Morso!
“E
non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro,
d'una deliziosa chiarità d'argento.
Se
ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse
strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria
cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto
tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle
spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità
d'argento.
Grande,
placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la
Luna.
Sì,
egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è
dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la
Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la
scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là,
eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna!”
(Pirandello,
Ciàula scopre la luna)
- Salgo un attimino sul tetto a guardare la luna piena –
le bisbigliò all’orecchio quella sera. Lei annuì e si accoccolò ancora di più
sul divano, a guardare la televisione. Un rantolo sommesso e assonnato le fece
intendere che aveva dedicato una carezza alla pantera nera stesa lì vicino, sul
suo giaciglio. Nel silenzio della casa lo sentì salire fin nel sotto tetto e aprire
la pesante finestra per uscire.
Lo faceva ogni mese. E lei ogni mese si chiedeva se
davvero potesse chiamare quel posto casa, solo perché c’era anche lei.
Non sapeva dire se perdersi a guardare la luna piena fosse
una cara abitudine, una necessità intrinseca, o l’unico nostalgico legame che
gli era rimasto con le sue origini.
E come ogni mese non poté fare a meno di sbirciare dalle porte finestre del salotto, rannicchiata nel suo cantuccio sul divano, quel gigantesco e affascinante disco bianco, pensare di star condividendo con lui la stessa visione, di essergli accanto e di stringergli la mano. Tutto ciò che si poteva permette in quei minuti in cui lui aveva bisogno di stare da solo.
Grande e perfettamente rotonda, la luna campeggiava nel
cielo scuro, così luminosa che le stelle intorno quasi non si vedevano. Così
diversa da quella di cui si era pian piano innamorato anni addietro, ma solo
perché gli stava mostrando un altro volto.
E sentire una fitta di nostalgia per quei luoghi che aveva
voluto chiamare casa, e un’altra di tristezza perché se in quel momento era lì
con lei, così lontano dalla terra del suo passato, era proprio perché per
quella sua casa era sempre stato ritenuto inadeguato.
E chiedersi allora dove fosse il suo posto nel mondo,
perché se seguiva il suo cuore veniva respinto, se seguiva la ragione era lui
stesso a respingersi. Se si basava su se stesso era il resto a non accettarlo,
ma se si basava sul resto era lui stesso a non accettarsi.
E domandarsi quindi se un posto nel mondo per lui c’era
davvero, o se se ne era privato molto tempo prima chiamando famiglia chi
l’aveva cresciuto, se l’aveva privato involontariamente proprio quella famiglia
che l’aveva chiamato figlio e fratello.
E ricordarsi di lei, al piano di sotto, che gli era
rimasta accanto da quando si erano conosciuti, che gli era stata amica, che si
era sempre fidata ciecamente di lui, che lo aveva difeso, che pativa quando lui
la sera non tornava o lo vedeva tornare ferito.
E sorridere, perché c’era lei, e quindi forse anche una
casa, e perché c’era la Luna, sempre ovunque lui vagasse.
E perdersi a fissare quel disco argenteo, senza più
pensare e tormentarsi.
Rilassato, sereno.
Era appena tornato da lei quando iniziarono a sentire le
grida. Le stava ancora accanto in piedi, forse per chiederle se aveva sonno o
se poteva sedersi lì, con lei, davanti alla tele, quando delle urla si levarono
dal fondo della strada, dalla direzione della periferia di quel piccolo
paesino.
Con una velocità e uno sguardo che poco avevano di umano
lui si fiondò verso la portafinestra e uscì sul balcone. Subito lei gli fu
accanto.
- Ma cosa…? – iniziò lei, la voce ridotta a un sussurro.
Delle grosse sagome nere si vedevano in lontananza,
veloci, scattanti e decise. Le grida continuavano e le porte sbattevano. Lì
fuori si sentivano anche diversi pianti, dal neonato interrotto nel suo sonno,
all’adulto che tremava di paura.
- Non sono persone… - continuò lei – sembrano dei grossi
cani, o- - si interruppe voltandosi a guardarlo. Chiedere la conferma di un
pensiero ma aver timore ad esplicitarlo, timore di urtarlo. Il profilo suo si
stagliava contro il cielo, la mascella contratta, gli occhi ridotti a fessure.
- Lupi – disse lui, lapidario – e uomini – una pausa
infinitesimale – Hai mai creduto ai Lupi Mannari?
- Cosa? – chiese lei.
- Lo sento. Sono sia lupi che uomini…
E senza aggiungere altro con un balzo superò la ringhiera
e atterrò nel giardino un piano più sotto. Alzò la testa e gridò: - Bagheera!
E mentre la grossa pantera le scivolava accanto oltre il
parapetto, lei gli urlò, spaventata: - Cosa hai intenzione di fare?
- Trattenerli il più a lungo possibile! Non lo abbandono,
questo paese! – e corse fuori dal giardino, sulla strada e poi verso quelle
orribili sagome scure, con Bagheera altrettanto nera al suo fianco, il pelo
lucido sotto la luce della luna.
Lei rientrò in casa veloce, e spalancò porta dopo porta
per raggiungere al più presto il giardino, senza curarsi di chiuderne nemmeno
una. Corse anche lei lungo la strada, ancora in ciabatte, ma ormai lui e
Bagheera erano già lontani.
Li vide fermarsi, vide quella dannata decina di sagome
nere raggiungerli e arrestarsi. Li vide studiarsi a vicenda, e infine li vide
scattare: muoversi veloci evitandosi, saltandosi, aggirandosi. E fu in quel
momento che capì di essere assolutamente inutile, addirittura d’intralcio.
Rallentò e rimase al lato della strada, appoggiata allo steccato per
riprendersi, con il fiatone e il cuore che batteva così forte – ma non per lo
sforzo – da rischiare di sgretolarle le costole.
Li aveva davanti, finalmente. Erano lupi. Era innegabile.
E contemporaneamente non lo erano. Decisamente non lo erano. E non era
l’aspetto a dirglielo, o l’odore, o gli occhi. No, era qualcosa di più
istintivo e viscerale. Qualcosa che gli diceva che erano uomini ed erano lupi.
Qualcosa che si portava dentro da anni, qualcosa che aveva acquisito nella sua
notte dei tempi e che per la prima volta in vita sua acquistava un senso.
Iniziò a studiarli e loro fecero altrettanto. Conosceva la
situazione fin troppo bene. Si aggirarono un poco, cercarono la posizione
migliore per attaccare.
E poi l’attacco. Qualcosa di già vissuto infinite volte,
ma che ogni volta rischiava di essere l’ultima. Lisciarli, schivarli, Bagheera
che spuntava all’improvviso scaraventandone uno lontano, e poi provare ad
attaccarli a mani nude, e riprovare e portare infine la mano dietro la schiena
per trovare solo la stoffa della sua maglia.
Era disarmato.
Nella foga non aveva preso la sua arma, e per chi non aveva artigli, questo era un problema.
Dannazione!
Quando, in lontananza, getti di luce colorata avanzarono
verso di loro; sembravano le spade laser di quella saga che gli piaceva tanto –
che pensiero cretino per uno disarmato, si disse.
E mentre ancora negli occhi gli balenavano quei lampi
colorati, l’asfalto attorno ai suoi piedi divenne scuro: la sua luna che lo
avvertiva proiettando l’ombra dell’assalitore attorno a lui.
Ma che poteva fare?
Non ebbe nemmeno il tempo di scansarsi. Si sentì sbattere
violentemente a terra, prono, incapace di difendersi anche solo con le sue
stesse braccia.
Lei si guardò veloce alle spalle: non c’era più in giro
nessuno, tutti erano riusciti a rifugiarsi in casa. Allora perché non fuggiva
anche lui? Invece, era iniziato un attacco in piena regola, ma impari: due
contro otto o nove… non li riusciva a contare.
Li vide lottare contro sagome diverse, vide Bagheera
intervenire per salvarlo.
Vide delle luci colorate in lontananza, troppo sconvolta
per chiedersi cosa fossero e cosa ci facessero lì.
Finché non vide una di quelle bestie attaccarlo da dietro,
e sbatterlo a terra, e chinarsi su di lui con le fauci spalancate.
E il suo cuore smise definitivamente di martellare le
ossa.
Sentì un dolore allucinante alla spalla destra, di quelli
che non sentiva da anni. Era paradossalmente nostalgico. Come nostalgico era il
dubbio di poter contare ancora, quella sera, dieci dita, o due gambe… o una
testa…
E sentì il sangue caldo sulla pelle, forse per la sensibilità
che aveva affinato o forse perché certe cose, a lungo andare, si impara a
riconoscerle; questo non l’aveva mai capito.
Un ruggito di disperazione da parte di Bagheera che
soffriva per non essere intervenuta in tempo, e un altro urlo – muto -, di
donna, che gridava il suo nome, ma che sentì solo nella testa. Pregò che lei
fosse sufficientemente lontana, al riparo, perché sapeva che l’aveva fatto, che
li aveva seguiti.
Pronto a ricevere un’altra zannata, chiuse forte gli
occhi, perché tante lui ne aveva passate, ma la paura di morire, la paura di
provare un dolore troppo grande da poter sopportare non erano mai passate.
Invece sentì quelle grosse zampe levarsi dai suoi polmoni,
e lasciarlo respirare di nuovo, l’ombra attorno a lui svanire per esporlo di
nuovo alla luce della luna.
Stordito, sentì della voci avvicinarsi, vide con la coda
dell’occhio delle sagome muoversi a una trepida velocità che poteva voler dire
solo fuga. Sentì solo il bisogno – lento, strisciante ma sempre più intenso –
di rannicchiarsi su se stesso, mentre qualcosa dentro cambiava forma… le sue
ossa, i suoi muscoli.
Faceva male, ma non riusciva ad avere paura di quel
dolore. E quel qualcosa di viscerale piantato nei recessi della sua anima
sembrava aver smesso di pulsare, ma si fosse disteso placido…
Vide quell’enorme bestia levarsi finalmente da lui, senza
infierire oltre sul suo corpo schiacciato a terra. E lo vide rannicchiarsi e –
incredula – mutare lentamente forma.
Disperata e confusa, vide fuggire in preda alla paura la metà
di quelle belve, disperdersi tra le vie, senza più curarsi di accendere il
panico negli abitanti. Qualcuna venne colpita da quei raggi luminosi e cadde
sulla strada. Guardò di nuovo lui, e, in una ondata di terrore, capì e corse
veloce avanti, più di quanto avesse mai corso, più di quanto aveva corso fin
lì.
Solo una cosa le era chiara, indipendentemente dalle belve
nere, dalla lotta, dal lampi colorati e dalla trasformazione di lui.
Tre sagome, questa volta decisamente umane, si piantarono
attorno a lui, stanco e ancora disteso a terra. Bagheera gli scattò veloce
accanto, decisa, questa volta, a riuscire a difenderlo. Distesero le braccia e
puntarono qualcosa di sottile contro di lui.
- NOOO!!! – urlò con tutto il fiato che aveva, che le era
rimasto, fino a farsi bruciare la gola.
I tre sembrarono esitare perché per un istante guardarono
verso di lei. Li raggiunse e si piantò tra di loro e lui, le braccia aperte, il
fiatone, le ginocchia che cedevano per la stanchezza e la paura, le gambe che a
mala pena la sostenevano e i lunghi capelli neri sciolti e scompigliati sulle
spalle e sulla schiena.
Ma questo non le impedì di parlare.
- Non è uno di loro! – supplicò, con la gola che doleva a
ogni sillaba – Sono fuggiti tutti o li avete presi! Lui non è uno di loro!! E’
stato morso! Davvero, dovete credermi!!
- Non ti preoc- - iniziò uno di loro, una donna, ma subito
si interruppe rimettendosi di nuovo in guardia, lo sguardo fosso oltre le
spalle di lei.
Lei si voltò e lo vide alzarsi lentamente su quattro zampe
e dirigersi verso di lei. La raggiunse e le strisciò il muso sulla gamba.
I tre abbassarono allibiti le bacchette. Non ci potevano
credere. Com’era possibile?
Era un lupo. Era vivo.
Cadde sulle ginocchia, gli buttò le braccia al collo e
scoppiò a piangere, affondandogli il viso nel pelo. Sentiva il suo odore misto
a quello di sangue, sudore e paura. Una miscela che era diventata famigliare
negli anni, ma che non sentiva più da tempo.
Il suo odore, che aveva imparato nei giorni con lui, non
grazie ad un olfatto raffinato come il suo, ma perché ogni cosa ha un odore, e
quello delle cose più care diventa familiare e indispensabile.
Il suo odore che non era cambiato a dispetto del suo
corpo.
Realizzò la paura latente che non potesse riconoscerla
solo quando questa venne fugata, quando tra un singhiozzo e l’altro lui riuscì
a distinguere le sillabe del suo nome, e per rassicurarla le strofinò il muso
contro la testa.
Stordito e confuso, non riusciva a realizzare cosa fosse
successo, perché lei piangesse aggrappata a lui, perché Bagheera stesse
all’erta, perché ci fossero delle altre persone. Alzò gli occhi e vide la luna.
La sua luna tonda non se era spostata di un millimetro.
E anche lei restava lì, accanto a lui, chiamandolo – dolce
e felice – tra i singhiozzi.
E solo il suo nome pareva l’unica parola che avesse senso.
- Mowgli…
E un solo pensiero. Era vivo.
“E
Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto,
dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva
pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani,
delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più
paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.”
(Pirandello,
Ciàula scopre la luna)
@@@@
BHA! BUBBOLE!!!!
La citazione di Ciàula è un tocco di classe
ammettetelo!! =P Scherzi a parte, ho avuto l’illuminazione a capito già finito
e mi ha ispirato le due parti in cui lui guarda la Luna… Ovvio che la
situazione non è analoga, volevo solo sottolineare quel senso di… sicurezza??
Resta il fatto che Ciàula scopre la luna e la
novella del Pirandello che preferisco, e forse l’unica… Ma torniamo a noi!
Io, Scrit-Scrit,
ovvero Scrittrice Scriteriata (ditelo in fretta fa da scioglilingua!) mi metto
a pubblicare nuove fanfic anziché continuare le vecchie!! Olè! Bhè, sono a casa
dall’università per gli esami, e siccome non ne ho tanti, direi che potete
stare tranquilli che aggiornerò… (E intanto la mia coscienza che urla “Promesse
da marinaio!!” viene fatta tacere a badilate…)
Oh! Il titolo… Cioè, sottotitolo… Dico a mia discolpa che
sono quattro anni che non tocco la grammatica latina… Ho ricostruito tramite le
declinazioni su Wikipedia perché i miei libri di latino sono in soffitta o
sprofondati in cantina… (Anche la novella di Ciàula l’ho pescata da
internet perché la mia letteratura italiana sta dormendo in soffitta… Poco
male, non l’ho dovuta ribattere!) Volevo scrivere “Homo homini lupus aut lupus
lupo homo?” ma sicuramente sarebbe stato sbagliato… Ehehe… (“Aut” vuol dire
“o”… Come Kierkegaard insegna… Arriverete alla filosofia di quinta liceo,
arriverete…)
Comunque sia, quel che intendevo dire io era: “L’uomo è
una lupo per gli uomini, il lupo è un uomo per i lupi”… Forse acquisterà senso
col progredire della ff, mha…
Il titolo prima anziché “La Luna” era “Né Uomo Né Lupo” il
che faceva scena, ma depistava il tutto lungo una via di depressione angoscia e
infruttuosa ricerca di sé, che non c’entra nulla con quello che voglio
raccontare! Ok che vado sempre fuori (la mia) traccia quando scrivo, perché la
storia finisce col scriversi da sola e io sono in balia di lei (vi giuro che
succede davvero =P), ma se partiamo già col titolo stiamo freschi!!
Tra l’altro, sempre grazie a Ciàula mi sono
ricordata che volevo propinare in ogni capitolo una citazione sulla Luna, e di
conseguenza si è definito un titolo più adatto!! (Non solo perché si parla
della Luna… -.-”…) (Anche se l’idea è partita dalle canzoni, parto con una
novella, vebbè…)
Cosa ne pensate di questa prima fanfic dell’anno??
Eh? Torno ad aggiornare le altre che è meglio?? Ma neache
un pochino vi è piaciuta?? Giuro che dal prossimo cap uso i nomi non i pronomi…
Ehehe… (Che poi sarebbe scorretto usare sempre Lui e Lei, ma Egli ed Ella fanno
schifo…)
A presto, la vostra Scrit-Scrit
(…cielo, pare il nome di un topo! … Oh! Il mio Yuki Soma!!)