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Autore: _Trixie_    30/07/2013    1 recensioni
[Il Piacere, Gabriele D\'Annunzio]
"Donna Francesca mordeva un poco la principessa di Ferentino, non senza finezza, accennando all'avventura lesbica di lei con Giovanella Daddi. "
L’avventura con Giovanella Daddi. Era così che la gente parlava della mia relazione con lei.
Era stata una scintilla, nata con tanta forza da consumarsi da sé e svanire nel nulla, ma non l’avrei mai definita un’avventura: aveva avuto implicazioni, implicazioni sentimentali serie, che avevano comportato un cambiamento importante dentro di me.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Opera: Il Piacere, Gabriele D’Annunzio
Personaggi:  Principessa Eva di Ferentino/Giovannella Daddi
Ratings: Arancione
Genere: Generale, Romantico, Triste
Lunghezza storia: 700 parole, One-shot
Tipo di copia: FemSlash
Note: Missing Moments
Avvertimenti:-

 

A K., che in realtà troverà la sua dedica
nel libro da cui ho tratto questi personaggi. 

 
 

Anima amata
 

 

Donna Francesca mordeva un poco la principessa di Ferentino, non senza finezza,
accennando all'avventura lesbica di lei con Giovanella Daddi.

Il Piacere, Gabriele D’Annunzio

 
 
 
L’avventura con Giovanella Daddi. Era così che la gente parlava della mia relazione con lei.
Era stata una scintilla, nata con tanta forza da consumarsi da sé e svanire nel nulla, ma non l’avrei mai definita un’avventura: aveva avuto implicazioni, implicazioni sentimentali serie, che avevano comportato un cambiamento importante dentro di me.
Lei era giovane, aveva più di qualche anno in meno di me, e portava quella giovinezza dipinta in volto, sulle guance rosee e negli occhi chiari. L’unico accenno degli anni, che anche per lei dovevano scorrere, era nella voce, una voce roca, di chi fuma troppo, di chi ha iniziato poco più che bambina.
«Scusatemi» mi aveva detto dopo il nostro primo bacio, nella mia sala da pranzo, dove, sole avevamo fatto colazione. Non c’era bisogno che si scusasse con quel gemito appena udibile, ma ne apprezzai la delicatezza, il tatto, ancor più dolce se paragonato alla sua voce ruvida.
Da quel bacio, è inutile dirlo, rimasi fortemente sorpresa, dalla pelle del collo teso, proteso verso di me, dalla sedia parzialmente vuota, dalla quale in parte si era levata, dal fruscio del vestito, che aveva accompagnato le sue labbra sulle mie e anche il loro abbandono.
Allungai un braccio verso di lei, le accarezzai una guancia cosparsa di belletto, disegnai la curva di qualche riccio corvino, accarezzai il profilo delle spalle spioventi con lo sguardo.
«Non v’è alcun bisogno, davvero» dissi, sporgendomi verso di lei e assaporando, ancora, quelle labbra vellutate di caffè, scabre, irregolari, come la voce cui permettevano il passaggio.
Mi allontanai e mi levai in piedi, porgendole la mano.
«Avete le gote arrossate, Eva» mi disse, usando il mio nome di battesimo e pronunciandolo con tanta voluttà da togliermi ogni dubbio sul fatto che fosse sinonimo di peccato.
Sorrisi solo, sorrisi e mi morsi il labbro, invitandola a inseguirmi, a prendermi, a divorarmi.
Nel corridoio che portava alle mie stanze risuonarono le nostre risate, accompagnate dei tonfi dei nostri gracili corpi contro i muri, quando l’una vi spingeva l’altra per rubarle un bacio, morderne il collo o forse, solo sentirne la pressione del corpo, fasciato in abiti tanto stretti.
Trascorremmo poco più di un’ora, tra le mie lenzuola, ma pregai perché non finisse mai e mi lasciai guidare da lei nella mia esperienza in fatto d’amore. Perché, debbo confessarlo, non avevo mai amato nessuno così, con tanto ardore, con tanta tenerezza. Avevo dato la mia virtù a mio marito e altri uomini mi avevano avuta ma mai, mai nessuno era riuscito a spiegarmi cosa significasse fare l’amore, tranne Giovannella Daddi, anima leggera, anima amata.
Fu l’unica volta in cui potei averla e mi scivolò via, così come mi era capitata tra le braccia, con eleganza, senza che io nemmeno mi accorgessi di cosa stesse accadendo. Si sciolse dal mio abbracciò e si rivestì, lasciando che la luce del sole le accarezzasse la linea della schiena, prima di nasconderla in quei vestiti che iniziai ad odiare.
«Buona giornata, Eva» mi disse dalla porta della camera, guardandomi in tutta la mia ingenuità in un letto dalle lenzuola bianche e sfatte, le stesse che, conservando il profumo di lei, mi avvolsero quando lessi il suo biglietto, la mattina seguente.
Diceva di amarmi, giurava di amarmi, scriveva il mio nome, lo invocava e mi dilaniava l’anima, quel desiderio cocente di averla ancora lì, in quel letto, a pronunciare il mio nome con la sua voce roca. E lo scriveva, ancora, nel confessarmi che la nostra era una storia senza lieto fine, che non ci sarebbe stato altro, tra me e lei, se non una cordiale amicizia, una lieta conoscenza, una triste malinconia al pensiero di quello che, certo, non avremmo mai potuto avere.
Ella dunque, compresi con mani tremanti, non mi amava e il destino mi aveva punita per quel mio peccato, per quel tradimento.  
Piansi molto, quella mattina, ma quando incrociai nuovamente i suoi occhi, in una via deserta, il mio viso era asciutto e duro, eppure non potei trattenere i miei ricordi, che invasero il mio cervello e mi colorirono il volto.
«Avete le gote arrossate, Eva» mi sembrò di sentirle dire, ma, forse, fu solo la mia fantasia, a far rivivere un’ultima volta un ricordo tanto dolce. 

   
 
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