Buongiorno
fandomino del mio cuoricino!
Per prima cosa, vi bacio una ad una per le recensioni
all’ultima storia. Mi ha
fatto un piacere immenso riceverne e vi risponderò una ad
una, promesso!
Questa è un’altra di quelle storielle scritte di
getto, cominciata ieri sera e
conclusa stamattina. Spero comunque che vi piaccia, con tutto il cuore!
E’
anche corta, per di più!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
*
«It
was
thy kiss, Love, that made me immortal.»
-M. Fuller
John crede di
saperlo, ma ha baciato così tante persone che non
è più tanto sicuro di
ricordarselo ancora. E’ diventato automatico,
un asso nella manica da usare con la ragazza di cui si è
innamorati per non
mettere fine ad una bella serata, un modo per dirle silenziosamente che
è vero,
è tardi, ma che sarebbe bello passare ancora un
po’ di tempo insieme. Forse,
effettivamente, questo è
un bacio per
John. Un modo per dire ‘non voglio
che tu
vada via’.
Lo disse a Sherlock, la notte di un piovoso venerdì. Il
detective era steso sul
divano, un libro tra le mani, e aveva posto la domanda al dottore come
se
concernesse ciò che stava avidamente leggendo. Il titolo del
tomo, ‘psicologia criminale nel XXI
secolo’,
non gli rese affatto necessario chiederglielo, comunque.
Sherlock, dopotutto, era fatto così. Capace di porti un
interrogativo
all’improvviso, di punto in bianco, durante un esperimento,
la lettura di un
libro come in quel caso, o addirittura durante le pochissime ore che
dedicava
al sonno. Praticamente, ogni qual volta si presumeva dovesse dirigere
la sua
attenzione verso altro, piuttosto che a domande frivole come quella.
John rimase per un secondo interdetto, come se lo sconvolgesse sentire
la
parola ‘bacio’
pronunciata dall’uomo
sul divano, ma cercò di ricomporsi al più presto,
per nulla desiderioso di
sentirsi rimproverare per il tempo impiegato a rispondere a qualcosa di
tanto
semplice.
”Un bacio è il modo per
dire a chi ami
che non vuoi che vada via” John gli disse,
istintivamente, senza sapere
nemmeno il perché. Era la prima cosa che gli era venuta in
mente, l’ultima
maniera con cui forse aveva risposto a quella domanda chissà
quanto tempo
prima. Sherlock lo guardò, lo studiò, lo lesse
come a tentar di capire se
stesse mentendo. Poi annuì, come se improvvisamente fosse
giunto alla
conclusione che John fosse sincero.
Aveva chiuso il suo libro, picchiettato le proprie labbra con il dito
indice e
poi gli aveva rivolto le spalle, volgendo la propria attenzione a
qualcosa di
incredibilmente interessante (e assolutamente invisibile) appiccicato
alla
spalliera del divano.
Non ne aveva più parlato e John non aveva risollevato
l’argomento.
Il giorno in cui
Sherlock fece capire a John che lo amava, non ci furono baci. Nemmeno
uno.
Neppure uno piccolo, stampato sulla guancia.
Sherlock si era limitato ad arrossire, come un bambino di fronte alla
ragazzina
troppo grande cui ha deciso di confessare il suo sconfinato amore, a
balbettare
una frase incoerente che a John sfuggì e ad afferragli una
mano nelle sue.
L’aveva stretta a sé Sherlock, avvicinandola al
suo cuore impazzito, così che
John potesse comprendere la portata di quel sentimento,
l’enorme difficoltà
affrontata per poter essere in grado di ammetterlo, accettarlo, dimostrarglielo.
Aveva chiuso gli occhi e sorriso, con le gambe così molli
che faticavano a
reggerlo, conscio per la prima volta di cosa significasse la parola felicità. Aveva accettato
quella mano
come il più raro e prezioso dei doni e aveva incrociato le
sue dita con le
proprie, in un abbraccio che stava a significare ‘legati adesso, legati per sempre’.
John aveva cercato di avvicinarsi quanto poteva, ovviando alla
differenza di
altezza nella miglior maniera possibile, accarezzando dolcemente i
capelli di Sherlock
e osservandolo chiudere gli occhi come in preda ad un inimmaginabile
piacere.
Aveva posato la fronte a quella del detective poi, soffiando dolcemente
sulle
sue labbra come preludio a ciò che avrebbe fatto di
lì a poco, come ad
avvisarlo della timida libertà che presto si sarebbe
concesso.
’Preparati, Sherlock’
sembrava dire.
‘Inizia tutto adesso’.
John non vedeva l’ora di apporre quella prima goccia
d’inchiostro sulla prima
pagina di quella storia. Era impaziente, fremente d’attesa,
per il momento in
cui finalmente avrebbe apposto quel tanto agognato Capitolo
Uno, in cima a quel foglio di carta.
”No” aveva poi detto Sherlock, ponendo nuovamente
una distanza di sicurezza tra
lui e John, “Niente baci”.
John non aveva obiettato, ormai così abituato alle stranezze
di Sherlock da non
prendersela a male quando una di esse si presentava
all’improvviso e nelle
situazioni più delicate. Aveva alzato le mani, ancora
sorridendogli, con una
pacca sulla spalla e una carezza sul viso improvvisamente divenuto
pallido.
”Più tardi” John disse, più a
se stesso che a Sherlock, “Quando vorrai”.
Quel giorno, non arrivò mai.
Sherlock non disse mai a John perché non volesse baciarlo, e
il povero dottore
non fu totalmente immune ai mille (milleuno) significati che quel
costante
rifiuto portava con sé.
Credette di non essere abbastanza attraente, per un periodo.
Cominciò così a pettinarsi per bene ogni mattina,
a non saltare più nemmeno un
punto durante la rasatura e a dilapidare metà dello
stipendio in abiti più
eleganti. Iniziò ad usare un profumo costoso, una lozione
per capelli di cui
non aveva alcun bisogno ma di cui David
Beckham aveva parlato tanto bene in televisione, e ad
eliminare a malincuore
qualche maglione dalla sua mise
abituale.
Quando aveva notato che il drastico cambio di look a nulla era servito,
era
tornato ai maglioni, aveva smesso di acquistare prodotti più
costosi di cinque
sterline e aveva spento la televisione ogni qual volta era spuntata
fuori la
faccia di David Beckham.
Successivamente, John si convinse di non avere abbastanza attenzioni
per il suo
innamorato.
Il giorno dopo essere giunto a questa conclusione passò dal
primo fioraio di
strada per l’ufficio e ordinò di portare al 221B
un mazzo di rose rosse al
giorno per un mese. Passò da Molly, di ritorno dalla
clinica, e prese per
Sherlock ogni parte anatomica separata da un corpo di cui la ragazza
potesse
disfarsi. Dopo una telefonata a Lestrade, poi, sul contenitore
refrigerato
pieno di dita e chissà cosa si aggiunse uno scatolone zeppo
di casi minori
irrisolti. Sherlock fu felice, entusiasta
(a modo suo) dei regali, un po’ meno delle rose, ma non
aprì il minimo
spiraglio di speranza in John che qualcosa potesse cambiare.
John aveva disdetto l’ordine da Rosie’s
flowers ed era corso al pub a scolarsi quattro birre di fila.
Alla fine, si convinse strenuamente che Sherlock stesse conducendo un
qualche
esperimento su di lui e che non fosse realmente interessato a una
qualunque
relazione con lui. Durante l’assenza di Sherlock per un caso,
rovistò in un solo
pomeriggio l’intero archivio appunti del detective, trovando
taccuini pieni di
scarabocchi che forse avrebbe fatto molto meglio a non leggere, ma
nessunissima
traccia di quel nuovo studio sulle
emozioni. Pensò che Sherlock avesse deciso di tenere traccia
dei progressi sul
computer, ma trovò completamente vuoto anche quello.
Immaginò avesse pensato di
proteggere quel segretissimo esperimento archiviando i dati nella
propria
mente, e quindi decise di mostrarsi glaciale per un po’. Non
ci volle molto
perché Sherlock se ne accorgesse. Un giorno in cui ebbe
l’idea di far uscire
Sherlock allo scoperto convincendolo di essere stato rapito, si era
ritrovato
la polizia alla porta del suo occasionale rifugio a casa Harry
Watson, con un Greg Lestrade estremamente divertito che lo
avvisava del fatto che Sherlock gli avesse piazzato addosso una specie
di
cimice.
”Non sopporta non sapere dove vai”
gli aveva riferito.
La settimana seguente, Sherlock aveva preparato la colazione ogni
mattina, per
farsi perdonare il presunto torto nei confronti di John che lo aveva
spinto ad
andar via.
Accantonò anche l’ipotesi esperimento.
Sherlock non si sarebbe sottoposto a tre pasti regolari al giorno, alla
fila alle
casse di Tesco e al rassetto completo della casa ogni sabato solo per provare una teoria.
Dopo quei sette giorni, John ci rinunciò. Per un bel
po’.
Il giorno del
loro matrimonio, fu la volta più imbarazzante di tutte.
Erano davanti all’officiante, un radioso Greg Lestrade al
massimo del suo
brizzolato fascino, e intenti nel commovente scambio di promesse. La
mano di
Sherlock era su quella di John e quella di quest’ultimo era
avvolta
nell’abbraccio delle lunghe dita del detective.
Sherlock stava parlando e John faticò a tenere il passo con
le sue parole, così
affascinato dal movimento di quelle labbra da non avere occhi per
nient’altro.
Oltretutto, era oltremodo impegnato nell’elaborare una scusa
convincente per
quel bacio che tutti si aspettavano e che sarebbe stato sostituito da
un
abbraccio previsto da nessuno.
Quando Sherlock infilò l’anello al suo anulare,
con un sorrisetto soddisfatto
che sembrava gridare felicità e incredulità allo
stesso tempo, John si
risvegliò dal suo torpore e riportò alla mente la
sua promessa, pronunciandola
con voce incerta e infilando con mano tremante la fede al dito di
Sherlock.
Guardò il detective negli occhi e gli sorrise, titubante,
come se non
desiderasse essere in nessun’altro posto e allo stesso tempo
non aspettasse
altro che essere inglobato dal pavimento sotto di lui. Sherlock gli
sorrise a
sua volta, per nulla turbato e perfettamente a suo agio, stranamente,
tra la
folla, e allargò le braccia.
In quell’esatto momento, accompagnato dall’
imbarazzante ‘puoi abbracciare lo
sposo’ di Greg, Sherlock lo cinse dolcemente in
un abbraccio. Fu una stretta che John ricambiò con
titubanza, anche se non
certo legata ai suoi sentimenti per il neomarito,
cercando in ogni modo di non guardare la folla in quel momento intenta
ad
osservarli. Poteva quasi sentire i pensieri dei presenti, intenti ad
arrovellarsi
sui possibili motivi per il quale quei due sposini tanto carini non
potessero
lasciarsi andare ad un bacio appassionato.
Quando si separarono, tentò di non distogliere lo sguardo
dagli occhi di
Sherlock, nemmeno per guardare in faccia Lestrade. Cercò di
guardare in faccia
meno gente possibile, in verità, sperando nella buona
creanza degli invitati
nel non fare domande imbarazzanti. Andò bene, comunque,
almeno fino alla fine
del ricevimento.
Fu Harry a spezzare l’idillio, fra tutti.
”Cos’hai, l’herpes?”
domandò.
John si chiese perché mai non fosse nato figlio unico.
Dicono che da vecchi
tutte le domande della vita trovino una risposta.
Quando sei bambino non puoi capire,
da ragazzo non vuoi, da adulto sei
abbastanza maturo da poter rifiutarti
di comprendere. Da vecchio è come se avessi le spalle al
muro, incapace di
tornare indietro e impossibilitato a rimandare a domani ciò
che potresti fare
oggi. Perché domani
è un tempo
talmente lungo che potresti rischiare di non arrivarci.
A Littlehampton, nel Sussex(1), c’è un clima
umido, tanto da penetrarti nelle
ossa. Piove da due giorni e ancora non ha smesso, come se il cielo
avesse tanta
di quella pioggia in esubero da non potersi permettere di tenerla
lassù un
altro po’.
La pioggia che s’infrange sulle onde marine crea un suono che
John
descriverebbe come angelico. Sono
poche gocce su una distesa infinita d’acqua e probabilmente
non producono alcun
suono realmente udibile. John però lo sente, lo percepisce, ed è simile ad una
partitura per violino, di quelle che
Sherlock aveva scritto solo e soltanto per lui.
Tic, tic, tic, tic.
Non si muove. E’ tutto così calmo, tranquillo, in
quella stanza. C’è
un’atmosfera surreale che teme possa infrangersi, se solo
provasse a muovere un
solo muscolo per compiere un qualunque movimento. Anche se fosse, non
ha
abbastanza forza per alzare anche solo un dito.
Sherlock è sulla sedia a dondolo vicino alla finestra.
Guarda le gocce
scivolare lungo i vetri, come se stesse prevedendo la traiettoria di
ognuna.
Più probabilmente sta ripensando alle parole del Dottor
Chelmey, nonostante
John possa vedere l’evidente guerra che adesso si sta
disputando nel cervello
del suo ex-detective. Non vuole pensarci. Però ci pensa. E
si odia, per questo.
John non ha idea di cosa il dottore abbia detto, ma non ha poi
così tanto
bisogno di saperlo. E’ un medico anche lui, anche se sia
Chelmey che Sherlock
sembrano averlo dimenticato, con il loro ostinarsi a volerlo tenere
all’oscuro
delle sue condizioni.
Spera di aver tempo per poter vedere la primavera, John.
C’è un albero bellissimo fuori dalla finestra
della stanza da letto. E’ un
ciliegio e in primavera si riempie di fiori dai petali rosa, che quando
c’è un
po’ di vento volano dritti nel loro letto. Gli manca,
svegliarsi accarezzato da
quei petali.
Manca poco a Marzo. Farà forza su se stesso, anche per una
manciata di giorni
appena. Lui può.
Tossisce contro il suo fazzoletto, soffrendo immensamente nel portarlo
alla
bocca, ma non guarda sulla superfice chiara della stoffa se ci sia
sangue come
tutte le altre volte. Dopotutto non serve a niente, solo a darsi una
preoccupazione che non ha senso di esistere. Non a questo punto. Il
rumore
spinge Sherlock a voltarsi verso di lui.
Si alza dalla sedia a dondolo, che continua a oscillare fino a
fermarsi,
andando a sedersi al suo posto accanto a John. Il lenzuolo è
freddo, senza
Sherlock sopra. Ora va meglio, molto.
Sherlock allunga una mano verso il viso del suo dottore e lo sfiora
piano, con
devozione, come fosse fatto di una porcellana tanto fragile da
infrangersi al
primo tocco. Il sentiero che l’ex-detective percorre sulla
pelle di John non è
lineare, interrotto da rughe profonde e solchi innaturali della pelle.
John si chiede cosa dirà, per prima cosa.
E’ indeciso fra ‘sei
sciupato’, ‘dovresti
mangiare di più’ e ‘vuoi che ti aiuti ad andare in bagno?’.
Quello che invece Sherlock dice, lo sconvolge e commuove.
“Sei bellissimo,
John”.
John non sa cosa dire perché è consapevole che
Sherlock non lo stia prendendo
in giro. Lo guarda a bocca leggermente aperta e cerca parole da dire,
espressioni da assumere, qualcosa da fare. Non ci riesce, per quanto
tenti.
”L’ho pensato ieri. L’ho pensato per
tutta la vita” Sherlock bisbiglia ancora,
sdraiandosi accanto al suo dottore, “L’ho detto
oggi. Te lo dirò domani. E il
giorno dopo ancora”.
Sherlock si avvicina dolcemente a John e lo cinge all’altezza
della vita,
attento a non rimuovere nemmeno uno dei fili a cui il dottore
è collegato.
Cerca di ignorare ogni altro rumore nella stanza, John, a parte quello
del cuore
di Sherlock e del proprio. Forse forse, concede una
possibilità solo alle gocce
di pioggia.
Bum Bum Bum Bum, Tic, Tic, Tic, Tic.
John non sa cosa stia succedendo ma può solo immaginarlo.
Vorrebbe che Marzo
fosse adesso, perché forse non è così
vicino come crede.
Sherlock è vicinissimo. Il suo profumo è sempre
lo stesso di quando era giovane
e questo rassicura John più di qualunque altra cosa. Si
sente a casa, con suo marito
accanto.
Vorrebbe chiedergli perché
ma si
ferma prima di poterlo fare. Non sa se vuole, e probabilmente Sherlock
gli
mentirebbe. Lo fa più adesso che negli anni passati. John
non sa se esserne
felice o meno.
”Sherlock” sussurra solo e non ha bisogno di
nient’altro che il suono di quel
nome per non aver più alcun timore, “Sherlock”.
Sherlock alza lo sguardo e scosta un ciuffo di capelli bianchi dalla
fronte di
John. E’ un gesto che, da parte di Sherlock, equivale al
più tenero dei ‘ti amo’.
Ed è in quel momento, che qualcosa succede. La pioggia
diventa più forte, tanto
che il rumore delle gocce nel mare viene completamente coperto da
quello
dell’acqua contro i vetri. Anche il ramo di ciliegio si piega
a quella raffica
improvvisa.
Sherlock è vicinissimo al viso di John e lo scruta con
un’espressione che
nasconde amore e rimpianto. Ci sono due Sherlock, in quel viso, quello
che non
ha paura di niente e quello che ha timore di ogni cosa. Non trovano un
equilibrio tra loro e si alternano, veloci e impercettibili.
Improvvisamente, le labbra di Sherlock si posano su quelle di John e le
baciano
con tenerezza, suggendole dolcemente e con riverenza.
Non c’è lussuria, né altro sentimento
diverso dal puro affetto. Eppure è
meraviglioso così com’è.
John ha paura, ma una paura buona, quella che ti coglie appena un
momento prima
di abbandonarti all’amore di qualcuno, quello che ti prende
allo sprint finale
di una corsa quando temi di non aver più forza per arrivare
al traguardo.
E’ il timore dello scalatore che, arrivato finalmente in cima
alla montagna,
teme che il panorama da lassù non valga la pena passata per
raggiungerla.
Per questo bacio, la pena è valsa. Completamente.
Sherlock non vorrebbe mai separarsi da John e il dottore darebbe
qualunque cosa
affinché quel momento non abbia mai fine. Ed è
quando Sherlock è di nuovo così
lontano da poterlo guardare negli occhi senza aver bisogno di
chiuderli, che
John finalmente ricorda.
E’ sempre stata lì, la risposta a quel perché
mai posto.
Aveva dato a quel ricordo, a quell’affermazione di millenni
prima, un valore
minore di zero. Aveva rimosso quel pomeriggio dai suoi pensieri,
limitandosi ad
archiviarlo nei giorni senza importanza,
quelli in cui Sherlock si sbizzarriva nel porgli gli interrogativi
più
disparati, ma senza un senso logico o una qualche rilevanza.
Un giorno come tanti. Un giorno che avrebbe dovuto ricordare e che
aveva dimenticato.
Quasi piange, quando Sherlock gli sorride. Sa benissimo che ha capito
sin da subito
a cosa stesse pensando. Sa bene quali tasselli stesse recuperando per
ridonare
un’immagine omogenea ai pensieri di John.
”Siamo davanti casa tua, John” Sherlock sussurra
contro le sue labbra,
dolcemente, “E’ stata una bella serata, la
nostra”.
E’ vero, lo è stata. Non sono andati al cinema
come due bravi fidanzatini, ma a
John non è dispiaciuto affatto. Hanno rinunciato a cene
romantiche per correre
dietro ad un ladro di gioielli, un serial killer o un imprenditore
truffaldino.
Hanno sofferto più di quanto abbiano amato, ma è
qualcosa che John crede sia
insito nella natura di qualunque rapporto concernente Sherlock Holmes.
Lui ha
voluto pagarne lo scotto e non se n’è mai pentito.
Una bellissima serata. Lunga quarant’anni e poco
più.
Sherlock gli accarezza i capelli. Poi lo bacia di nuovo, come per
ribadire il
concetto, come se a John non fosse risultato abbastanza chiaro.
Di nuovo le labbra s’incontrano e nulla più.
E’ quasi più bello di quello
precedente, ma non lo supera per poco. Il primo è sempre il primo.
Il ramo di ciliegio sbatte ancora contro la finestra e sembra
incoraggiarlo. John
non ha il cuore di deludere quei fiori che arriveranno. E
più di tutto, non ha
il coraggio di deludere Sherlock.
Gliel’ha detto con gentilezza. Con il più dolce
dei gesti. E adesso John non
può non accontentarlo, perché non sarebbe giusto.
”Non voglio che tu vada via”.
John non lo farà.
E quandò muoverà un passo per andarsene, ormai
agli sgoccioli del tempo,
guarderà Sherlock.
E lui gli donerà un altro bacio.
1) Vi rimando ad una fanfiction meravigliosa della mia Rosieposie77, ambientata nel Sussex, che non potete assolutamente perdere: Il grigio sui nostri capelli.