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Autore: kenjina    28/07/2013    6 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Pietra

-  sequel di Betulla -

 

Salve a tutti, popolo di Arda!

Come promesso e minacciato, sono tornata a scrivere della Terra di Mezzo e dei suoi splendidi personaggi.

Mi ripeterò, ma eccomi qui, umile e devota ammiratrice del Professore, che ha sempre avuto la brutta abitudine di far morire i miei personaggi preferiti – cosa per cui sono qui, a scrivere di loro.

Prima di tutto vorrei dirvi che non è necessario aver letto prima Betulla, ma consiglierei comunque a tutti di farlo, perché alcuni personaggi e avvenimenti narrati in Pietra sono direttamente legati a quella; ma ho cercato di essere esaustiva e chiara anche per coloro che non hanno letto la precedente fan fiction e che non ne hanno intenzione.

Ad ogni modo, sono disponibile per chiarimenti.

Come avevo fatto per Betulla, mi sono riletta libri, Appendici e contro-Appendici, scritta date e nomi per non fare disastri, e così via. Lo spunto per questa storia è nato da quel poco che il Professore scrive di Gondor dopo la Guerra dell’Anello, e dal profondo amore che ho sempre nutrito per Thorin Scudodiquercia. Ho fatto due più due, ed è nata questa cosa.

Ri-citandomi, spero di non fare un completo disastro.

A fine capitolo troverete ulteriori spiegazioni a domande che, sicuramente, vi sorgeranno spontanee.

Ultima cosa, ma non meno importante: gli aggiornamenti. Ho scritto i primi cinque capitoli, che devo rivedere per bene e capire se posso o meno tagliare, aggiungere, modificare, e sono parecchio lunghi, come il primo. Spero di mantenere un buon ritmo di un capitolo ogni due settimane. Ma come per Betulla, state pur certi che la finirò. :)

Buona lettura!

 

 

 

01.

15 Marzo 3019 T. E.

 

C’era un caldo pazzesco, quel giorno. Il sole era tramontato da un paio d’ore e le tenebre stavano ricoprendo Erebor, illuminata solo dagli incendi e dalle fiaccole degli eserciti combattenti. Il manipolo di Esterling era instancabile e continuava ad attaccare regolarmente le schiere difensive della città dei Nani; tutti i bambini e le donne di Dale erano stati fatti rifugiare all’interno della Montagna Solitaria, e i suoni della battaglia giungevano ovattati e terribili alle loro orecchie; avevano fatto in tempo a scappare grazie alla presenza del fiume ben controllato, e fino a quel momento invalicabile; gli Esterling avevano tentato prima con catapulte rudimentali ma efficaci, abbattendo alcune torri di vedetta; poi si erano fatti avanti gli arcieri, posizionati su una collina non poco distante dalla riva, lanciando una pioggia di dardi infiammati sulla città. L’incubo del fuoco tornò a tormentare gli abitanti dopo qualche centinaio di anni, memoria di un Drago che aveva ridotto in cenere metà degli edifici e ucciso altrettanti cittadini. La battaglia si era poi spostata ai piedi di Erebor, i giganti Nani di pietra che vigilavano sugli eserciti e parevano un monito contro chiunque osasse profanare quella casa.

C’era un caldo pazzesco, eppure molti degli Uomini tremavano per la paura, gocce fredde di sudore che bagnavano il viso e la schiena. Gran parte di quell’esercito non era formato da milizie addestrate, ma da pescatori e mercanti che brandivano zappe e archi, piuttosto che spade e scudi. Eppure il loro re, coraggioso come i suoi predecessori e non meno valoroso, continuava ad incitarli per non perdersi nella disperazione. Molti sarebbero morti, quel giorno, ma sarebbero usciti vittoriosi se nessuno di loro avesse mollato.

I Nani che combattevano al fianco degli Uomini, d’altra parte, avevano i piedi ben saldi al terreno, stringendo asce e i denti in attesa che il Nemico si facesse sotto nello scontro corpo a corpo. Non avrebbero mai creduto che la mano di Sauron si sarebbe estesa fin sopra il profondo Nord, ma notizie inquietanti provenienti da Sud raccontavano della presenza del Male, tornata ad infestare la vecchia roccaforte di Dol Guldur. Avevano, quindi, avuto il tempo di armarsi e preparare il comitato di benvenuto alle porte della loro città, per evitare che il Nemico osasse anche solo mettere gli occhi sulla loro Erebor.

Thorin Scudodiquercia, questo, non lo avrebbe mai permesso, finché il sangue di Durin gli fosse scorso nelle vene.

«Non riusciremo a resistere per molto.» disse Brand, asciugandosi la fronte con la manica della camicia che fuoriusciva dall’armatura. «Loro sono troppi e ben armati; noi siamo pochi e già sfiniti!»

«Parla per te, Uomo!» esclamò Dwalin, sputando per terra. «Quei maledetti non lasceranno il campo di battaglia vivi, finché i Nani saranno in piedi. E ti assicuro che siamo solidi quanto le rocce di questa montagna!»

Brand sembrò rilassarsi a quelle parole, ma gli ennesimi canti di guerra del Nemico e il suono dei tamburi gli fecero tremare le vene ai polsi.

«Che cantino pure!» esclamò Fili, nipote del Re dei Nani. «Voglio vedere come canteranno di dolore appena li trafiggerò con le mie lame!»

Il fratello, armato di arco, mirò all’Uomo nero che batteva ritmicamente un pezzo di legno contro la percussione. I canti s’interruppero bruscamente, quando quello cadde a terra senza vita, con una freccia in gola.

«Ora non cantano più!» fece Kili, con un ghigno.

«Bel lavoro, scellerato.» lo rimbeccò lo zio, quando vide l’esercito nemico avanzare con più forza e rabbia di prima. «Ce li troveremo addosso in un istante, ora. Serrate i ranghi e preparatevi allo scontro!» concluse Thorin, gridando gli ordini ai suoi Nani e agli Uomini.

«Arcieri in prima fila, presto!» aggiunse Brand.

La nuova ondata si abbatté su di loro qualche minuto più tardi, e continuarono a combattere fino al sorgere del sole, quando gli Esterling si ritirarono verso i loro accampamenti, aspettando il momento più opportuno per attaccare nuovamente.

La battaglia proseguì per i successivi due giorni; Uomini e Nani erano esausti e, nonostante le parole di incoraggiamento, non riuscivano a vederne la fine. Gli Esterling sembravano moltiplicarsi giorno dopo giorno, quando nuovi arrivi rimpiazzavano i caduti; loro, invece, diminuivano a vista d’occhio, e nessuno giungeva in loro aiuto. Gli Elfi Silvani avevano i loro grattacapi da risolvere; e comunque Thorin non sperava certo che Thranduil decidesse di sacrificare la sua gente per salvarli – non lo aveva fatto in passato, non vedeva come avrebbe potuto farlo ora.

L’alleanza arretrò visibilmente, e fu allora che il Re degli Uomini cadde, trafitto al petto da una spada nemica. Thorin gridò il suo nome, lanciandosi contro l’assassino e uccidendolo con la sua furia rabbiosa. Si voltò verso il cadavere dell’Uomo e si chinò per sincerarsi che fosse ancora vivo. Ma ormai non vi era più aria nei suoi polmoni, ma solo sangue.

«Zio, presto! Dobbiamo rifugiarci nella montagna!» gridò Kili, cercando di ridestare il Re.

Ma Thorin non voleva muoversi dal suo posto. Si alzò per fronteggiare le orde di Esterling che avanzavano verso di lui, perché non avrebbe permesso che il Nemico si facesse beffe del corpo straziato del capo degli Uomini, che tanto valorosamente aveva combattuto al suo fianco e dato segno di una profonda amicizia.

«Zio, per Durin! Ordina la ritirata!»

Thorin strinse l’ascia in una mano e la sua spada Orcrist nell’altra, digrignando i denti. «Non mi nasconderò come un codardo, e nessuno di noi lo farà!»

Kili e Fili si scambiarono un’occhiata perplessa e preoccupata, ma non osarono ribattere al volere del Re. Conoscevano bene loro zio e sapevano anche che il suo orgoglio era ben più grande del tesoro di Erebor. Gli si affiancarono, dunque, e combatterono insieme per difendere la loro casa e il corpo di Brand.

Ma anch’essi, dopo poco tempo, vennero sopraffatti dalla forza nemica, e i due fratelli non videro in tempo che Thorin fosse caduto sulle ginocchia, gravemente ferito al fianco. La collera e la paura che potesse morire li colse, come tanti anni fa durante la Battaglia dei Cinque Eserciti, e troppo preoccupati per la sua sorte non si accorsero dei due Uomini neri che erano pronti ad uccidere anche loro.

 Thorin tentò di metterli in guardia, ma si sentì improvvisamente debole e nessun suono fuoriuscì dalle sue labbra. Riuscì a malapena a vedere la figura sfuocata di un Nano – o presunto tale – che si frapponeva tra loro e gli Uomini dell’Est. Lo vide agitare la sua ascia con vigore, finché non decapitò i nemici e si voltò verso di lui. Scorse solo i contorni di un volto insanguinato, poi il buio.

Il comando fu preso dall’anziano e saggio Balin, che ordinò a Nani e Uomini di rifugiarsi dietro le porte di Erebor. L’assedio durò per altri dieci, infiniti e sfiancanti giorni, fin quando le voci della sconfitta di Sauron iniziarono a circolare tra gli Esterling; furono momenti di agonia, in cui Nani e Uomini sprecarono tutte le loro energie per difendere l’unica entrata che li separava dalla morte. Nessuno, al di fuori dei legittimi proprietari e dei loro alleati, riuscì a varcare le porte di Erebor. Fu così che, vedendo l’esercito dell’Est entrare nel panico e nella disperazione, i Nani e gli Uomini fecero l’ultimo sforzo, uscirono dai confini della montagna e spazzarono via gli ultimi residui del Nemico, che scappò verso le proprie terre.

Thorin, reggendosi con un braccio sulle spalle dei nipoti, camminò sotto la luce dell’alba e guardò la desolazione della valle ai piedi della montagna. L’odore acre della battaglia, intrisa di fumi e del ferro del sangue, quasi lo nauseò. Quanti coraggiosi soldati erano morti, mentre lui poteva ancora camminare sulle sue gambe, anche se ancora malferme! Vide i volti di giovani ragazzi con gli occhi spalancati dal terrore della morte, teste tagliate e calpestate, lame spezzate. E si chiese se ci sarebbe mai stata una fine a quegli orrori.

«Mio signore.»

Il Nano si voltò verso il figlio del defunto Brand, Bard II, e il nuovo Re di Dale. Era provato profondamente da quella battaglia, ma non vi erano gravi ferite fisiche. Il dolore che gli lesse negli occhi, infatti, proveniva dal cuore, straziato dalla morte del padre. Thorin spostò una mano dal braccio di Fili a quello del ragazzo, sull’orlo delle lacrime. Bard cadde ai suoi piedi e pianse finché non ebbe più forze. Pianse per la rabbia e la gioia contemporaneamente. Ma quanto avevano dovuto sacrificare per quella vittoria!

«Fatti forza, ragazzo.» gli disse. «Tuo padre fu un valoroso Uomo; mi aspetto che anche tu lo sia e renda onore al suo nome. Sei un Re, ora.»

I giorni successivi trascorsero lenti; tutti coloro che potevano ancora stare in piedi, furono costretti a lavorare per sgomberare i cadaveri. Gli Esterling vennero impilati l’uno sull’altro, e dati alle fiamme; centinaia di fosse, invece, furono scavate per gli Uomini e i Nani di Dale, e i funerali vennero celebrati quando anche l’ultimo dei caduti venne tumulato.

Thorin tenne un lungo discorso, che li commosse tutti. Ma vi era ancora la forza dei Durin nelle sue parole e nel suo sangue, e promise che insieme avrebbero ricostruito tutto ciò che era andato distrutto. Poiché l’amicizia tra Nani e Uomini era più salda che mai, e si sarebbero rialzati insieme dopo quella brutta caduta.

 

 

7 Aprile 3019 T. E.

 

Le cime dei colli innevati brillavano sotto il tenue sole primaverile. Un vento fresco soffiava da nord, incanalandosi all’interno del cerchio di rilievi e soffiando attraverso i corridoi della Capitale. L’esercito del loro Re, Dáin II Piediferro, era appena rientrato in città, dopo i funerali di Brand e le cerimonie di vittoria ad Erebor. Avevano combattuto valorosamente al fianco dei loro cugini della Montagna Solitaria, ma purtroppo alcuni di essi non avevano fatto ritorno sulle proprie salde gambe.

Le alte pareti in pietra della città erano state tempestivamente tappezzate di decorazioni in ferro e oro, bassirilievi che raccontavano i momenti salienti della battaglia – dall’assedio alla vittoria, e le numerose torce sospese sulle loro teste riflettevano su di essi, creando incredibili giochi di luce. La città dei Colli Ferrosi non era maestosa e luminosa come Erebor, piuttosto era grigia e tetra per il ferro contenuto nelle montagne; ma quel giorno era speciale, e persino Re Thorin avrebbe dovuto capitolare alla maestosità di quel luogo. La grande rampa che girava in ampi cerchi concentrici scendendo vertiginosamente fino alla grande piazza, e su cui si affacciavano le gallerie delle abitazioni, le botteghe e gli ingressi alle miniere e alle fucine, era affollatissima e chiassosa. Neanche durante i giorni di mercato e di fiera c’era così tanta ressa.

Tra una gomitata e l’altra, una giovane tentò di farsi spazio tra la calca di Nani accorsi per salutare i guerrieri e per piangere i caduti. Il fratello minore, troppo piccolo per partire in guerra, le teneva saldamente la mano, timoroso di perdersi tra tutta quella gente.

«Ancora un piccolo sforzo, Trión, siamo quasi arrivati.» gli disse, rincuorandolo. Si affacciarono un attimo, per rendersi conto a che altezza fossero e quando mancasse alla piazza dove si erano riuniti i soldati, e videro che erano davvero vicini; ancora una decina di piedi e sarebbero giunti. Gli occhi del piccolo nano si fecero grandi per l’emozione. Non vedeva l’ora di riabbracciare il padre e i loro fratelli, che da troppo tempo non facevano ritorno a casa. Ma Trán, la ragazza, aveva il brutto presentimento che non avrebbe ritrovato tutti i membri della sua famiglia. Il suo pessimismo era rinomato, tra i pochi che la conoscevano, e anche quando le possibilità che qualcosa potesse andare storto erano veramente poche, lei riusciva a vedere nero.

Quando finalmente superarono il muro di Nani, si guardò frettolosamente intorno, nella speranza di riconoscere il viso di uno dei suoi fratelli, o del padre. Vagabondarono per parecchi minuti, prima di intravvedere il maggiore, Tarón, e gli saltò sulle spalle, mentre l’altro gli si era attaccato ad una gamba.

«Piccole pesti! Finalmente ci ritroviamo!» esclamò il soldato, abbracciandoli entrambi. «Káir, Káel! Venite qui!»

Gli altri due fratelli si unirono all’abbraccio di gruppo e Trán si sentì così rincuorata di averli tutti lì, con lei, che pianse per la gioia. Eppure, mancava ancora una persona per completare quel quadro di felicità, qualcuno di ben più importante per tutti loro. Quando il padre si fece avanti, Trán rimase senza parole per il dolore e il sollievo, contemporaneamente. Il vecchio Nano apparì stanco e con vistose cicatrici fresche sulle braccia e sul viso; ma ciò che le strinse la bocca dello stomaco fu una benda nera che gli copriva l’occhio sinistro.

«Padre!» esclamarono i figli minori.

«Cosa ti è accaduto?» gli domandò Trán, accarezzandogli il viso segnato dalla stanchezza e dai ricordi di guerra.

L’uomo sorrise, scuotendo il capo. «Niente, piccola mia. Ho solo fatto il mio dovere.»

«Ha salvato la vita al Re di Erebor e ai suoi nipoti.» le sussurrò Káir, fiero. «Ma non vuole che si venga a sapere.»

«Ma, padre! Sei un eroe di guerra, tutti devono saperlo! Verrai premiato per ciò che hai fatto!» esclamò Trán, felice e stupita. I fratelli non poterono resistere alla tentazione di sognare montagne d’oro come ricompensa.

Ma il padre scosse il capo. «No, non voglio ringraziamenti e onori. Chiunque altro lo avrebbe fatto al mio posto, figli miei.» replicò lui. «Ora andiamo a casa, sono affamato e fiacco.»

Tarón si rianimò al pensiero del cibo. «A proposito, cosa c’è per cena?»

«Ho preparato una zuppa di ceci e carote.»

Il più piccolo storse il naso. «La cucina da quando siete partiti, non ne posso più.»

«Beh, conosciamo tutti le inesistenti doti culinarie della nostra sorellina; devi ringraziare di non essere morto di fame.» commentò Káel. «A proposito, quanti maschi hai picchiato, mentre eravamo via?»

«Potresti essere il primo, se non la smetti.» fu la pungente replica della gemella, che gli assestò un poderoso pugno su un braccio. Se non fosse stato per l’armatura che ancora indossava, il giovane Nano si sarebbe ritrovato con un altro livido violaceo.

Il fratello l’avvicinò con un braccio sulle spalle e la baciò tra i capelli rossi. «Anche tu mi sei mancata. Non i tuoi gesti d’affetto, però.»

Trán ridacchiò, abbracciandolo forte. Tra tutti loro, Káel era quello che più le era mancato, e per un ovvia ragione: erano nati a distanza di pochi minuti l’uno dall’altra ed erano coloro che si sostenevano a vicenda, in ogni situazione. I Colli Ferrosi non avevano mai conosciuto una coppia di amici più veri e sinceri dei due.

La ritrovata famiglia avviò lentamente verso la propria abitazione. Si trovava piuttosto in alto, rispetto alla piazza centrale, su cui invece troneggiava l’ingresso verso la residenza reale. Era una casa abbastanza grande, scavata dalle abile mani del loro bis-nonno, e a discapito di quanto si potesse dire sui Nani e la loro concezione di ordine, era pulita e spaziosa; il motivo era piuttosto ovvio, se si guardava il loro albero genealogico: il sangue Elfico che gli scorreva nelle vene, infatti, pur non essendo prevalente da tre generazioni, aveva comunque lasciato il segno – anche nei rapporti con il resto dei Nani.

La giovane non si sentiva così felice e leggera da quando le notizie di quel lontano nemico erano giunte ad oscurare i loro animi. Si fermò a guardare la sua famiglia, seduta intorno al tavolo della cucina, che sorseggiava quella zuppa non troppo appetitosa, lasciandosi sfuggire un luminoso sorriso.

Il resto divenne improvvisamente solo uno sbiadito ricordo.

 

 

8 Maggio 3019 T. E.

 

Vi erano notti in cui, quando chiudeva gli occhi e si lasciava abbandonare tra le braccia del sonno, riviveva i momenti salienti della giornata appena trascorsa: le riunioni con il Re e gli alleati, le discussioni con i propri soldati, le decisioni quotidiane di un Sovrintendente e Signore di una delle più belle città della Terra di Mezzo.

Vi erano notti in cui, invece, non sognava – o così gli pareva la mattina seguente, poiché non ricordava neppure un frammento di immagini. A volte sentiva solo la sensazione piacevole o meno di un sonno tranquillo o agitato, ma niente che potesse aiutarlo a rammentare ciò che aveva immaginato.

E infine vi erano notti come quelle, in cui ricordava perfettamente cosa aveva sognato; notti in cui quegli stessi sogni parevano talmente realistici da lasciarlo senza fiato, sudato e tremante per l’angoscia. Poiché erano passati parecchi mesi dall’accaduto di Amon Hen, quando il germe del Male che si era insinuato in lui aveva preso il sopravvento e lo aveva portato ad aggredire Frodo, nel vano tentativo di impossessarsi dell’Unico Anello; ma la sua mente e il cuore faticavano a lasciarsi alle spalle quel passato che invece tornava a tormentarlo sovente.

Boromir osservò la volta a crociera in pietra di quella stanza che non era la sua, e sospirò pesantemente. Neppure in quel periodo di pace, giunto dopo tanta sofferenza e tante morti, il pensiero del Flagello di Isildur lo lasciava in pace. Eppure non lo sorprendeva affatto: quella, del resto, era la punizione che si era meritato per il suo deplorevole comportamento. Rivivere quei momenti, la paura e la tentazione che quel piccolo ed apparentemente insignificante oggetto gli aveva provocato, era il minimo che potesse sopportare. Qualcuno glielo aveva anticipato, tempo addietro:Non dimenticherai, ma convivrai con i sensi di colpa, tanto che diverranno una scomoda abitudine. Non so se svaniranno una volta che tutto sarà sistemato, se mai dovesse accadere, ma so solo che il tempo non cancella, bensì cicatrizza. Una ferita può non dolerti più da anni, ma le tracce rimangono e ti porteranno inesorabilmente a ricordare. Devi solo trovare la forza di convivere con essi.”

Abbassò lo sguardo sulla figura minuta che gli dava le spalle e dormiva accanto a lui, accovacciata in posizione fetale. Quella stessa persona che lo aveva messo in guardia dai sensi di colpa quando ancora lui era preda del terrore di quelle voci che continuavano ad annebbiargli la mente. Boromir spostò il braccio che teneva sotto la testa, per andare a stringere la donna che gli aveva ridato la vita – letteralmente e moralmente. Brethil si mosse nel sonno, accovacciandosi istintivamente contro il suo petto, ma non si svegliò. A differenza sua, dormiva sempre così profondamente da fare invidia. Solo poche volte si era svegliata di soprassalto, rivivendo la morte di una delle sue persone più importanti, colui che per lei era stato un secondo padre e che il destino aveva voluto se ne andasse tra le sue braccia, davanti ai suoi occhi traumatizzati. Era quasi tragicomico che entrambi soffrissero di incubi come spauriti bambini dopo un racconto spaventoso prima di andare a dormire.

Boromir inspirò profondamente il suo profumo, e si chiese, come spesso accadeva nelle ultime settimane, come avesse potuto trovare una donna come lei, dopo ciò che aveva fatto. Poiché Brethil era stata un dono dei Valar ed era capitata a lui, proprio a lui. Mai, in quarant’anni di vita spesa a combattere e ad asciugare la sua spada dal sangue del Nemico, avrebbe pensato di trovare qualcuno che potesse capirlo più della sua defunta madre o addirittura di se stesso; né che avrebbe amato qualcuno al di fuori della propria famiglia e dei suoi amici. Era sempre stato il migliore nel combattimento, nelle strategie di guerra, nell’incoraggiare i suoi uomini; ma non era mai stato bravo nel campo sentimentale. Cosa poteva saperne dell’amore un Uomo le cui mani erano incallite dall’impugnatura della spada e che passava più tempo a difendere la propria terra? Eppure eccolo lì, ad imbucarsi ogni notte in quella stanza per ricercare il calore di quell’abbraccio che parecchie volte lo aveva confortato. Parlavano a lungo in quegli incontri fugaci, poiché durante il giorno non avevano molto tempo da trascorrere insieme, privatamente. Del resto, lei era la Prima Guardia del Re, e in quanto tale doveva stargli accanto in ogni momento della giornata.

Fece scivolare lo sguardo dalla donna alla finestra di fronte e ciò che vide lo turbò e animò nel contempo. I Campi del Pelennor si stagliavano a perdita d’occhio e in quella cornice di pietre che gli permetteva di osservare il territorio vide i grandi cumuli tombali che, ormai, sorgevano ogni poche centinaia di metri l’uno dall’altro, memorie della grande battaglia combattuta solo qualche mese prima alle porte della città. Accanto ad essi, tuttavia, l’agricoltura stava restituendo i frutti di quella terra martoriata e innaffiata dal sangue di Uomini e Orchi, e il barlume di un futuro più roseo gli scaldò il cuore. Stavano lavorando duramente, giorno dopo giorno, per risollevare le perdite di Gondor, e quelli erano i primi, buoni risultati. Sapeva che sarebbero passati altri numerosi mesi per cicatrizzare tutte le ferite inferte dal Nemico, ma confidava nel suo Re e nei suoi Uomini; e l’Ithilien, che era in mano del fratello e dei Raminghi, aiutati anche da alcuni elfi di Bosco Atro tra cui Legolas, stava già riacquistando quell’aspetto immacolato di un tempo, e addirittura più incantevole, che Faramir tanto amava.

Minas Tirith, d’altro canto, era stata suturata dalle ferite delle catapulte e del fuoco che aveva distrutto mura, edifici e tetti, e ora appariva più bella che mai; per le strade erano udibili musiche e canti, insieme al profumo dei fiori che impregnava l’aria ora pulita e non più fuligginosa. Stendardi con l’Albero Bianco e la corona alata con le sette stelle adornavano gli angoli della città, agitandosi placidi al vento dell’Ovest, proveniente dalle montagne. Boromir non ricordava di aver mai visto la sua patria così splendente e ricca di voglia di vivere.

Quando i primi raggi di sole penetrarono nella stanza, l’Uomo capì che fosse giunta l’ora di tornare ai suoi alloggi e prepararsi per la giornata.

Appena si mosse, Brethil si voltò verso di lui, gli occhi grigi che lo osservavano assonnati. «È già ora di alzarsi?»

«Sì, Éomer e dama Éowyn partiranno tra poche ore.»

La donna si stropicciò le palpebre, sbadigliando e stiracchiandosi. Si mise a sedere, guardando l’Uomo che recuperava la casacca blu e la infilava sopra la maglia color panna.

«Ci vedremo tra poco a colazione. Verrai, sì?» Lei annuì, e lui sorrise. «Molto bene. A dopo, dunque.»

Quando Boromir lasciò la stanza, dopo un fugace bacio sulle labbra, Brethil lo seguì con lo sguardo dalla finestra, e sorrise. Fece scivolare via il sonno sciacquandosi la faccia con acqua fredda e si svegliò di colpo, sentendosi improvvisamente meglio. S’infilò la cotta di maglia che teneva sotto la camicia, e poi la tonaca blu con i pantaloni. Ogni volta che si mirava allo specchio così vestita, non poteva frenare il moto di fierezza che provava nel servire il Re - Aragorn non avrebbe potuto farle regalo migliore. Poi osservava i quattro profondi graffi cicatrizzati che le deturpavano il viso e si ricordava che non tutto ciò che aveva fatto in passato fosse degno di essere ricordato.

Legò in vita la cintura su cui pendeva la sua lhang, Celeboglinn, e fermò il mantello sulla spalla sinistra, con la vecchia spilla a forma di stella, memoria del suo passato di Dùnadan. S’incamminò poi verso la mensa dei soldati, che si trovava al Terzo Cerchio della città, dove era solita fermarsi per fare colazione. Non sarebbe mai andata laggiù se non fosse stato per Aragorn. Era schiva come la Raminga di un tempo, ma egli amava raggiungere i suoi uomini e discorrere con loro nella tranquillità della mattinata, senza corone né titoli. E i soldati sembravano gradire l’umiltà del loro nuovo Re, perché lo sentivano davvero parte di loro.

Incrociò il sovrano a pochi metri dall’ingresso del suo alloggio, nel Quinto Livello, e Aragorn la salutò con un sorriso. «Dimmi, amica mia, quante volte ti ho chiesto di lasciare da parte il tuo ruolo almeno durante l’ora della colazione?»

«Hai ben detto, mi hai chiesto, e io non sono tenuta a rispondere.» Brethil gli si affiancò e camminarono insieme, come ogni mattina. «Il Re sta francamente diventando ripetitivo, mio signore

Aragorn si finse affranto. «Oh, dovrò porre rimedio, dunque. Ebbene, in qualità di Re il mio diventa un ordine, e non una richiesta. Da domani voglio che sia semplicemente Brethil, non la Prima Guardia Reale. Almeno durante la colazione.»

La donna alzò gli occhi al cielo, lasciandosi sfuggire un sorriso. «E sta anche diventando capriccioso, per giunta.»

«Potrei farti tagliare la lingua per questo, ne sei consapevole?»

Si scambiarono un’occhiata divertita e proseguirono la loro lenta discesa della città, in parte ancora addormentata, ma che si stava risvegliando lentamente con i primi rumori di carri e mercanti che sistemavano la merce sui banchetti stradali. Chiunque poteva riconoscere il Re in quell’Uomo quasi anonimo, ed esso salutava chiunque ricambiasse il suo sguardo con un rispettoso inchino del capo. Poiché era lui che doveva inginocchiarsi davanti al suo popolo che così strenuamente aveva resistito agli attacchi del Male, e non viceversa.

Alla mensa trovarono il Sovrintendente, Legolas e Gimli, che discorrevano con i figli di Elrond, in procinto di partire con il Re di Rohan. Salutarono i due nuovi arrivati con sorrisi ed inchini del capo, e Brethil prese posto tra i gemelli.

«Buondì, thêl.» fece Elladan, l’unico dei due che amava chiamarla sorella. «Dormito bene?»

Brethil spostò lo sguardo da Boromir, intento a parlare con Aragorn, e si impose di non arrossire. Per quanto lei e l’Uomo non avessero ancora consumato, il solo pensare che avessero speso insieme l’ennesima notte la imbarazzava tremendamente. Soprattutto se Elrohir sorrideva sornione e si divertiva a prendersi gioco di lei.

«Suvvia, amici miei, non tormentatela oltre.» s’intromise Legolas, anch’esso divertito, eppure incuriosito dalla reazione della donna. Per quanto avesse trattato con gli Uomini, in passato e nel presente, non si sarebbe mai abituato alle loro emozioni. E trovava che quello strano fenomeno per cui il viso diventava rosso per l’imbarazzo, o la rabbia, fosse altamente adorabile.

Brethil riacquistò un poco della dignità di cui andava fiera, e si rizzò sulla sedia. «Ti ringrazio per l’aiuto, mastro Elfo, ma conosco parecchi modi per far smettere questi due. E sono tutti poco ortodossi.» aggiunse, sfiorando l’elsa della sua spada.

I gemelli risero, e il sole parve illuminare la grande stanza.

«E così l’allieva vuole superare i maestri?» domandò Elladan, colpito da tanta audacia.

L’altro si alzò, una mano all’altezza del cuore. «Ebbene, amica mia, ora non possiamo accontentare la tua sete di vendetta, poiché nostro padre ci attende. Ma al nostro ritorno avremo modo di chiudere la faccenda.»

Gimli accese la pipa e sbuffò il fumo con entusiasmo. «Un duello tra due Mezzelfi e la Ragazzina? Legolas, ricordami di svegliarmi per tempo, quel giorno. Non voglio perdermelo assolutamente!»

La Dúnadan rise, ringraziando mentalmente il Nano per non aver fatto commenti sessisti, come quelli che soleva udire in casi del genere. Chiunque, infatti, avrebbe detto che il duello sarebbe stato impari.

Finirono la loro colazione continuando a chiacchierare e a scherzare, come se i brutti momenti di qualche mese prima non fossero mai esistiti. Ognuno di loro, finalmente, poteva godersi la meritata pace e le liete giornate come quelle.

Poi il momento dei saluti giunse, e Brethil si ritrovò avvolta in un alone di malinconia che le serrò il cuore.

«Ci rivedremo presto, thêl, ne sono sicuro.»

«Staremo via solo per qualche tempo, poi faremo ritorno a Minas Tirith. Non possiamo certo pensare di lasciarti!»

Brethil sospirò di sollievo. «La notizia mi rallegra, davvero. Ma mi mancherete.»

Elrohir l’abbracciò e le diede un dolce bacio tra i capelli corti e scuri. «Ci mancherai anche tu, ma sarà per poco. Promesso.»

Lei annuì e il viso si distese, sereno.

«Sai, fratello, sono felice.» confessò seriamente Elladan. «Finalmente la nostra Brethil si è ricordata come si sorride.»

Brethil non si era mai resa conto di quanto difficile fosse stato sorridere in quegli ultimi due anni della sua vita. Aveva persino temuto di essersi dimenticata come fare. Ma gli avvenimenti funesti che l’avevano debilitata, erano stati accompagnati anche da persone splendide come loro, lo Hobbit e Boromir, cosicché era stato più facile risalire a galla da quel mare di dolore e problemi che la stavano soffocando.

E non fu mai così felice di avere quella consapevolezza.

Quando Éomer e la sua scorta lasciarono la Città di Pietra, Aragorn e Brethil si recarono al Primo Livello, per controllare che i lavori alle mura proseguissero per il verso giusto; l’Elessar diede appuntamento al suo Sovrintendente nella Sala del Trono, poiché importanti decisioni attendevano l’attenzione del Re, e desiderava che anche lui fosse presente e lo consigliasse.

Nel frattempo, Boromir rimase con Legolas e Gimli, che osservavano gli Hobbit guardarsi intorno senza sapere esattamente come occupare il loro tempo. Così, l’Uomo mantenne fede ad una promessa fatta a Frodo qualche settimana prima, quando avevano discusso a lungo e avevano chiarito il loro passato.

«Se voialtri vi state chiedendo cosa fare e dove andare, potrei avere qualche risposta per voi. Da troppo tempo vi avevo promesso di spendere del tempo con voi, ma gli impegni mi hanno tenuto lontano dal piacere.»

Frodo gli sorrise grato, e Merry e Pipino gli saltarono al collo per l’entusiasmo di averlo come guida per la più grande e maestosa città che i loro piedi pelosi avessero mai calpestato. L’unico che parve diffidente fu Sam, ma Boromir sapeva che per riacquistare la sua fiducia avrebbe dovuto lavorare sodo. E non era poi neanche tanto sicuro di riuscirci.

«E dimmi, amico mio, cosa vorresti mostrarci?» domandò il Portatore. Le profonde occhiaie di stanchezza e preoccupazione erano sparite dai suoi occhi, ma le fatiche che aveva dovuto sopportare durante il suo periglioso viaggio erano ancora ben visibili: era magro e non riusciva a prendere peso, nonostante mangiasse come si confà ad un Hobbit che si rispetti – soprattutto se Baggins. Il suo più fido amico Sam continuava a portargli cibo, e talvolta si intrufolava nelle cucine per preparare qualcosa di sostanzioso con lei sue mani; ma spesso e volentieri erano Meriadoc e Peregrino a mangiare la porzione di Frodo, mandando il buon giardiniere su tutte le furie.

Eppure, neanche Sam poteva negare che Frodo, in quegli ultimi tempi, fosse più rilassato. Durante la sera, dopo cena, si allontanava spesso con Boromir, per chiacchierare a lungo su chissà quali temi; il giardiniere non poteva accettare un comportamento simile, poiché temeva che l’Uomo potesse aggredire il suo padrone ancora una volta. Ma doveva ammettere che in Boromir non vi era più traccia di quell’ombra che, nell’ultimo periodo del viaggio insieme, lo aveva trasformato in un mostro.

«Vi farò percorrere le strade della mia infanzia. Vi mostrerò dove sono cresciuto, dove sono caduto, dove ho imparato a leggere e a scrivere, dove vinsi il mio primo duello. E poi passeremo al ring di allenamento, accanto all’armeria. Che ne dite di un po’ di pratica, come ai vecchi tempi? Non vorrei che vi arrugginiste.»

I cugini si scambiarono un’occhiata eccitata, e sguainarono le loro piccole spade. «Preparati all’umiliazione!» gridarono in coro, facendoli ridere tutti.

«Sai, Boromir, dovresti seriamente fare attenzione.» lo ammonì Frodo. «Stai osando sfidare uno scudiero di Rohan e un cavaliere di Gondor.»

«Ah!» esclamò Gimli. «Lo Hobbit ha ragione, potresti ritrovarti accidentalmente punto da quegli aghi che agitano come se fossero delle spade!»

«Messer Nano, ne avremo anche per te, sappilo.» disse Pipino, ritirando la sua lucente arma. «Ti taglierò personalmente la barba, con questo coltellaccio!»

Quello si portò istintivamente la mano al mento, borbottando qualcosa. Avrebbe venduto cara la pelle, prima che qualcuno gli tagliasse via la barba. Non solo era simbolo del suo rango tra i Nani, ma gli aveva salvato anche la vita un bel paio di volte.

E poi, la barba gli donava.

 

*

 

Capitolo iniziale in cui succede tutto e niente. Dal prossimo si comincia veramente. Spero che quello che ho in mente sia di vostro gradimento. Ero molto indecisa se iniziare a pubblicarla, perché ho in mente a grandi linee cosa succederà, ma ho ancora numerosi buchi da colmare. Speriamo bene!

Veniamo alle risposte di domande che probabilmente vi siete posti – o che per lo meno, io mi sarei posta. :D

Anche se il libro è vecchio di 76 anni e in teoria non dovrebbe essere una novità, vi avverto che quello che sto per scrivere nelle note è uno SPOILER con i fiocchi, se qualcuno di voi non ha letto Lo Hobbit o le Appendici de Il Signore degli Anelli. Quindi, vi ho avvertiti, occhio. ;)

Come avrete capito, sia Thorin Scudodiquercia che Dáin II Piediferro non muoiono rispettivamente nella Battaglia dei Cinque Eserciti e durante la Guerra dell’Anello (e di conseguenza neppure Fili e Kili). Su Thorin e i nipoti non credo che ci sia bisogno di spiegazioni – li ho resuscitati per lo stesso motivo per cui anche Boromir è ancora sulle sue gambe; per quanto riguarda Dáin ho una ragione ben più pratica: avrei potuto seguire le linee guida del Professore, cioè lasciarlo morente alle porte di Erebor, ma il suo successore sarebbe suo figlio, Thorin III Elminpietra; a mio modesto parere, avere due Thorin sulla stessa scena potrebbe creare troppa confusione, in futuro. Ad ogni modo, è una What if? e tutto è lecito – o quasi. :P

Oh, dimenticavo: ho preso un’altra piccola libertà riguardo la velocità di invecchiamento dei Nani. Nel 3019 Thorin dovrebbe avere la bellezza di 273 anni, un età paragonabile a circa 100 anni umani, dopo una veloce proporzione. Ma io lo voglio giovane e baldanzoso come nel libro e nel film, a parte qualche capello bianco in più, quindi facciamo finta che la durata media di vita per un Nano sia un po’ (molto) più lunga; rimangono mortali, ma invecchiano molto più lentamente rispetto a ciò che il Professore ha scritto.

Ci si legge tra circa due settimane – o, a meno che non avvenga qualche miracolo, anche prima. :)

 

   
 
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