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Autore: bloody_lily    30/09/2004    5 recensioni
Ho sempre avuto l’abitudine di associare ad ogni circostanza della mia vita un certo tessuto di cielo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho sempre avuto l’abitudine di associare ad ogni circostanza della mia vita un certo tessuto di cielo

Annalisa. E me.

 

Archetipo di *noi*.

 

 

Ho sempre avuto l’abitudine di associare ad ogni circostanza della mia vita un certo tessuto di cielo. Non credo di averlo mai fatto coscientemente, semplicemente mi viene naturale pensare a dei grossi nuvoloni antracite che incombono sulla finestra della mia camera se voglio ricordarmi del mio quindicesimo compleanno. Quel giorno ho avuto in regalo la mia prima chitarra, un’acustica dalla cassa blu di prussia con le chiavi madreperlate: mentre la stavo scartando ha cominciato a diluviare contro i doppi vetri in modo opprimente. Ero quasi convinto che da un momento all’altro una grossa mano fatta d’acqua avrebbe eluso la loro consistenza e mi si sarebbe stretta alla gola. Intendiamoci, la pioggia mi piace. Ma il fascino di un mosaico d’azzurri intensi decorato dalla pennellata magistrale di qualche strascico nuvoloso è tutto particolare. Ricordo soprattutto una mattina di marzo, in cui il cielo mi è sembrato davvero mozzafiato.

Il sole stava scavalcando la parete di roccia che mi parava le spalle per fare capolino sulla mia testa. Era già caldo, nonostante i suoi raggi primaverili sembrassero piuttosto timidi e la sfera lucente stessa non avesse ancora smesso l’aureola albina tipica delle giornate invernali. La volta era di un celeste violento, che andava attenuandosi nella corsa verso l’orizzonte. C’era addirittura una sfumatura nontiscordardimè proprio sopra il campanile, sulla punta estrema del promontorio su cui stava abbarbicato il borgo vecchio. Voluttuosi strascichi di nuvolaglia galleggiavano liberi verso ovest e sembravano condensarsi sulla linea dell’orizzonte, dove mare e cielo riescono finalmente ad abbracciarsi. L’acqua limpida lusingava gli scogli sotto di me e il dolce sciabordio delle onde mi cullava appena. Un marangone solitario pescava tranquillamente a pochi metri da riva, una barchetta di pescatori buttava l’ancora poco oltre.

Mi sono lasciato andare all’indietro sul telo decretando di aver scelto la giornata ideale per fare sega a scuola. Credo di essermi anche addormentato, oppure sono semplicemente rimasto tutto il tempo a sognare ad occhi aperti, guardando il versante di roccia che correva ripido vicino a me. Da alcune ferite della pietra spuntavano dei fili d’erba e dei fiorellini bianchi che assomigliavano molto a piccoli gigli. Mi sembrava di riuscire a vederli rinvigorirsi a ogni raggio di sole un po’ più velocemente, nonostante tutto il freddo della notte era ancora impietoso con i boccioli.

Mi sono scosso dalla contemplazione soltanto quando ho sentito uno starnuto.

Mi sono tirato su e guardato intorno e non ho visto nessuno.

Una voce dietro di me ha imprecato, allora mi sono girato e ho visto Annalisa, la mia compagna di forca che mi sovrastava completamente zuppa. Indossava un paio di jeans lisi un po’ ovunque e una maglietta a righe bianche e blu ormai trasparente, piccoli rivoletti d’acqua le uscivano dalle scarpe da ginnastica. Teneva le braccia strette contro il petto e la pancia e i capelli fradici le aderivano alle tempie e alle guance e tremava visibilmente.

Mi ha intimato “Non ridere!”, ha starnutito di nuovo. Non so se avrei riso, forse l’avrei semplicemente insultata con affetto. Ma sentendola difendere il suo orgoglio ormai già ferito con tanta ostinazione anzi che chiedermi il telo su cui ero seduto per asciugarsi mi è salito alle labbra un sorriso lieve.

Le ho detto “Che hai fatto?” con la massima serietà, ben sapendo che se non avessi usato un minimo di tatto non ci saremmo più parlati per giorni. Annalisa era tremendamente permalosa, e i nostri rapporti erano già abbastanza complicati senza che litigassimo anche per quello.

Ha sputato un “Stavo facendo un giro sui maledetti scogli” e subito starnutito.

Mi sono alzato, ho raccolto il telo e l’ho avvolta nella spugna morbida. Aveva una certa luce minacciosa negli occhi, ma per come tremava sembrava davvero un pulcino. Ha borbottato “Faccio da sola”, allontanato le mie mani dalle sue spalle.

Ho sospirato e mi sono riseduto, a guardare il mare. Il marangone aveva smesso di pescare, adesso scivolava sull’acqua liscio e libero come un chitarrista dopo un buon assolo. Ho detto “Non ti sembra che laggiù la linea d’orizzonte non esista quasi? Lo specchio del mare si confonde con il cielo”, pensando che in fondo è triste sapere come i due elementi siano completamente separati in realtà quanto rassicurante credere che da una qualche parte là in fondo c’è una molecola d’acqua che fa l’amore con una molecola d’aria.

Annalisa ha detto “Non dire stronzate. Se hai studiato un po’ di chimica sai benissimo che-” e starnutito per l’ennesima volta.

Io mi sono alzato, l’ho tirata contro di me e strofinata ignorando le sue imprecazioni. L’ho tenuta stretta per qualche minuto, appoggiando il naso vicino al suo orecchio: i suoi capelli profumavano di fragole e ciliegie e cannella e miele e caucciù e altri frutti assurdi nonostante il retrogusto salmastro. Forse avrei potuto spingermi un po’ più in là, immaginare che il mio viottolo sterrato potesse incontrarsi con la sua autostrada a tre corsie. Invece mi sono limitato a sorridere non visto, avvolgerla meglio con le mie braccia, trascinarla giù. Lei non ha parlato, forse aveva troppo freddo per opporsi o forse si era semplicemente rassegnata alle mie cure. Si è seduta in mezzo alle mie gambe, dandomi la schiena, e si è aggiustata il telo intorno alle spalle.

Le ho chiesto “Stai meglio?”, ho di nuovo sorriso non visto, mi sono appoggiato all’indietro puntando le mani per terra.

Ha detto solo “Grazie”, e poi non ha più parlato per un pezzo. Siamo rimasti a guardare le onde che si infrangevano a pochi passi dal nostro scoglio finchè il campanile lontano non ha dato dodici rintocchi: per i nostri genitori stavamo uscendo da scuola.

Le ho proposto “Prendi il mio giubbotto. Non puoi venire in moto con i vestiti bagnati, e neanche avvolta in un telo da mare…”.

Lei ha annuito. In ogni movimento mi sembrava più morbida di prima, meno compulsiva, anche se i suoi occhi ardevano oltranzisti. Mi sembrava che quel piccolo incidente ci avesse reso più complici, che si stesse scoprendo un’altra sfaccettatura di Annalisa. Che strana creatura, Annalisa. Avevamo impiegato anni ad arrivare a quel punto d’accordo instabile, e sentivo che non era venuto ancora fuori tutto. Ma cavolo, quello che era venuto fuori mi piaceva già abbastanza. Magari un giorno gliel’avrei anche detto.

Alla fine le ho lasciato il mio giubbotto e mi sono girato per l’ultima volta verso il mare, aspettando che si rivestisse. Il marangone era ormai scomparso.

Quando mi ha avvertito che era pronta abbiamo raccolto la nostra roba e siamo tornati su verso la strada. Siamo saliti in moto, le ho passato un auricolare del lettore cd che tenevo sempre acceso per guidare. C’era su La Cura. E mentre Battiato ci raccontava i nostri stessi sentimenti, Annalisa mi stringeva i fianchi e pensava a cosa raccontare ai suoi dei vestiti bagnati e io sorrdevo non visto e pensavo ai viottoli e alle autostrade e ai frutti assurdi e all’orizzonte e mi chiedevo se un giorno, ricordandomi di quella giornata, mi sarei sentito ancora così irrazionalmente felice.

  
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