“Ask
for answers”
“Stuck
between the do or die, I feel emaciated.
Hard
to breathe I try and try, I'll get asphyxiated.
Swinging
from the tallest height, with nothing left to hold on to.
Every
sky is blue, but not for me and you.
Come
home, come home, come home, come home.”
Placebo,
“Come home”.
Quante persone si fermano un istante ad osservare il cielo? Quante persone restano ancora sorprese di fronte alla meraviglia delle stelle, o dei giochi d’ombra e luce che nuvole e sole creano assieme?
Poche, senz’altro.
Ma tra quelle poche persone, tra quei pochi sognatori inarrestabili, c’era la piccola Sophie.
Bambina che da
quando era nata aveva
vissuto più in un luogo impregnato di medicinali e di
sofferenze, - chiamato comunemente
ospedale; piuttosto in quella che per la maggior
parte dei suoi
coetanei era la casa convenzionale. Eppure non aveva mai pianto per
ciò, forse
perché dall’acuta intelligenza e innocenza dei
suoi otto anni odiava veder
piangere i suoi genitori e parenti che, ultimamente, erano continui in
quell’azione. Molte volte si era chiesta il perché
e, in un pomeriggio trascorso a pettinare le sue bambole
così perfette e
dai capelli lisci e setosi a
differenza
del cranio lucido di lei, aveva compreso il tutto. Aveva messo assieme
le parti
mancanti della quotidianità vissuta in quel luogo dalle
pareti bianche e
azzurre, con qualche sprazzo di colore e vivacità creato
dagli altri bambini
che, come lei, reputavano l’ospedale la loro casa; e aveva
compreso. Stava per
morire. Il suo tempo era arrivato. Fu allora che la piccola coraggiosa
pianse
per la prima volta, causando maggior scompiglio nell’animo
già agitato dei suoi
genitori, che mai prima d’ora l’avevano vista
piangere. Bastarono
due semplici e allo stesso tempo complesse
parole, per rompere la diga del fiume di parole che i genitori
serbavano con
dolore per loro stessi.
«Perché
io, mamma?»
Bastarono queste
due
parole dette con l’innocenza di una bambina che aveva
acconsentito al suo
destino senza tante cerimonie, senza tante scene o lotte varie; a far
crollare
definitivamente i suoi genitori.
Sophie
l’aveva accettato. Aveva accettato il
fatto che una malattia le avrebbe stroncato la vita sul nascere. Poteva
soltanto acconsentire al suo destino, a cosa serviva poter urlare e
piangere
facendo disperare ancor di più i propri genitori, se sarebbe
morta ugualmente?
I suoi genitori
no, si
ribellavano e si ostinavano come persone che non volevano ammettere a
loro
stessi la cruda realtà; la loro unica figlia sarebbe morta.
Morta.
Quella parola
risuonava
incredibilmente familiare ormai, alla piccola Sophie, che sperava
invece che il
suo amico, Tommaso, avesse più
fortuna
rispetto a lei. Si erano conosciuti nella loro
casa e più volte avevano trascorsero
i minuti di attesa dalla chemio, assieme. Lo trovava un
bambino
simpatico e alla mano con cui poteva ridere e scherzare come una
bambina normale, non come una
bambina privata
della sua infanzia come nella realtà che viveva. Con
Tommaso, lei era una
bambina che come unica preoccupazione
aveva quella di capire quale scherzo le avrebbe fatto
l’amico, e non quello di
portare sulle spalle il peso della leucemia che la stava mano a mano
uccidendo.
Con Tommaso
aveva
semplicemente otto anni.
*
«Perché
a lei, Enrico?
Tra tutte le persone al mondo, proprio il nostro unico
miracolo.» Roberta pianse
tra le braccia del marito la sventura che aveva colpito la sua
famiglia. Non
riusciva a comprendere perché Dio o chiunque potesse stare
in cielo, -se mai ci
fosse stato un qualcuno; prima le aveva donato quell’unico
miracolo che dopo
anni ed anni era arrivato… per poi toglierlo nuovamente.
Lei,
così legata alla
religione e alla fede, in quel momento brancolava nel buio
dell’infedeltà
perché non riusciva a capire la ragione per cui lei, doveva andarsene.
Non riusciva a
pronunciare la parola morte, che molto bene urlava il suo cuore, il suo
corpo
dimagrito e le occhiaie scavate sotto gli occhi; non ci riuscivano
né lei né
suo marito.
Lei, la piccola
Sophie,
che era arrivata dopo anni ed anni di analisi da parte di Enrico e
Roberta, per
comprendere chi dei due fosse sterile. Ma puntualmente in ogni visita,
il
responso era negativo; sia se proveniva dall’ospedale di
Roma, sia se proveniva
da quello di Madrid o di Milano. Eppure la cosa che più
desideravano non
arrivava. Avevano un lavoro soddisfacente, erano innamorati, avevano
una vita
perfetta… eppure gli mancava un bambino che avrebbe
interrotto la notte con un
suo pianto o un suo gemito.
Alla fine,
quando ormai
si erano entrambi faticosamente rassegnati, arrivò lei. La
loro piccola Sophie.
Che con i suoi occhietti vispi e teneri, e la sua pelle rosea, aveva
donato
nuova vita ai Ferrara.
Ed ora, lei
doveva
morire.
Non riuscivano a
capire
la ragione. Non ci riuscivano.
«Siamo
stati soli tanto
a lungo Enrico e, proprio
quando la
nostra vita aveva raggiunto quella pienezza che tanto desideravamo, lei
dovrà
andare via.»
I singhiozzi le
scuoteva il corpo minuto con forza, e ogni lacrima era un battito
cardiaco
mancato.
Roberta stava
andando
alla deriva.
Enrico stava
andando
alla deriva.
Improvvisamente,
erano
diventati soltanto un pallido ricordo di ciò che erano.
Erano diventati
delle
anime perdute che si aggrappavano con le unghie e con i denti agli
ultimi
sorrisi della loro bambina, che in proprio in quel momento
entrò nella stanza
accompagnata dall’infermiera.
Roberta si
asciugò
immediatamente gli occhi.
Enrico
improvvisò un
sorriso che era più una smorfia che altro.
Dovevano lottare
per
stare con lei fino alla fine, con tranquillità.
Non potevano
farla
soffrire più di quando la malattia facesse già.
Non potevano.
Non volevano.
«Ti
sei divertita con
gli altri bambini, amore?» chiese Roberta con voce tremante.
«Ho
fatto un disegno
bellissimo mamma! Ecco guarda qua! L’ho fatto per te e per
papà.»
Mostrò
con orgoglio e
con un sorriso dolcissimo, che solo una bambina di otto anni poteva
donare, il
disegno che rappresentava la loro famiglia.
Sophie, che
stringeva
la mano del padre e della madre.
Sorridevano
tutti e tre
in quel disegno e, in più, Sophie aveva i capelli lunghi.
Roberta non
poté
trattenere le lacrime stavolta e, con un mormorio di scuse,
uscì dalla stanza.
Sophie strinse
la mano
al padre, chiedendogli con voce tremante se era a causa sua che la
mamma era
scappata; non seppe cosa dire.
Piange
perché la nostra unica ragione di vita sta
mano a mano morendo?
Piange
perché una parte di noi morirà per sempre con
te, cuore mio?
Piange
perché non può alleviare il dolore
insopportabile in nessun altro modo?
Piange,
perché non ci sono risposte alle nostre
domande?
Enrico la
strinse semplicemente
a sé, nascondendo il volto solcato dalle lacrime
sull’incavo del collo di Sophie.
Il tempo delle
parole
era finito.
Il tempo delle
parole
non era mai nato.
“Sophie
era una
splendida bambina che tutti noi, qui riuniti,
conoscevamo…”
Le parole del
parroco,
così come l’intera cerimonia, trascorse
velocemente come se qualcuno con un telecomando
avesse mandato avanti l’evento. Enrico e Roberta, stretti
l’un l’altro, non
avevano più lacrime da piangere, perché ora
quello che piangeva, era il loro
cuore. Inesorabilmente il loro cuore stava morendo, anzi, era già morto due giorni prima.
Si era
spenta come il più silenzioso rumore del battito
d’ali di una farfalla e il
cuore, l’organo
grazie al quale ogni
essere vivente continua a
vivere… mancava. Se questo venisse strappato via nel
più crudele dei modi e
cioè, la perdita di una parte di se; come potevano
continuare a vivere? Altra
domanda senza risposta, per la coppia.
Nel frattempo, altrove, nella sua casa,
qualcun altro perdeva il suo
cuore. Il piccolo Tommaso era divenuto orfano a causa di un ubriaco.
Quel
bambino era divenuto orfano a causa della stupidità di un
uomo. Ma sarebbero
mai tornati indietro i suoi genitori, grazie
alla stupidità di quell’ uomo?
Tommaso aveva perso anche la sua migliore amica, Sophie.
Tre persone,
riunite in
un unico dolore, quello della perdita di una parte di sé, la
più importante.
Tre
persone riunite dall’amore cieco provato
nei confronti di quella bambina dagli occhi verdi.
Tre anime dalla
deriva.
Sarebbero mai riusciti a sopravvivere a tutto questo dolore?
-Tre mesi dopo.
«Roberta,
dobbiamo
andare.» mormorò senza voce, Enrico.
«Tu
vai se vuoi, io
devo restare con la mia bambina. Non posso lasciarla.»
mormorò con voce stanca,
restando seduta di fronte alla lapide.
«Non
possiamo più fare
nulla, smettila di farti del male da sola ogni giorno che veniamo a
trovarla.
Lei sta nel nostro cuore. Andiamo, ti
prego.»
Non riusciva
più a
reggere tutto quel dolore che lo corrodeva da dentro, che gli
annebbiava la
mente e distruggeva il suo cuore.
Senza aggiungere
altre
parole, Roberta si alzò e, dopo aver dato un bacio alla
lapide e aver
accarezzato la foto della figlia, strinse Enrico a sé e
andarono via.
Dove?
Verso la deriva dove al
largo, una bambina dagli occhi verdi sorrideva dolcemente e un bambino
dagli
occhi marroni di nome Tommaso aspettava il loro ritorno.
“'Cause
a heart that hurts,
Is
a heart that works.
A
heart that hurts,
Is
a heart that... works.”
Placebo,
“Bright lights”.