del sole illuminavano maggiormente la superficie liscia, impreziosendola con deboli scintillii.
Posò una mano sul bracciolo e, lentamente, si sedette, la sinistra sotto il pancione.
Sospirò, e iniziando a dondolare piano, Rin schiuse le labbra, cantando il brano realizzato da lei e Len per il bambino.
Socchiuse gli occhi, la voce che sinuosamente allontanava il silenzio, e carezzò piano il ventre. Rise appena, quando il piccolo la salutò con un calcetto.
Però, volgendo lo sguardo alle pareti azzurrine della cameretta di cielo e di mare, scoprì con evidente terrore di essere sola.
Lei e la creaturina custodita nel suo grembo.
Strinse forte gli occhi e artigliò i braccioli.
Non era mai andata da un ginecologo nonostante il biondo la pregasse quasi ogni giorno, troppo spaventata dalla possibilità che qualche medico scoprisse la natura del loro primo legame, del loro stesso sangue.
Dal giorno in cui entrò in questa casa, non volle più incontrare il nonno e la nonna, perché terrorizzata dalle domande che loro avrebbero giustamente fatto per quei suoi cambiamenti corporei.
Ma soprattutto, non rivelò mai a Len i dolori che la attanagliavano nelle ultime settimana.
Il bambino era vivo poiché a volte la chiamava con colpetti vari, quindi la placenta era integra e priva di lesioni.
Aveva paura del parto naturale e del dolore, perché mai sarebbe andata in ospedale.
Aveva paura della salute del piccolo, in fondo non sapeva nulla della sua condizione.
Ma soprattutto, aveva paura per la vita che avrebbe condotto suo figlio, stravolta a causa dei suoi stessi genitori, perché fratelli tra loro.
Oh, piccolo mio…
Un calcetto vibrò sul suo palmo e sulla pelle del ventre, destandola da quei pensieri.
Sorrise e carezzò il pancione, piangendo in silenzio e mormorando flebilmente un ringraziamento.


Stanca per la passeggiata fatta vicino ai confini del bosco, Rin decise a malincuore di rientrare a casa. Il freddo e la neve le piacevano, ma la temperatura bassa poteva nuocere al bimbo.
Alzò lo sguardo e vide la casa che la richiamava e che presto l’avrebbe riaccolta con il suo tepore.
Si voltò, scrutando i castagni più interni della piccola foresta e l’ombra che avvolgevano i loro tronchi e l’erba.
Len non tornerà che questo pomeriggio
«Entriamo a casa» disse dolcemente, e seguendo le orme lasciate nella neve a ritroso, cadde improvvisamente a terra, gemendo.
«Cosa-» un’altra effusione di dolore la investì, zittendola all’istante.
Cercò di alzarsi con incredibile sforzo, ma sgranò gli occhi e, terrorizzata, percepì qualcosa di liquido e caldo colargli sulle cosce, bagnandole l’interno dei morbidi pantaloni.
Serrò i denti e soppresse un lamento.
No, non adesso!
Respirò a fondo per calmarsi e pensare, ma si accasciò sul fianco e si strinse il grembo, senza trattenere le urla.
«Ti prego… non qui…» sentì le lacrime affiorarle ai lati degli occhi, bruciore che si sommava ad altro bruciore. «Non qui fuori… non da sola!»
Supplicò il bambino di fermarsi, di acquietarsi e ritornare in uno stato di quiescenza.
Volse lo sguardo verso i gradini della casa, la porta, ma la vista era offuscata a causa delle lacrime.
La neve fredda le stordiva i sensi, affievolendo di poco il dolore, ma quel candore le aveva bagnato il cappotto, il maglioncino, i pantaloni, e il gelo le graffiava la pelle.
Si mise a carponi per allontanare il ventre dalla neve, e iniziò a gattonare disperata verso l’entrata, ma cadde nuovamente, il dolore assillante che la torturava dall’interno. Singhiozzò, terrorizzata dalla solitudine e dall’assenza di Len.
Ti prego, vieni!
«Vieni da me…» la voce era fragile, e a stento Rin la sentì.
Si trascinò lentamente verso la casa, urlando e piangendo quando le contrazioni la punivano per la sua ostinazione.
Appena sfiorò con la mano il primo gradino si lasciò sfuggire un sorriso, e ansimando si arrampicò su quei scalini che mai le parvero così alti.
Si abbandonò sulla superficie della porta per riprendersi, tremando a causa della paura.
Una morsa le stringeva il ventre agonizzante, e per un attimo temette seriamente che il piccolo stesse patendo insieme a lei, ma annegò in una nuova ondata di crudele sofferenza.
Si inginocchiò a fatica e provò ad inserire la chiave nella toppa – la mano tremava e l’estremità colpiva contro il metallo – e dopo vari tentativi riuscì ad aprire la porta e si lasciò cadere sul pavimento.
Strisciò verso l’interno e con un calcio chiuse l’ingresso.
Le contrazioni sembravano essersi acquietate e Rin approfittò del momento per sfilarsi faticosamente il cappotto.
Si avvicinò gattonando al divano ed abbandonò la schiena contro il bracciolo cremisi. Si tolse piano i pantaloni insieme all’intimo e li lasciò vicino a sé.
Inspirò ed espirò lentamente, cercando di rilassarsi.
Si sentì improvvisamente stanca ed aspettò docilmente la nuova contrazione che le avrebbe dilaniata.
Ho paura…
Nuove lacrime rotolarono giù dai suoi occhi, unendosi alle gocce di sudore che le imperlavano il viso.
Inarcò la schiena fino a sfiorare con i capelli le ginocchia e liberò senza opposizione un gemito. Singhiozzò e guardò con speranza e preghiera la porta chiusa.
Ti prego… vieni da me, stringimi la mano. Ho paura…
«Len!!»



I piatti precipitarono intorno al suo corpo, imprigionandolo in mille esplosioni di schegge bianche che tintinnarono sul pavimento in legno.
Guardò confusamente davanti a sé, cercando di alzarsi, ma le gambe tremavano deboli.
Sentì l’eco di passi avvicinarsi veloce e posò gli occhi terrorizzati sulla figura che lo raggiungeva.
«Len!»
Ada si inginocchiò di fronte a lui, incurante dei cocci di porcellana, e gli prese il viso pallido tra le mani gentili.
«Ti sei fatto male, caro?»
Il ragazzo scosse velocemente il capo e socchiuse gli occhi, ansimando. Sentiva caldo, e le forze scivolavano via insieme al sudore freddo.
«M-mi dispiace per i piatti… n-non volevo»
La donna gli carezzò le guance e gli diede un bacio sulla fronte madida.
«Non preoccuparti di una sciocchezza del genere. Cos’è successo?»
Il giovane deglutì, cercando di calmarsi.
«N-non… non lo so!»
Chiuse gli occhi e serrò i canini appuntiti sul labbro inferiore, mentre la nonna lo stringeva a sé con la speranza di affievolire i tremiti grazie alle carezze.
Cercò di calmarsi, sfatando il macabro pensiero che gli lambì la mente.
Rin..?



Forza… forza, piccolo mio…
Si accarezzò il grembo gonfio, inspirando ed espirando lentamente.
Lo percepiva scendere, squarciandola dall’interno.
Allontanò di più il tavolino – la tazza bianca tintinnò pericolosamente a causa del calcio – e sistemò con sforzo il pantalone fra le gambe, in modo che il bimbo non toccasse poi il pavimento.
Si rilassò contro il divano, cercando di mitigare il dolore con l’immaginazione, con scene del loro futuro insieme, le passeggiate fra i castagni, il sorriso e le risate di Len quando avrebbe portato in groppa il loro bambino.
Sorrise stancamente.
La vista le si stava offuscando.



Dannazione… dannazione, devo…
«Devo andare!»
«Aspetta Len!»
La proprietaria dell’antiquariato lo trattenne per un lembo del giubbino, fermando la sua corsa verso l’esterno. «Perché sei così agitato?»
Il ragazzo si voltò, il timore che gli accelerava i rintocchi del cuore.
«Rin…» serrò i pugni, sperando che la voce non tremasse. «Le è successo qualcosa»
Ada lo trattenne di nuovo, stringendo saldamente le dita intorno al soprabito.
«Len… guardami»
«No, devo-»
«Guardami»
Il ragazzo sgranò gli occhi.
Il suo tono era deciso, ma un’ombra di paura aleggiava nel suono duro.
«Dimmi la verità»
Il biondo abbassò il capo, afflitto.
Voleva andare da lei, raggiungerla e trovarla seduta sul divano, sorridente, accorgendosi sollevato che tutto quel terrore e quell’assordante presentimento erano ingiustificati.
«E’ incinta. Rin aspetta un bambino»
La nonna lasciò lentamente la presa.
«Non ti fidi di me e di Akito?»
Len alzò fulmineo il volto, stupito.
«No! Non è questo!»
«Perché allora?»
Le nocche delle mani divennero bianche a causa della stretta sempre più forte, e il giovane percepì il palmo pizzicargli.
«Non si vede?»
Ada sospirò.
«Perché siete gemelli?»
Il ragazzo annuì piano, respingendo le lacrime.
«Sei uno scemo» disse la donna, abbassando lo sguardo. «Lo sapevo fin dall’inizio»
Len rabbrividì. «Allora…»
«”Perché”? So cosa si prova quando gli altri reputano il tuo amore sbagliato»
La signore intrecciò le dita fra loro e si guardò le mani.
«Ho amato un uomo ritenuto malvagio perché era originario di una nazione nemica. Ci siamo conosciuti in tempo di guerra, Len, e i miei stessi compaesani l’hanno ucciso. Io ero incinta di lui e sono scappata qui» sorrise mestamente e alzò lo sguardo. «Dopo parleremo come si deve di questa situazione, tutti insieme, ma ora andiamo da lei, forza!»



Si artigliò le ginocchia con le dita e inarcò la schiena, urlando nonostante la gola secca e lacerata.
Ancora un po’, forza
Serrò con forza le mani – sentì chiaramente le unghie affondare nella pelle bianca e piccole lacrime di sangue fiorire calde - , e gridò ancora come mai avrebbe fatto. Aprì gli occhi e la voce le si fermò.
E’ nato…
Sorrise stancamente e respirò a breve e rapide boccate.
Senza interventi, il piccolo vagì, sostituendo le urla della madre con la sua vocina acuta.
La ragazza rise appena, ignorando le lievi fitte al suo gesto sconsiderato, e si guardò intorno in cerca di un oggetto tagliente per recidere il cordone ombelicale.
Eccola
Allungò il braccio verso il tavolino e, afferrando debolmente il manico con i polpastrelli, fece cadere a terra la tazza di porcellana, spaventando il bimbo con il rumore improvviso.
«Sssh, è… è la mamma»
Che strano usare questa parola…
Colse il coccio più grande e lo strinse forte a causa dei tremori alla mano, tagliandosi la pelle del palmo.
Guardò il cordone e con un gesto secco recise l’ultimo legame fisico tra lei e il piccolo.
Trattenne i conati di vomito a causa della vista e dell’odore acre e gettò lontano il frammento di porcellana.
Rin prese fra le mani pezzate di sangue il cappotto umido e si chinò, avvolgendo la creaturina nel caldo indumento.
Le pulì il visino con un lembo soffice, sperando che le lacrime di gioia non cadessero sulla pelle delicata del neonato.
«Il tuo papà aveva ragione»
Era una femminuccia.
Si sentiva debole e le palpebre scivolavano pesanti sugli occhi. L’abbraccio era incerto a causa dei fremiti e della poca forza, perciò la bionda si distese perpendicolarmente al divano per non essere vicina alla tazza infranta.
Sfiorò le minuscole guance con lo sguardo, troppa la paura di farle male, e le accarezzò il corpicino caldo da sopra il cappotto.

E guardando quella delicata creaturina, capì.
Non erano figli della sfortuna, lei e Len, perché nulla di così meraviglioso poteva nascere da dei reietti portatori di sventura.
Le sfiorò il minuscolo palmo con l’indice e sorrise.
«Ciao» sussurrò, le labbra che tremavano e le lacrime che fiorirono.
Era felice.
Depose la piccola sul pavimento, facendo attenzione a non scoprirla.
La osservò per qualche attimo, incredula che quella piccoletta fosse sua figlia, il frutto del loro amore.
Sorrise nel guardare i suoi movimenti incerti, i braccini che sgusciavano dal fagottino in cerca quasi di calore e protezione.
La ragazza si sfilò lentamente il maglioncino, stringendo i denti per il dolore al ventre, e si slacciò il reggiseno bianco.
Si adagiò di nuovo sul pavimento, sospirando mentre si distendeva, e, con un scintillio negli occhi velati, prese piano la bambina dal pavimento e se la posò sul petto.
Le scostò il cappotto dal visino e la guidò lentamente verso il suo seno.
Sorrise.
E’ riuscita ad attaccarsi
La guardò, accarezzandole piano le spalla.
«Ti voglio bene, ti amo piccola mia»
Le sfiorò lievemente la guancia con l’indice e, chiudendo gli occhi, abbandonò la testa sul legno duro.

Dopo quel tonfo, ci fu solo silenzio.



Le gambe si sfioravano velocemente tra loro, le falcate erano ampie e il respiro smorzato.
I polmoni bruciavano, la gola doleva a causa del freddo.
Aumentò ancora il passo, perché ormai era il terrore a muoverlo come un burattinaio, e Len poteva solamente sperare che il sorriso di lei tagliasse quei dannati fili.
Aveva lasciato la nonna e il nonno all’inizio del bosco, non erano in grado di correre e il suo cuore martellava così maledettamente tanto che il ragazzo temette di esplodere come un piccolo palloncino per colpa di quei battiti.
Gli alberi pian piano si riducevano e il terreno veniva divorato dalla sua corsa disperata.
Strinse più forte i pugni, e quando scorse la fine della foresta, si fermò all’ultimo castagno.
Camminò verso la casa, senza neanche allietare il suo corpo con boccate d’aria.
Della neve era sciolta e una scia strappava quel manto puro in due sezioni.
Urlò il suo nome – «Rin! Riiin!!» – fino a perdere il respiro.
Corse verso la casa, superò i tre scalini con un salto.
«Rin…»
Prese le chiavi dallo zerbino – Sono le sue, le sue – e infilò la mappa nella toppa, sbattendo forte la porta.


«Len!»
Il ragazzo sgranò gli occhi e, imbarazzato dal fracasso commesso, provò a scusarsi, ma quando un vagito lo richiamò, ebbe un fremito.
«Non può essere…»
Si accostò vicino a lei, e gridando di gioia, abbracciò la giovane, guardando con felicità la loro creatura.



Avresti voluto che fosse così, vero Len?





Si avvicinò lentamente, l’echi dei suoi passi vibrarono nel salotto.
Gli occhi sgranati si posarono su di lei e scrutarono il suo viso, la pelle pallida e gli occhi lividi.
Si accostò a lei, e inginocchiandosi, la guardò, carezzandole piano la fronte celata da alcune ciocche bionde.
«Rin…?»
La sua voce si perse nell’aria, divorata dal silenzio.
Provò a chiamarla ancora, piano, pianissimo, come faceva di solito la mattina quando andavano a scuola.
«Rin…»
Una perla trasparente si formò sopra la palpebra e gli bagnò lo zigomo destro, scivolando lungo la guancia e fermandosi sul mento, prima di cadere nel vuoto.
Le carezzò la tempia con il dorso delle dita, lentamente.
«Ti prego… ti prego, Rin»
Sbatté il pugno contro il pavimento, affondando i canini nel labbro inferiore per trattenere i gemiti.
Colpì nuovamente il parquet, una, due volte, e alla terza si fermò, sgranando gli occhi.
Posò lo sguardo sul piccolo fagottino, il suo cappotto raggomitolato.
Non può essere…
Allungò le mani, spaventato, e, lentamente, prese in braccio l’origine di quella voce.
Scostò un lembo e gemette.
Era il loro piccolo tesoro.
Il biondo sfiorò la sua piccola guancia con il polpastrello e le accarezzò piano le labbra umide.
«Ciao… ciao…»
Si morse con forza il labbro inferiore, ma gli angoli della bocca si inarcarono all’ingiù, sussultando. Gli sfuggì un gemito sommesso.
Guardò di nuovo il viso del nato e adagiò il fagotto sul petto di Rin.
Sorrise, le lacrime che gli rigavano il volto; baciò la fronte della giovane e si alzò, indietreggiando appena.
«Sei stata davvero brava…»
Serrò forte le mani e corse verso la porta, ignorando i pianti della piccola.
La casa gli crollava addosso, il pavimento lo risucchiava, come fosse liquido; era solo un’illusione, però.
Uscì fuori, e dopo qualche passo cadde nella neve.
«Rin, ti prego…»
Alzò gli occhi al cielo coperto da una coltre bianca di nubi.
«Senza di te, io… sono solo»
Il ragazzo digrignò i denti e inarcò la schiena, sfiorando la neve con la fronte e i capelli.
«Senza di te, questo mondo… è una follia»
Gemette disperato, artigliando fra le dita quei fiocchi di cotone d’inverno.
«Ti amo, Rin, ti amo!»
Sbatté forte il pugno fino a sentire contro la pelle il terreno congelato.
Inspirò profondamente e, alzandosi in piedi, urlò fino a quando la gola non si squarciò e la voce morì.






5 anni dopo



Scacciò via le aggressioni del mondo esterno e i suoi suoni che ostinatamente gli giungevano attraverso i sensi.
Mugugnò contrariato, voglioso di sprofondare nel buio di un sonno privo di immagini e storie, silenzioso.
Però una voce limpida lo chiamò, ancora e ancora, sprizzante e dolce. Ispirava malinconia.
Sembra la sua voce, vero?
Percepì un piccolo tepore alle spalle. Erano delle mani.

«Dai papà, svegliati!»


Aprì piano le palpebre, la debole luce del sole invernale che lo salutava tenuamente, dandogli il bentornato dal suo viaggio onirico.
Abbassò lo sguardo e sorrise al tenero broncio offeso disegnato sulle labbra di una bambina, il nasino e le guance tinte di porpora a causa del freddo.
«Scusami, Kiseki»
Sorrise ancora e, prendendo in braccio la bambina, la fece sedere sulle proprie cosce, in modo da non farla bagnare con la neve.
«Ti sei di nuovo addormentato qui» osservò la piccola con la sua voce allegra, gettando il capo all’indietro per poter vedere il volto del papà.
Len le scostò qualche ciocca bionda dal visino, scoprendo le due meravigliosi gocce azzurre.
Sembrano i suoi occhi, vero?
«E’ colpa dell’albero!» rispose, ridendo appena la bimba incrociò le braccia in disaccordo.
«Non è colpa di Ai!»
Il ragazzo la abbracciò dolcemente, scoccandole un bacio sulla guancia rossa.
«Sicura?»
Kiseki annuì convinta.
«Allora chiedo scusa, a te e ad Ai»
La bimba sorrise entusiasta, regalando al genitore lo stesso amorevole bacio alla guancia.
Len abbracciò forte la piccola, facendola ridere con delle pernacchie fra le ciocche bionde.
«Papà, basta, mi spettini!» disse, continuando a ridere. «Mi fai il solletico così!»
Strofinò delicatamente la fronte tra i suoi capelli corti, accontentando la figlia; alzò il volto verso il cielo, le braccia ancora intorno a quel leggero corpicino, ed osservò le nuvole migrare verso altre terre.
«Papà?»
«Sì?»
«Potresti cantare nuovamente quella canzone?»
Sussultò flebilmente a quella richiesta, innocente e semplice e dolorosa.
«Va bene»
Sentì la bambina muoversi fra le sue braccia, sbottonandosi l’apice del candido cappottino.
Sorrise.
Ha preso la tua Chiave di Violino
Il ragazzo immerse la mano nel giubbino e prese il ciondolo d’oro. Accarezzò la superficie liscia.
«Pronta?»
La piccola annuì con un sorriso.
Chiuse gli occhi e, il volto sempre rivolto verso il cielo, iniziò a cantare.


Sono passati ben cinque anni, vero?
Kiseki è cresciuta, e non è più quella piccola creatura che trovai fra le tue braccia.
E’ bellissima, e non lo dico solamente perché è mia figlia.
Nostra.
Assomiglia a te, e quando la vedo mi tornano in mente i nostri ricordi di quando eravamo piccoli. I giochi, le risate e le liti.
Nonno Akito e nonna Ada la adorano, vengono ogni domenica a casa e giocano con lei.

Le ho raccontato di te, tanto, tantissimo, di nostra madre e nostro padre.
Non sa nulla di me, non sa che sono tuo fratello.
Per lei sono uno sconosciuto che ha avuto la fortuna di entrare nella tua vita.
Solo un’ombra della tua luce.

Avevi ragione, nostro padre ci sta ancora aspettando a casa.
Sono partito quando la piccola aveva verso i quattro anni, la avevo affidata ai nonni.
Lavora ogni giorno, come prima, però la sera torna a casa.
Ci aspetta con un bicchiere di brandy in mano, seduto sul vecchio dondolo della veranda.
Volevo raggiungerlo, ma avevo troppa paura.

Ho raccontato a Kiseki del nostro amore, ma solo l’importante, ciò che la gente disprezzava: l’intensità e la veridicità dei nostri sentimenti.
E queste emozioni le scorgo sempre nei suoi occhietti dispettosi, sono le sfumature delle sue iridi sincere. La nostra realtà è custodita nel loro colore azzurro.

La sera, quando la porto in braccio in camera sua e la stendo sul letto, le canto sempre la nostra canzone, quella che abbiamo scritto anni fa mentre pensavamo a lei, in autunno.
E ogni volta credo che, nel momento in cui la piccola Kiseki inizia a cantare, la tua voce si unisca alla nostra.
E’ come se le dessimo la buonanotte insieme, come avresti voluto.

Quando ritorno nella mia stanza, nella
nostra, solo, canto quel vecchio brano con la speranza che il mondo accetti il nostro amore.
Perché desidero riabbracciarti, anche solo una volta, ma per farlo dovrei lasciare nostra figlia, e non voglio.
Lei è il cuneo che mi tiene qui.
Un cuneo che mi trapassa il cuore, che colma con la sua punta il vuoto lasciato dalla tua scomparsa e che impedisce al sangue di sgorgare fuori.
Mi permette di vivere.

Non ti dimenticherò mai, mia cara.
Un frammento di te vive in lei, la tua voce nella sua.

Ti amavo, ti amo e ti amerò, Rin.





Cosa…?
Abbassò piano il viso e strinse di più le palpebre chiuse.
Un’ombra nera si espanse nei suoi sensi, palpitante come un cuore.
La tristezza svanì, dissolta da quella percezione delicata e familiare e nostalgica.
E’ calore…
Sorrise ed aprì gli occhi.
Il suo piccolo miracolo era lì, a salvarlo ancora una volta.
«Papà, stai bene?»
Len annuì, baciandole la fronte. «Perché?»
La bambina gli accarezzò le guance e, lentamente, scostò le mani, mostrandogli delle gocce trasparenti.
«Perché stai piangendo»
Il biondo sbatté le palpebre.
Quando… ?
«Papà, non essere triste»
La piccola gli abbracciò il collo e gli baciò la guancia. «Tranquillo, andrà tutto bene!»
Il ragazzo sussultò a quelle parole e, dopo un momento di tremante esitazione, strinse la figlia a sé, chiudendo gli occhi.
«Si…»



«Andrà tutto bene, Len»


















Si, vi do il permesso di linciarmi/scuoiarmi/salumizzarmi a sangue (!?).
T u t t o q u e l l o c h e v o l e t e.
Potete ammazzarmi, anzi no, DOVETE ammazzarmi.
*distribuisce frutta/verdura marcia, coltelli arrugginiti e armi avvelenate*
Well… che dire, credo di aver esagerato con questa fic …?
Oltre al fattore incesto e alla fuga, ho aggiunto una gravidanza e la morte randomica di Rin.
Yeah!
“Yeah” un ciufolo!
Chiedo venia per eventuali conati di vomito e per la propaganda passiva sul suicidio di massa.
Vi ho rovinato le vacanze estive, vero?
Era da tanto che non scrivevo sui Kagamine e sulla coppia Het in generale, quindi ho pensato di scriv cazzeggiare un po’ su questo fandom, tanto per non rimanere fossilizzata sulla mia amata Lave- … lasciamo stare.
Quanto è dolce Len apprensivo? Con tutta quell’attenzione verso gli oggetti, la cameretta… *-*
Povera Rin che ha dovuto sopportarlo
La scena finale è simile a quella del bosco, avete notato?
Poi… la ripetitività di parole e i periodi lunghi nei pensieri di Len è voluto, in fondo sta riflettendo.

… Come cavolo ho potuto scrivere una COSA del genere su… su quei poveri pulcini?
Santa matryoshka, li tratto sempre peggio, eppure li adoro – NON SEMBRA! – .
Mentre scrivevo la parte in cui Rin osservava la camera del futuro bambino, mi sentivo una totale schifezza perché sapevo della sua morte.
Volevo stravolgere tutto, scrivere qualcosa ad altissima concentrazione di fluffusità solo per regalare alla piccola Rin le gioie della maternità e della vita che immaginava insieme a Len e Kiseki.
Ma poi… buaaah, come ho potuto!? Sono una bastarda çxç
E in più ho infierito con la parte ”Avresti voluto che fosse così, vero Len?”.

Questa shot è stata un po’ difficile, tematiche a parte.
Ho impiegato una settimana e poco più per scriverla e un’ora, si, un’ora a codificarla 10106 caratteri titolo e divisori esclusi! . Ho rischiato anche di perdere il file ultimato, la pennina è volata letteralmente fuori dal balcone xD
Se per caso avete trovato elementi simili alle canzoni “Proof of Life” ed “Endless Wedge” - il pianoforte, il vaso, l’albero, la canzone, il cuneo – non è un caso.
E’, infatti, vagamente ispirata a queste canzoni. Mooolto vagamente.

“Sai, non smetterò mai di stupirmi di quanto noi fan siamo abili a concepire le disgrazie peggiori per questi poveri sventurati. E abbiamo anche il coraggio di considerarla la nostra OTP pur trattandola così X°D”
Le sagge parole di Claud10107.
Io però penso di aver oltrepassato il limite, e di parecchio.
*sbatte la testa contro il muro*
Mio Dio, davvero, non sapevo se postare questo obbrobrio o eliminarlo dalla memoria del mio pc e della mia testa. Ho esagerato.
Chissà se un giorno riuscirò a scrivere qualcosa di dolce e non drammatico su di loro… lo so, sembra impossibile, ma il sapiente Walt disse un tempo che “If you can dream, you can do it.” .
Speriamo anche se, forse, noi amiamo il Kagatwincest solo per la tragicità insita nel termine .
Come ho già detto, DOVETE ammazzarmi, così non scriverò mai più robe folli.
Devo farmi curare, seriamente, non scherzan mica quando mi dicono di chiamare lo psicologo o di soggiornare in manicomio.
Forse – ma FORSE! – scriverò altro su di loro, sempre una one-shot.

Oh, si… per i lettori di Fatal Mistake quelli vivi, s’intende, un annuncio a voi.
Non ho dimenticato la long, tranquilli, e il documento di Word non è imploso nella USB.
Anzi, l’ho anche scritto da mesi, devo solo rileggerlo e, ovviamente, postarlo.
Solo… ho un dubbio. Non sono al 100% convinta, ecco, e non ho nessuno a cui parlare, inondandola/o dei miei scleri.
Tutte le anime pie si sono allontanate da me xD

Bene, evaporo dalla vostra vista.
Buone vacanze a tutti!


  
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