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Autore: _morph_    29/07/2013    0 recensioni
"Viaggio senz'occhi, e non ho la lingua, e grido."
Se il dolore si potesse misurare, non ci sarebbe sicuramente una bilancia adatta per ogni anima he ne richiamerebbe il responso.
Il dolore è imprevedibile.
L'imprevedibilità è spesso violenta.
I risultati indecifrabili.
Il dolore è un'ape.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Bee quella settimana aveva iniziato una nuova terapia, con l'approvazione e il supporto del suo logopedista: psicoanalisi.
I medici sostenevano fosse l'ideale per il suo tipo di problema. Continuavano a pronunciare le stessa identica parola per ognuno dei suoi disturbi.
Nevrosi. Nevrosi. Nevrosi.
Bee non afferrava quel concetto, si sentiva solo molto malata ad essere apostrofata con un epiteto simile; due uomini che, facendola stendere su un lettino, tentavano di comunicare con lei.
Usufruivano del loro tono indifferente e velatamente disponibile; la facevano sentire come se a parlare fosse la sua coscienza, come se rispondendo nessuno l'avrebbe potuta sentire.
Le avevano estrapolato dalle corde vocali delle brevi repliche; bisbigliate con un tono accartocciato e sporco. Le avevano chiesto spesso di ripetere, ma temendo l'errore lei arrossiva. Avvicinava le gambe al petto e lasciava andare la propria posizione comoda e rilassata.
Pensava di aver sbagliato a dare loro tanta fiducia, di aver detto la cosa errata. Di averla detta male.
Ryan sarebbe venuto il giorno dopo e lei non stava nella pelle. Forse era anche quello uno dei motivi per cui si era dimostrata tanto disponibile al "dialogo" quel giorno. E sarebbe stato l'unico, se l'era ripromesso.
Stupida ingenuità, continuava a dirsi.

Il tutto non riguardava solamente una piaga che aveva preso il suo carattere; quel mutismo non era solo un meccanismo di autodifesa, non vi era alcuna sorta di ribellione in ciò che faceva. Più semplicemente, Beatrice aveva paura della sua stessa voce, era terrorizzata da ciò che questa avrebbe potuto fare o le sarebbe stato fatto. Ne odiava il suono, la funzione, il colore, il motivo per la quale veniva utilizzata.

Riteneva che nessuno più dicesse ciò che cera essenziale; che tutti comunicassero sproloquiando sui discorsi, gli oggetti, i soggetti più inutili e successivamente s'intestardissero nel silenziare su ciò che di fondamentale vi era. Lei avrebbe parlato solo nel momento in cui la sua voce sarebbe stata indispensabile, e in un certo senso così era.

Il problema nasceva dal momento in Bee cui si rendeva effettivamente conto di aver emesso dei suoni e per questo si spaventasse; come se la sua voce avesse una qualche sorta di potere. Come se per colpa di questa qualcuno potesse rimanere ferito.

Che c'era poi di tanto strano, si chiedeva, nel voler mostrare discrezione; che c'era mai d'importante da dire in quella pigra e tersa città.
-Ciao!- Bee si risollevò dalle proprie congetture. Il silenzio era andato in frantumi e per questo, ne era convinta, chi aveva parlato era a lei che si rivolgeva.
Sollevò il capo dallo sguardo puntato che teneva verso terra, posandolo sulla figura che le si parava davanti.

Di primo acchito si presentò come uno sconosciuto, al secondo le tornò in mente il colloquio che si era svolto quella stessa mattina, pochi minuti prima in verità, nello studio dello psicologo.
Bee non ricordava affatto il nome del ragazzo, durante la sessione era stato totalmente surclassato dagli altri due medici che c'erano dentro. L'unico dettaglio che le sovvenne fu che lui era lì per un tirocinio, o comunque qualcosa legato alla propria laurea.
A pensarci bene, non c'era motivo per cui lui fosse lì.
-ti ho vista da sola e mi domandavo se non volessi un po' di compagnia per tornare a casa- Beatrice scosse il capo, inorgogliendo il proprio carattere. Le sembrava un oltraggio questo suo parlarle come se lei avesse voglia di comunicare. Come se non si vedesse quest'ostinazione.
Si chiese cosa avrebbe detto Ryan passando di lì. Se gli avrebbe dato fastidio vederla con qualcuno che non fosse lui.
-sei sicura? Io sono proprio di strada- Bee non voleva essere privata del tempo che passava da sola in quel tragitto, ma si ritrovò costretta ad accettare.
Da quando lei e Ryan erano usciti a prendere il gelato, aveva imparato a percorrerla da sola la strada che la portava fino allo studio del proprio dottore, nonostante si trattasse pur sempre di due chilometri.
Lei e il ragazzo camminarono l'uno accanto all'altra, ad una distanza che fu lei a stabilire -io sono Ivan comunque. Prima non ci hanno proprio presentati- Bee annuì, concedendogli un debole sorriso. Era chiaro la sua unica intenzione fosse quella di fare amicizia con lei, di invadere il suo mondo. Ma nella mente di Bee c'erano pochi posti, ed aveva paura fossero tutti già occupati.
-credo tu sia stata molto coraggiosa oggi, credo tu abbia un ampio margine di miglioramento- Bee volse meccanicamente la testa. Era quasi offesa per quella considerazione, affezionata com'era alle proprie particolarità; si sentiva in dovere di proteggerle, di stringerle, di tenersele ancorate a sé. Perché a lei andavano bene, lei non voleva migliorare.
Tornò a guardare a terra, la testa affollata, gli occhi pieni di domande. Avrebbe sicuramente preferito infilarsi le cuffie alle orecchie, cacciare le mani in tasca e proseguire così, come se fosse sola, come se la strada appartenesse a lei.

Le bastò lanciare un'occhiata verso destra per notare il ragazzo in questione camminare sul ciglio di un marciapiede. Le sembrava fosse su una trave, con le braccia allargate per ma tenersi in equilibrio. Aveva un corpo flessuoso, slanciato; il capo era rasato e la pelle diafana. Le sembrava di ricordare fosse russo...
Un tonfo.
Bee tornò a guardarlo e le bastò un secondo per notare un'espressione buffa dipinta sul suo volto, dopo l'avvenuta perdita dell'equilibrio e quindi la fine del gioco.
Le scappò un sorriso, nonostante poi avesse intuito fosse stato fatto apposta per scatenarle una reazione.

Lui piegò gli angoli della bocca di rimando, godendosi quella sua spontanea reazione -ho fatto ginnastica artista da piccolo, credo di aver perduto tutte le mie doti- un riso. Piccolo, impercettibile. E Bee ritrasse poi  le spalle in sé stesse, accartocciandosi.

Passò ancora qualche minuto, quando poi giunse a casa. Gli indicò il portone, dedicandogli poi un modesto cenno per salutarlo.

Ivan tornò indietro, perché alla fine quella non era la sua strada.


~


Sapeva che si sarebbe ritrovata in quelle condizioni. Era inutile fare finta, pulire il bancone della cucina non le avrebbe sicuramente risolto il problema.
Aveva fatto colazione alle 11, perché sperava lui la volesse portare fuori. Aveva saltato il pranzo, credendo potesse arrivare da un momento all'altro. Niente.
Primo pomeriggio e la casa era uno splendore.
Era certa che lui sarebbe arrivato. Era certa venisse a Surrey.
L'unica insicurezza in cui stava affogando la sua mente era la stessa da ore: sarebbe venuto da lei?
Si ricordava forse di averla baciata per primo? E anche per ultimo?!
Strofinò con più impeto una macchia che mai sarebbe venuta via, cacciando poi un urlo fuori dalle corde vocali, percependo sudore e frustrazione scorrerle sulle tempie. La casa era deserta, come ogni giorno.
Sbatté la pezzetta con cui stava pulendo nel lavandino, desiderando poterlo rompere.
Si era dimenticato di lei. Nella sua università, nella sua vita perfetta, lui l'aveva usata. Lui l'aveva dimenticata.
Nel bel mezzo di queste congetture il campanello trillò impazzito, e lei più pazza del campanello si fondò fino all'uscio, la speranza che smuoveva il cuore.
Con gli occhi accesi spalancò la porta, ma un fuoco morì quando la sciatteria della signora Parker non le si parò davanti -stavo portando il cane a fare una passeggiata ed ho sentito gridare; sei sola in casa, cara?- domandò allora, in ansia. Bee pensò che se avesse saputo che era stata lei, probabilmente avrebbe fatto circolare un nuovo gossip riguardo alla sua condotta e stile di vita.
Così negò, pronta a chiudersi tutto alle spalle -sicura? Se ti sei fatta male tesoro puoi dirlo... Ma i tuoi genitori ti lasciano a casa da sola? Sai che quando vuoi puoi venire da me, posso comunque farti compagnia e...-
-buon pomeriggio signora- entrambe si voltarono verso la voce, la vecchia e la bambina. Lo stomaco di Bee si contorse e l'orrore causatole dall'appena iniziato sproloquio di Marie Parker, si dissolse.
-un giovanotto! Non sei forse figlio di Emely e Karl? Sono due persone splendide!- esclamò subito la donna, entusiasta di avere un altro interlocutore.
-sì. Mio padre comunque è John, Karl è suo fratello- mormorò lui, avvicinandosi all'entrata ed accostandosi a Bee, che non tardò a sfiorargli il braccio con la punta dei polpastrelli. Ryan liquidò allora la donna, che però sembrò afflitta al pensiero di non poter aprire un dibattito riguardo a suo padre e suo zio.
Richiuse l'uscio, ricordando delle volte in cui sua nonna aveva inveito in casa, dopo che questa aveva messo in giro l'ennesima falsa voce.
Tornò comunque su Bee, perché quei pensieri durarono un'infinitesimale attimo. La ragazza si era fatta di un passo indietro, come a voler constatare fosse lo stesso uomo che aveva lasciato andare la settimana prima -ti sembro diverso?- domandò allora, allargando di poco le braccia.
Lei scosse il capo, semplicemente pensò fosse bellissimo. Le si avvicinò, gustando la consistenza dei suoi fianchi con le dita, baciandole quella fronte agitata e sempre operativa -ti ho sentita gridare anche io- le mormorò all'orecchio, scostandole poi una ciocca ed infilandola dietro a quest'ultimo.
Si rannicchiò così contro il suo petto, circondandolo con le braccia ossute e rotte. Perché non vedeva l'ora di vederlo, perché non l'aveva dimenticata.
-questa mattina avevo un'esame. Sono arrivato il prima possibile- proseguì, facendo scivolare la mano lungo la sua spina dorsale, tastando la consistenza di quell'anima fragile -per quanto possa importare, mi sei mancata-.
Sollevò allora il capo, sentendo il martellio del cuore nelle orecchie. L'aveva detto davvero?

~


-prima sono passato in studio da tuo padre- esclamò Ryan, quando passeggiando insieme a lei gli venne in mente del colloquio avuto -i miei volevano far fare una visita di controllo a mia sorella e siamo capitati lì-. In realtà la sorella di Ryan aveva ventidue anni, era la gemella, ed avevano entrambi smesso di aver bisogno del pediatra da anni.
Bee si volse, incuriosita dal motivo per cui le stesse raccontando l'episodio. O per meglio dire, sospettosa riguardo al fatto -mi ha detto che stai iniziando una nuova terapia- Bee congiunse le braccia al petto, imbronciandosi. Annuì poi, lentamente -credi che funzionerà?- non poteva coinvolgerlo così nella propria malattia. Le due cose erano nettamente separate e lei rifiutava quel suo morboso interesse. Perché con lui non era se stessa, con lui l'oppressione trovava pace. E lui la stava respingendo nuovamente a terra -Beatrice?-
Bee era lì.
Nella sua piccola stanza. Giù, in fondo, dove non esistono stanze che possano essere recinte da pareti. Dove non c'è niente di libero, perché tutto è intrappolato nella gabbia che lei ha costruito.
L'ha venerata, ha voluto che questa diventasse casa sua. E adesso è fiera di sentirsi dire che resterà per sempre sola.
Crede di essere un po' pazza e invidia le persone che inconsapevolmente sono osservate per questa loro curiosa stranezza.
Anche lei è osservata, ma l'unica cosa che mostra è quella gabbia che tanto le piace. Perché la solitudine è una scelta, si ripete. Ma sei anche marchiato, si convince, e allora è meglio non combattere e lavorare sodo per potersi ritenere liberi di stanziare nella propria trappola.
Lei la adora, lei l'accarezza e vorrebbe non averla dovuta costruire. Ha desiderato potesse essere già stata fatta, ma non ha mai trovato nulla di pronto, lei. Si è dovuta costruire sé stessa, perché la sua nudità in realtà è anoressia di emozioni.
Apatia. Ma lei adesso ha la sua gabbia che sente tutto. La sua ape che respinge ogni coinvolgimento.
In molti hanno tentato di penetrare nella sua stanza fatta di mani spalancate, ma queste hanno schiaffeggiato chiunque si fosse preso la briga di osare una cosa del genere. Perché la gabbia di Bee non la tocca nessuno, perché lei ha faticato ed è fiera di poter dire che non esiste più alcuna Bee.
Ryan le artigliò una spalla, cercando di scrollarla; lei si volse al solo contatto, graffiandogli il braccio e rinchiudendosi ancora. Bee non guardava più nulla.
Il ragazzo accettò allora quella reazione, pensando solo a quanto fosse difficile, a quanto non ne valesse la pena.
Giunsero allora a deistinazione, dove una casupola stanziava tra la vegetazione.
Bee non emise neanche un respiro, limitandosi a gaurdarsi intorno guardinga e accostarsi al ragazzo che si dirigeva verso l'interno.
Dentro facevano circa tre gradi, e Bee si strinse nel maglione che portava.
C'era stato un solo giorno di vero caldo, quello in cui erano andati sul pontile, poi un susseguirsi di mattini e pomeriggi freddi e ruvidi.
Il luogo in cui erano si presentava come un piccolo rifugio; il salottino appena entrati e il cucinotto a destra della stanza, dove a dividerli vi era solo una mezza parete. Oltrepassata l'unica porta presente, sospettava ci fosse il bagno.
Ryan si lasciò andare sui cuscini del divano, osservando la ragazza che, dopo aver chiuso la porta, se ne stava impacciatamente ferma davanti la soglia -questo era stato un punto di ritrovo per tutti gli uomini che si dilettavano nella caccia, finché mia madre non volle rilevarne la proprietà. Pensarono spesso di farci qualcosa, ma alla fine è rimasto un semplice punto in cui si accampavano i miei quando andavano a pescare al laghetto vicino- spiegò, sperando che questo potesse almeno un po' acquietarla.
Quel giorno indossava un paio di leggins neri; Ryan rimase sorpreso di come questi potessero far apparire le sue gambe ancora più minute di quanto già non fossero. Si rialzò allora, andando verso di lei; tanto l'avrebbe sempre avuta vinta quando era sulle spine che navigavano, quindi era inutile continuare a fingere di essere arrabbiato. Lei era più brava di lui nel mostrare indifferenza.
Le sfiorò così le mani, coperte dalla stoffa di quel pesante maglione dal colore discutibile. Si sporse verso di lei, che dal basso della sua espressione imbronciata, sotto le ciglia, non riusciva a non osservarlo. Non riusciva a non sperare si avvicinasse ancora.
Il ragazzo si accostò delicatamente a quei boccioli, carezzandoli e attendendo, finché non fu lei a farsi più vicina.
A Beatrice tremavano i polsi, e debolmente lasciò che le mani scivolassero sulle sue braccia muscolose.
Ryan forzò allora su quelle labbra lasciate socchiuse, passandoci la lingua sul contorno. Percepì subito le unghie irrigidirsi sulla pelle, nonostante poi ricambiasse con piacere quel lento languore che gli si propagava dentro. La fece aderire a sé, accettando il pungente dolore e continuando a farla sciogliere. A far morire quelle costrizioni in cui si rinchiudeva.
   
 
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