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Autore: Arpiria    29/07/2013    2 recensioni
- Ci sono tante persone che ti vogliono bene!-
Il tono dell’infermiera era estasiato, come se stesse rievocando il ricordo più bello della sua vita e non consolando un paziente incredibilmente solo, che non aveva mai ricevuto una visita in vita sua.
- Non lo metto in dubbio!- Confermò Allock, ravviandosi i capelli in un gesto che magari, anni prima, avrebbe fatto impazzire milioni di ragazze, ma che adesso ricordava vagamente lo scuotersi della criniera di un vecchio mulo da lavoro.
{Seconda classificata al contest "Flash Song!" di Bethpotter}
Genere: Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gilderoy Allock
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Allock (Underground)

 
 

Trippin out
Spinning arund
I’m underground
I fell down
Yeah I fell down

 
 
 

- Vedi, Gilderoy…?-
L’ex professore voltò la testa verso l’infermiera che, seduta su una panchina, si teneva in grembo due o tre lettere sigillate.
- Ci sono tante persone che ti vogliono bene!-
Il tono dell’infermiera era estasiato, come se stesse rievocando il ricordo più bello della sua vita e non consolando un paziente incredibilmente solo, che non aveva mai ricevuto una visita in vita sua.
- Non lo metto in dubbio!- Confermò Allock, ravviandosi i capelli in un gesto che magari, anni prima, avrebbe fatto impazzire milioni di ragazze, ma che adesso ricordava vagamente lo scuotersi della criniera di un vecchio mulo da lavoro.
Gilderoy non si sentiva minimamente abbattuto. Magari, se avesse compreso quanto realmente solo fosse, avrebbe potuto anche disperarsi. Avrebbe potuto piangere.  Di Gilderoy, tuttavia, non era rimasto altro che un nome coperto di gloria. Il suo corpo era vuoto e sconsolato, privo di ricordi e di memoria.
La dura realtà era che Gilderoy Allock era morto da anni, ormai.
- Fai il bravo, apri la bocca… ti ho portato lo yogurt ai frutti di bosco, il tuo preferito! Su, caro, dovrai pur mangiare qualcosa per merenda…!-
Allock annuì, ma poi tese la mano verso una delle lettere e si mise a leggerla ad alta voce dopo averla aperta, apparentemente dimentico della sua merenda che andava scaldandosi e perdendo sapore tra le dita della donna. Ella non desistette: raccolse nel cucchiaino la sostanza cremosa e candida e la avvicinò alle labbra di Gilderoy, senza che queste si dimostrassero intenzionate a mangiare. L’infermiera sospirò, evidentemente rassegnata, stringendo di nuovo tra le mani i manici della carrozzina e guidandola verso l’interno dell’ospedale. Iniziava a perdere le speranze sul fatto che Allock sarebbe riuscito a sopravvivere ancora a lungo.
Tra le lettere e le piume d’oca pregiate, si stava lasciando morire lentamente. Era uno spettacolo orribile a vedersi. 
L’infermiera era madre di tre figli, sapeva bene come accudire i bambini (perché, in sostanza, Gilderoy ormai non era molto diverso da un bambino), eppure iniziava a rendersi conto che il dolore provato da quell’uomo andava oltre la sua comprensione di donna. Più di una volta si era chiesta che cosa avrebbero fatto in caso avesse smesso del tutto di mangiare, in che modo avrebbero potuto aiutarlo e, soprattutto, se sarebbe stato giusto farlo.
Se quel pizzico di coscienza che era rimasta a Gilderoy gli avesse suggerito di farla finita, nessuno avrebbe potuto farci niente. Era tremendo, tuttavia, osservare una persona che si lasciava morire di fame; giorno dopo giorno andava consumandosi sempre più, la pelle scivolava via dalle ossa come cenere dallo scheletro di una candela.
Lo condusse nel bagno della sua stanza e, dopo averlo attentamente spogliato, lo sorresse con espressione concentrata, cercando di aiutarlo quanto più le era possibile a fare i suoi bisogni.
“Povero Allock”, pensava ogni sera la donna dopo essersi messa a letto, mentre tentava di ignorare il ritmico russare del marito, “un tempo era così popolare, così famoso... adesso è ridotto ad una specie di vegetale parlante ed egocentrico. Se anche domani mattina avrà bagnato il letto, mi vedrò costretta a mettergli un pannolone.”
La donna avrebbe preferito evitare una procedura del genere, perché sarebbe stata la dichiarazione di morte dell’autonomia di Gilderoy. Certo, anche adesso che era lei a doverlo sorreggere sulla tazza da sotto le ascelle non era comunque quella che si definirebbe una persona indipendente e autonoma.
L’unica cosa che sembrava importargli davvero erano le lettere inviategli dagli ammiratori che era riuscito, non si sa in che modo, a tenersi stretti. C’erano persone che avevano ingenuamente creduto in lui e che se ora avessero scoperto che razza di imbroglione era stato in realtà, lo avrebbero certamente mandato al diavolo, e lui sarebbe rimasto ancora più solo di quanto già non fosse.
Per quanto la riguardava c’era una sola cosa che potesse fare per lui.
 

I’m freaking out, where am I now?
Upside down and I can’t stop it now
Can’t stop me now

 


Gilderoy si strinse le ginocchia al petto, rannicchiandosi in posizione fetale. Quella sera non riusciva proprio a prendere sonno. Nel buio, il ronzio di una zanzara occupava fastidiosamente le sue orecchie e lo induceva ad agitare a casaccio una mano nel vuoto, nella speranza di non essere punto.
L’infermiera l’aveva messo a letto presto, appena dopo aver cercato di convincerlo a mangiare ed essersi ritrovata costretta a imboccarlo, perché era troppo concentrato nel pensare che cosa rispondere alla lettera di una sua ammiratrice arrivata solo nel pomeriggio.
Era ancora instabile sulle gambe, così spesso la sua infermiera lo aiutava a sedersi in una tetra sedia a rotelle e lo portava a prendere aria in cortile, dove si tratteneva un po’, seduta su una panchina, per leggere le lettere degli ammiratori di Gilderoy e fingere di complimentarsi con lui.
Non era rimasto più nulla dell’affascinante mago che era stato una volta. Gilderoy era un uomo spento, leggermente curvo; i suoi capelli, una volta meravigliosamente mossi e corposi, erano ridotti a lunghi spaghetti radi e biondicci che gli ricadevano davanti al viso incavato. Era dimagrito così tanto che, dallo scorcio di petto che rimaneva visibile attraverso l’ampia vestaglia lillà, si intravedevano costole sporgenti. L’unica caratteristica che non lo aveva mai abbandonato era il sorriso luminoso che gli adornava da sempre il viso; peccato che tale sorriso non fosse, in questa circostanza, giustificato da nulla in particolare. Allock aveva perduto la memoria e, con essa, l’uomo che era stato.
Non ricordava chi fosse, che cosa facesse, dove abitasse o come riempisse le sue giornate. Conosceva il suo nome,  certo, ma non la persona che vi stava nascosta dietro.
Era sempre intento a osservare il mondo ad occhi spalancati e a indicare ora questo ora quello, come un bimbo curioso portato per la prima volta al Luna Park dai suoi genitori.
La luna era appena sorta dalla chioma arruffata di una nube. Gilderoy si perse nell’osservare la sua forma tondeggiante, maestosa.
Prima di riuscire ad addormentarsi rifletté, con l’ombra di un sorriso, sul fatto che somigliasse incredibilmente a un pezzettino di formaggio.
- Santo cielo! Com’è tardi, com’è tardi!-
Gilderoy sobbalzò, certo che la voce acuta che aveva appena trapanato le sue orecchie non fosse frutto della sua immaginazione.
Ai piedi del suo letto c’era una minuscola Puffola Pigmea.
“Curioso”, pensò Allock, inarcando un sopracciglio e poggiandosi su un gomito per poterla osservare meglio, “non ho mai sentito di Puffole Pigmee parlanti.”
- Non è mai tardi per un autografo!- Esclamò l’ex professore, tirandosi a fatica seduto sul letto e mettendosi subito a trafficare nel cassetto del suo comodino di un orrido color verde pistacchio alla ricerca della sua piuma.
- Ecco fatto! Dove vuoi esattamente il mio autografo?- Chiese Allock, sorridente.
- E’ tardi, è tardi!-, rispose la Puffola, arruffando il pelo roseo e rotolando frettolosamente fuori dalla stanza. Gilderoy la seguì con lo sguardo per qualche secondo, il tempo necessario per rendersi conto che non sarebbe tornata indietro. Improvvisamente sicuro che le sue ginocchia avrebbero retto, se fosse stato per non lasciare una sua ammiratrice insoddisfatta, Allock si alzò in piedi e si incamminò fuori dalla sua camera orribilmente bianca e puzzolente di medicinali.
Il pavimento era scagliato di piastrelle freddissime, ma l’uomo in quel momento non sembrò accusare il minimo fastidio. Preso nel suo nuovo obiettivo di inseguire la Puffola Pigmea parlante, avrebbe ignorato perfino un Avada Kedavra scagliato a pochi millimetri da lui.
Dovette comunque poggiarsi alla ringhiera per scendere le scale, dato che le sue ginocchia non erano abbastanza stabili da sostenerlo in un’impresa del genere.
Riuscì a percorrere l’intera rampa di scale senza cadere. Un gran bel risultato per uno che di solito necessita della sedia a rotelle per spostarsi.
Allock non si era mai domandato come mai nessuno andasse mai a trovarlo. Gli altri pazienti ricevevano almeno una visita ogni due giorni, se non quotidianamente; nel suo caso, invece, non c’era nessuno a sorridergli e mentirgli con la più classica delle menzogne da rifilare a un malato: “Andrà tutto bene, guarirai.”
Nel buio e nel silenzio delle scale appisolate, Gilderoy cercò l’appoggio della ringhiera per l’ultimo gradino e finalmente fu al piano terra, pronto a sgattaiolare fuori da un’uscita di emergenza.
L’aria notturna gli scalfì il viso con affusolati artigli di ghiaccio.
Si rese conto di essere a piedi nudi solo quando avvertì la rugiada marzolina che appesantiva ciuffi d’erba ingobbiti contro la pelle. Si concesse un profondo sospiro e raggiunse il pozzo annidato tra gli alberi, dentro il quale era appena scomparsa la piccola palla ricoperta di pelo rosa.
Gilderoy si arrampicò sul bordo del pozzo e infilò dentro le gambe, divertito da quel nuovo gioco. Sarebbe stato molto divertente, di questo era sicuro. Si dette una spinta e cadde.
Mentre precipitava ebbe la netta sensazione che non fosse la prima volta che gli capitava di scivolare dentro un buco. Era già accaduto, tempo prima.
Potter e Weasley gli avevano pungolato la schiena con la punta di una bacchetta, l’avevano costretto ad affrontare quell’infinita discesa nel vuoto.

 
I, I’ll get by
I, I’ll survive
When the world’s crashing down
When I fall and hit the ground
I will turn myself around
Don’t you try to stop me
I, I won’t cry

 

Gli parve di precipitare per anni interi. Non gli venne neppure in mente di gridare perché aveva la certezza che da qualche parte, prima o poi, sarebbe riemerso.
Si trovò sul fondo del pozzo prima di quanto avesse osato sperare. Non trovò attorno a sé acqua putrida o ratti famelici, bensì un villaggio di villette a schiera.
Si trovava seduto al centro di una strada perfettamente asfaltata. Si puntellò sui gomiti e si tirò in piedi, indagando con lo sguardo il paesaggio che si proponeva ai suoi occhi. Era tutto così banale e ordinario da mettere i brividi.
Il villaggio era piccolo: certamente non contava più di una cinquantina di anime. Davanti a lui un’ insegna bianca dalla scritta lucida e ben definita recitava: “Welcome to Place of Memories”
Un nome insolito per una cittadina cinta da un bosco apparentemente senza confini. Le villette, alcune delle quali avevano il comignolo fumante, erano disposte in maniera equidistante. Una chiesetta si ergeva a nord della cittadina.
Allock strizzò gli occhi e identificò un grande edificio giallo che doveva essere la scuola; a sud, invece, c’era un piccolo supermercato e il municipio.
Tutte le piccole strade che attraversavano gli ordinatissimi vialetti convergevano in una piccola piazza rotonda, al centro della quale una fontana attiva deliziava il paesaggio con i suoi giochi d’acqua.
Un brivido percorse la schiena di Gilderoy. Era tutto troppo perfetto perché fosse vero. Non si sentiva a suo agio in quel posto e, onestamente, non ricordava nemmeno come ci fosse finito. Ricordava di aver scagliato un incantesimo di memoria contro Harry Potter che, almeno così gli era sembrato, aveva tutta l’intenzione di andare a spifferare al mondo intero il piccolo segreto del suo successo. Cosa gli era accaduto dopo era un grande punto interrogativo appeso sopra la sua testa.
Si impose un certo contegno, ripetendosi, per farsi coraggio, che il suo nome era certamente conosciuto in tutto il mondo. Non appena avesse rivelato chi fosse si sarebbero uccisi a vicenda pur di essere i primi ad aiutarlo.
Forte di questa certezza prese a camminare lungo la strada, osservando sorpreso le siepi perfettamente potate, i vialetti colorati da fiori ridenti e le finestrelle tutte grandi uguali.
Allock ebbe seriamente l’impressione di trovarsi dentro il modellino di una campagna pubblicitaria. Tutto, in quel posto, sembrava finto. Non una cartaccia per terra, non un’automobile, né una scopa. Con cosa si spostavano? Anzi, forse la domanda giusta era: gli abitanti di quello sputo di civiltà di spostavano? I confini della città erano stabiliti da alberi frondosi alti e cupi.
Individuò un bar davanti al quale era impalata un’insegna cigolante: “Coffee of Memory  - NON VE LO SCORDERETE MAI”.
Gilderoy non aveva intenzione di prendere nulla da mangiare o da bere, ma al momento non avrebbe saputo in che altro luogo mettersi seduto per cercare di riflettere razionalmente.
Il suo solito sorriso sornione fece la comparsa sul suo viso mentre spingeva la porta di vetro, facendo trillare una piccola campana.
Il locale era luminoso e accogliente. Le pareti erano di un morbido color crema, il pavimento in parquet beige e la vetrina dei dessert colma di delizie di ogni forma, gusto e colore.
Una cameriera dall’aria annoiata stava riordinando le tazze da tea sopra una piccola mensola, ma si voltò non appena sentì la campanella trillare.
- Benvenuto al Coffee of Memory. Cosa le servo?- Chiese, tamburellando con le dita sulla superficie marmorea del bancone. Aveva l’aria scocciata di chi ripete la solita frase almeno un migliaio di volte al giorno, sebbene il bar fosse completamente deserto.
- Mi porti un tea Jasmine aromatizzato, per favore.- Gilderoy si costrinse a ordinare qualcosa, conscio che questo sarebbe potuto tornargli utile quando avesse richiesto l’aiuto della donna.
Prese posto a uno dei tavoli vicino alle vetrate e lanciò un’occhiata imbarazzata e confusa al tempo stesso al proprio abbigliamento: indossava una vestaglia lilla e non aveva calzature ai piedi.  Certamente era successo qualcosa di insolito, qualcosa che gli avrebbe garantito, forse, un libro autentico da scrivere.
La cameriera dall’aria seccata giunse presso di lui con un vassoio dopo appena qualche minuto, servendogli ciò che aveva ordinato. Allock le lanciò un’occhiata indagatrice. Aveva un’aria familiare, sicuramente l’aveva già incontrata da qualche parte. Già...ma dove? Nel complesso era una bella ragazza, ma aveva un orrido labbro leporino.
- Ecco a lei.-
Concluse di sistemare qualche tovagliolo di carta sul tavolo e fece per andarsene, ma Gilderoy la trattenne schiarendosi la voce.
- Signorina, ha davanti a lei Gilderoy Allock in persona.- Si vantò, dedicandole un sorriso smagliante che sembrò non impressionare la ragazza più di tanto.
- Mi conosce, no? Ordine di Merlino, Terza Classe, cinque volte vincito-
- Arrivi al punto-, lo interruppe, brusca, stringendosi il vassoio al petto con tanta forza che per un istante Allock si chiese se si stesse preparando a sbatterglielo in testa. Invece la donna si limitò a concludere, alzando gli occhi al cielo: - Ho una marea di cose da fare.-
Lo scrittore inarcò un sopracciglio, poi scosse piano la testa e congedò la cameriera con un sorrisetto poco convinto. Non lo avrebbe aiutato, questo era evidente, senza contare che sentiva il bisogno di riflettere con attenzione su chi mai potesse essere quel soggetto che gli sembrava tanto familiare. La testa gli doleva, come se non fosse più abituato a riflettere da tempo e gli  ingranaggi del suo cervello avessero preso la ruggine. Si massaggiò le tempie a lungo e finalmente, con un brivido di terrore, rammentò chi fosse la cameriera e dove l’avesse incontrata.
Era Alannah Dover, la strega che aveva sconfitto la banshee a cui aveva manipolato i ricordi anni prima. Non era possibile che fosse così lucida, anzi, era più che sicuro che fosse sepolta viva al San Mungo. Osservandola, fu ancora più convinto di aver fatto bene a sottrarle l’impresa eroica con cui Alannah si sarebbe ricoperta d’onore. Chi mai avrebbe comprato un libro che recasse in copertina quell’orrendo labbro leporino?
Con suo immenso stupore si ritrovò a bere il tea che la vittima del suo incantesimo aveva preparato per lui. Non aveva un soldo con sé, non sapeva in che modo avrebbe pagato.
“Che mi si scompiglino i capelli se quella non è Alannah Dover”, si disse, mordendosi il labbro inferiore nell’osservare la donna intenta a pulire i tavoli con uno strofinaccio dall’aria consunta. La osservò chinarsi per raggiungere lo spigolo opposto rispetto al lato che stava pulendo ed ebbe la netta sensazione che gli occhi fossero scomparsi e non fosse rimasto altro che un paio di orbite vuote e circondate di rughe simili a una fitta rete di ragnatele.
Si portò una mano sulla bocca e serrò gli occhi, ma quando trovò il coraggio di riaprirli aveva davanti a sé una normalissima Alannah, per quanto normale potesse essere il suo orrido labbro leporino.
Tutto normale”, pensò, cercando di darsi un contegno, “sono solo scosso da questo posto e dalla vista di una ragazza perfettamente in salute che dovrebbe essere legata e imbavagliata dentro una camicia di forza al San Mungo
Non riusciva più a togliersi dalla testa l’immagine del volto orrendamente deformato della cameriera. Non era più un giovane fanciulla, ne era sicuro, la cosa in cui si era trasformata era informe e vecchia, putrefatta...
- Va tutto bene?-
Alzò di scatto lo sguardo, rendendosi improvvisamente conto che stava effettivamente tremando. Alannah lo fissava con un cipiglio poco convinto, come se avesse avuto a che fare con un bambino che le aveva appena chiesto un biglietto gratis per la luna.
- Oh, cara, a parte il piccolo dettaglio che sono in ritardo nell’applicazione della mia lozione per capelli, non sono mai stato meglio!-
Mentì, aspettando che Alannah fosse scomparsa nuovamente dietro al bancone per mettersi a riflettere seriamente sul da farsi, tamponandosi la fronte con un lembo della vestaglia.
Se aveva visto giusto e la cameriera era veramente la ragazza che aveva sconfitto la Banshee, sicuramente non aveva buone intenzioni nei suoi confronti. Non poteva darle torto visto che, tutto sommato, aveva perso i ricordi a causa sua. Non aveva certamente l’intelligenza necessaria per capire che le aveva fatto un favore, che aveva permesso che la sua storia vivesse attraverso le parole di un mago di bell’aspetto, intelligente e assolutamente capace. Allock era diventato un celebrità senza muovere un dito. Si era guadagnato soldi facili grazie alla sua astuzia e alla sua abilità negli incantesimi di memoria.
Non sarebbe stato prudente indugiare ancora in quel bar. Si alzò molto lentamente, cercando di fare meno rumore possibile.
Alannah starnutì sopra il bancone e proiettò fuori dalla bocca, assieme alla salva verdastra, qualche vermiciattolo che si affrettò a raccogliere con lo strofinaccio, completamente indifferente alla cosa. Gilderoy cercò con tutto se stesso di non vomitare, ma trattenere i conati in un momento del genere era a dir poco difficoltoso.
Era ormai  quasi certo che il luogo in cui si trovava fosse diabolico. Non rammentava nulla della Puffola Pigmea parlante che l’aveva condotto in quel luogo da incubo, altrimenti ogni residuo di dubbio sarebbe stato spazzato via.
Doveva scappare in fretta se voleva avere qualcosa possibilità di riuscire a svignarsela incolume da quel posto. Non sentiva più le gambe, ma due pezzi di gelatina tremanti. La porta gli sembrava improvvisamente lontanissima, ma se teneva alla vita avrebbe dovuto fare almeno un tentativo. Alannah non sembrava essere in possesso di una bacchetta, altrimenti non avrebbe certo sprecato tempo ad occuparsi delle pulizie manualmente, così decise di tentare il tutto per tutto. Se l’avesse aggredito sarebbe sicuramente riuscito a respingerla: dopotutto era una donna, per di più minuta.
Strinse i denti e impose alle sue gambe di muoversi. Queste, miracolosamente, gli diedero ascolto.
Corse verso la porta accompagnato dalla voce adesso straordinariamente attiva e sveglia di Alannah:
- Ehi, non hai pagato! Torna subito qui!-
Allock non prese nemmeno in considerazione l’idea. Si ritrovò catapultato nell’ordinatissima strada asfaltata, sotto un tiepido sole di mezzogiorno. Se avesse ricordato che solo qualche ora prima, quando era sgattaiolato fuori dall’ospedale, la notte era appena calata si sarebbe sicuramente messo a urlare. La porta del bar si spalancò e Alannah uscì, ringhiando; ma Gilderoy stava già correndo verso la cima della collinetta ai piedi della quale riposava Place of Memories.
Sarebbe scappato attraverso il bosco. Purtroppo non aveva molte alternative. Si sarebbe sicuramente spettinato e probabilmente la sua pelle impeccabile si sarebbe ricoperta di graffi e fango, ma in quel momento era disposto a tutto pur di non dover affrontare la cameriera che gli stava alle calcagna. Si voltò per un istante, giusto per accertarsi di averla distanziata per bene, ma tanto bastò a farlo gemere sommessamente per il terrore. Alannah non era più la sola a inseguirlo. Accanto a lei correvano una ventina di persone, uomini e donne, tutti con la stessa espressione furibonda, col solito ghigno crudele che lasciava di tanto in tanto intravedere qualche dente annerito e le larve di mosca annidate tra le gengive grigiastre.
Gilderoy concentrò tutta la sua forza nelle gambe, sperando che questo fosse sufficiente a fargli raggiungere in tempo il bosco.
Le creature dietro di lui non erano umane, questo gli era ormai chiaro, ma fortunatamente non sembravano eccessivamente veloci nella corsa. Riuscì a raggiungere gli enormi alberi oscuri e cercò di infilarsi tra un tronco e l’altro per scivolare dentro, ma si accorse con orrore che ciò era impossibile per il semplice fatto che non esisteva alcuno spazio tra i fusti ingobbiti degli alberi. Era una specie di muraglia lignea impenetrabile, come se i tronchi fossero stati incollati l’uno all’altro. Poggiò le palme delle mani sul suo ostacolo alla libertà (o, almeno, a una morte meno tremenda) e cercò una sporgenza a cui aggrapparsi, un’imperfezione nel legno, un ramo più basso degli altri...nulla.
-  Non si esce.-
Il roco sussurro che avvertì all’orecchio, accompagnato da un alito puzzolente di muffa, gli fece gelare il sangue nelle vene.
Era stata Alannah a parlare, ma non aveva voce di donna. Aveva parlato con un tono terribilmente cavernoso e asessuato.
- Cosa...cosa volete da me...?- Domandò Allock, ricominciando a tremare da capo a piedi come un pulcino bagnato. La piccola folla di persone rappresentava sicuramente una buona parte degli abitanti di Place of Memories.
Un ometto basso e canuto si fece avanti e agitò un pugno verso Gilderoy, abbaiando:
- Che diavolo volevi tu, da noi!-
L’ex professore si sentì mancare. Aveva riconosciuto anche lui: era Basil O’shea, il mago che aveva liberato una cittadina dagli attacchi di un vampiro famelico. C’erano anche Billy Price,  Mary Hutton, Phoebe Williams, Gerald Wood e molti altri maghi che non avevano nulla in comune tra loro a parte il fatto di aver compiuto gesta eroiche ed essersi ritrovati tutti, chi prima e chi poi, davanti alla bacchetta di un mago incapace e sfaticato come Gilderoy Allock.
- Io....io non capisco! Insomma, dovreste ringraziarmi! Io sono bello e affascinante, voi eravate....anzi, voi siete decisamente brutti! Senza offesa, ma con le vostre facce stampate in copertina i vostri libri non avrebbero venduto nemmeno una copia!-
La rabbia aveva iniziato da diversi minuti a deformare i volti degli abitanti di Place of Memories. Gli occhi si erano annullati nell’oscurità delle orbite, i nasi e le bocche erano scomparsi. Ciò che era rimasto dei loro visi non erano altro che palloni rugosi e deformati. Dentro le orbite si intravedeva una massa molliccia apparentemente respirante, ma in realtà movimentata dal brulicare di vermi e mosche al suo interno.
Poche ciocche di capelli stinti erano rimasti attaccati ai crani. Allock non si trattenne dal cacciare un grido terrorizzato. Non sapeva esattamente che roba fossero, ma era certo che si trattasse di cose morte.
Una Puffola Pigmea rosea rotolava tra le caviglie dei mostri ed emetteva a intervalli scanditi un risolino divertito.
- Sei davvero stupido come sembri.- Ringhiò uno dei mostri, indicando con un cenno brusco del capo (e il rumore che emisero le sue vertebre cervicali ricordava vagamente un cumolo di foglie secche schiacciate da una ruota) l’insegna che campeggiava di fronte al villaggio: “Welcome to Place of Memories”.
- Quali memorie...?- Chiede Allock, sudato fradicio, guardandosi in giro alla ricerca di un varco attraverso cui tentare la fuga, senza trovarne alcuno.
- Siamo noi le memorie.- Intervenne un altro mostro, questa volta una donna. Gilderoy scosse la testa e pigolò, scosso dai tremiti  e dai conati:
- No...no, voi siete morti...-
- Siamo memorie morte. I nostri corpi sono ancora vivi, rinchiusi in ospedale grazie a te. Le persone, però, ci hanno dimenticato.-
Questa volta era stata Alannah a parlare , il labbro leporino che spiccava, orrido come non mai, nel suo volto rugoso e consumato.
- Dimenticato...?- Ripeté Allock, strabuzzando gli occhi. I mostri sogghignarono e cacciarono risate roche, vomitando ai suoi piedi larve di mosca e lombrichi.
- Già-, confermò  Mary Hutton, indicandolo con l’unghia lunga e annerita dell’indice, - E stanno iniziando a dimenticare anche te. Perché non ti dai un’occhiata?-
Gilderoy abbassò istintivamente gli occhi sulle proprie mani e si sentì mancare. Erano completamente scarnificate. Le falangi emergevano, giallastre e consumante, dalle sue dita tremanti. Dal suo omero destro iniziava a staccarsi qualche generoso lembo di pelle. Non poteva vedersi in faccia e ne fu felice, perché era certo di che cosa avrebbe visto ed era altrettanto certo che sarebbe stato il colpo di grazia.
Le memorie lo avevano avvicinato ulteriormente, tanto che poteva sentire i loro aliti flatulenti infrangersi contro la sua pelle.
- Ti avevo detto che era tardi.- Squittì la Puffola nell’istante stesso in cui i mostri assalirono l’ex insegnante che implorava aiuto, gridava e piangeva.
- Sai quand’è che una persona muore veramente?-, chiese Phoebe, conficcando le sue unghie simili ad artigli di gallina nelle guance di Allock.
- Quando la sua memoria viene definitivamente cancellata.-
Gilderoy tentò per l’ultima volta di implorare aiuto, ma una zampata di Alannah, secca e ben assestata, gli staccò la testa dal collo.
Tutto tacque improvvisamente. Per molto tempo non si udì altro che il gorgoglio della fontanella.
 

I found myself in Wonderland
Get back on my feet, on the ground
Is this real?
Is this pretend?


 
 

 
LA GAZZETTA DEL PROFETA – EDIZIONE SPECIALE
 
IL CELEBRE SCRITTORE GILDEROY ALLOCK  TROVATO MORTO NEL SUO LETTO D’OSPEDALE – E’ OMICIDIO.
 
“Gilderoy Allock, mago noto per la sua prolifera carriera di scrittore, è stato trovato morto questa mattina nel suo letto all’ospedale San Mungo. Il noto scrittore ed ex insegnante di Difesa contro le Arti Oscure alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts era ricoverato da qualche anno a causa di una grave perdita di memoria provocata da un incantesimo Oblivion.
La sua infermiera, Caroline Dixon, è indagata ora per omicidio volontario. Il giovane scrittore, secondo i medimaghi, sarebbe morto infatti a causa di un cocktail  letale di pillole antidolorifiche che gli avrebbe causato una paralisi respiratoria e avrebbe in seguito fermato il suo cuore , dopo qualche minuto di agonia.
- Non voleva più vivere in quel modo. -, continua a ripetere l’infermiera, madre di tre figli e impiegata al San Mungo da oltre quindici anni, ancora sotto shock.
Il mondo magico è ora in lutto per la perdita di un così affermato eroe e scrittore.  Secondo le infermiere del reparto nessun parente o amico si è mai recato a far visita ad Allock durante il suo periodo di ricovero.
Le autorità dichiarano che, se la salma non verrà prelevata da nessuno, con tutta probabilità finirà sepolta in terreno comune.”

 



 

...I’ll take a stand until the end


 

 
 


 
{Spazietto dell’autrice}
Salve! Questa volta mi sono voluta gettare nel genere horror. Questa song fict è ispirata, come si sarà intuito, alla storia di Alice nel Paese delle Meraviglie. Per non rendere la storia troppo scontata ho deciso di reinterpretare questa terra fantastica a modo mio.
Il protagonista è il mio personaggio preferito in assoluto: Gilderoy Allock
 ♥ So di essere l’unica al mondo, ma sono fatta così.
La canzone è Alice (Underground) di Avril Lavigne. Spero che vi piaccia!
One Sky One Destiny
  
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