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Autore: PikkolaStella_SenzaCielo    08/02/2008    2 recensioni
Italia, Seconda Guerra Mondiale. Una coppia sposata di ebrei verrà tradita da un loro vecchio amico e consegnata ai nazisti.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Se qualcuno mi avesse chiesto cosa mi rendesse più felice, avrei sicuramente: “passare la mia vita insieme a Valeria.” Valeria. La luce dei miei occhi, il sangue delle mie vene, la mia essenza vitale. Lei è tutto, troppo, tanto per me. Non esisteva nessun’altra donna per me. Penso queste cose mentre sono qui, nel cimitero del campo di Mauthausen. Un piccolo spazio, dove però sono sotterrate migliaia di persone. Fra di loro c’è anche lei. Lei. Mio Dio, mi vengono le lacrime agli occhi: era tutto per me, veramente. Ho fatto di tutto perché lei vivesse, si salvasse. E ora? Lei dov’è? Mi viene voglia di urlare, di andarmene, di scaricare tutta la rabbia contro qualcuno. Vorrei avere in questo momento Frank Hurtemman, l’SS più terribile e crudele dell’intero campo. Vorrei poterlo strangolare con le mie mani, ucciderlo, vederlo soffrire come ho sofferto e soffro ancora io. Ma poi mi dico che non posso farlo: mi comporterei come loro. E non posso. “Scusi signor Bolini, potrebbe venire un attimo qui?” Una professoressa di una scuola media che accompagno nel loro viaggio alla “scoperta” dei lager mi chiama. È davvero insopportabile, noiosa e patetica, ma mi accingo comunque, con un grande sorriso, ad avvicinarmi e ad ascoltarla. “Mi dica..” “Racconti un po’ ai ragazzi cosa ci facevano qui..” Guardo la porta. Guardo la scritta che ci hanno messo ora sull’entrata. Ma allora, non si sapeva dove si andava. Non si poteva immaginare che si andava a morire. “Gaskammer” leggono i miei occhi. Travolto dall’emozione, dallo sgomento e dalla paura che un tempo possedevo, resto zitto. “Questa è… è..” Non riesco ad andare avanti, non mi vengono le parole giuste. Che dovrei dire? Senza dire nulla, me ne vado via. A passo veloce, schivo lo sciame di ragazzini felici che ridono e scherzano fra di loro, che litigano, si spintonano e fanno come tutti i ragazzini della loro età. “Perché ridete??” sbraito contro un gruppetto ben affiatato e felice. I ragazzi ammutoliscono. “Portate almeno un po’ di rispetto… ingrati… vivete nel lusso e non dovete preoccuparvi di niente.. e io qui ci ho perso la moglie!” me ne vado via, sgattaiolo lontano. Voglio uscire da lì, starmene sul pullman solo, ascoltarmi un po’ della musica d’oggi e stramene in silenzio. Non voglio offrire i miei racconti e le mie esperienze a nessuno. Nel parcheggio incontro l’autista, Paolo. “Scusi, potrei salire un attimo sul pullman? Ho bisogno.. di stare solo.” “ Certi! Si figuri!” mi risponde allegro, sorridente, fumando una sigaretta, con quell’aria da sbruffone, che detesto. Perché c’è gente che non capisce? Perché esiste gente che non sa essere altro che felice? Perché io devo soffrire in questo modo? Sorrido e comunque ringrazio, salendo e chiudendo il portello alle mie spalle. Mi siedo nei posti dietro, spostando gli zaini dei ragazzi che sedevano lì prima. Poggiando la testa fra le mani, torno indietro nel tempo e le voci, la folla radunata nel parcheggio, diventano tanti piccoli puntini, suoni muti che si spengono all’ombra dei miei ricordi… Una voce. una poesia. Un suono candido e argentino. Delle parole scritte con amore e cura. La voce di Valeria si posava nei campi di grano, risuonando nella campagna come la voce di un usignolo. Lei sedeva accanto a me e mi leggeva quello che aveva scritto la notte precedente, mentre dormivo. Seduta sul grano maturo, con le gambe appoggiate al petto e cinte dalle sue morbide braccia, con i capelli biondi e ondulati che le ricadevano sulle spalle, dolci, insinuandosi fra i fianchi e nel solco dei seni.. i suoi occhi verdi posati sul foglio, i miei, invece, su di lei. Ma l’ascoltavo incantato dalla dolcezza di tante parole, dalla facilità con cui componeva poesie simili. Lei smise di leggere. “Ti piace?” mi chiese. La guardai pazzo d’amore. “Si Valeria.. è bellissima!” le risposi. Poi, senza preavviso, la presi fra le mie braccia e cominciammo a rotolare fra il grano. Le spighe si impigliavano fra i nostri capelli, ma non ce ne importava: eravamo ragazzi diciottenni di campagna, il nostro unico pensiero era divertirci e stare con la persona che si amava. Continuammo a rotolare per un po’, quando una voce familiare ci interruppe. “Scusa Michele, ma tu non eri quello che doveva andare in città a fare spese?” mi domandò malignamente, con la voce dura e aspra, il mio ex migliore amico Alfredo. “Si, ma… ho deciso di rimandare. E come vedi sono già occupato, quindi se non ti dispiace..” Risposi crudelmente. Volevo ferirlo e farlo andare via. Doveva andarsene, sparire dalla mia vita, scomparire. Valeria si aggiustò i capelli e si rialzò. “Ciao Alfredo.” Mormorò sommessamente. “Come va?” “Non male grazie.. senti.. mia mamma si sta riprendendo.. se vuoi venirla a vedere.. tiene molto a te.” Commentò felicemente Alfredo. Colpo basso. Accidenti, ma come si permetteva? “Veramente io e Valeria avevamo altri impegni.. vero?” ribattei seccato. Valeria mi fissò. Voleva dirmi qualcosa, ma non sapevo cosa. I suoi occhi verdi trafiggevano i miei come dardi infuocati e mi indusse ad abbassare lo sguardo. Quando la guardavo troppo a lungo negli occhi, i miei cominciavano a bruciare e poi abbassavo lo sguardo. Forse era timore, forse rispetto. Non lo sapevo nemmeno io. “Michele… si tratta della mamma di Alfredo! Non posso non andare!” esclamò implorante. In un attimo rividi il nostro appuntamento al lago sfumare, ma anche tanti ricordi della mamma di Alfredo. Lei era stata una madre per me. La mia famiglia era morta a seguito di un bombardamento. Avevo quattordici anni ed era il 1940. I miei genitori si trovavano all’estero per questioni di famiglia e morirono a seguito di un bombardamento. Ero ancora piccolo per vivere solo e la mamma di Alfredo mi accolse in casa sua. Alfredo era quasi un fratello per me, ma a causa del mio amore per Valeria finimmo per litigare. Infatti conoscemmo insieme Valeria e finimmo per innamorarcene entrambi. La notte, quando la passavo nella sua casa per aiutarlo in caso la mamma avesse avuto qualche crisi, passavamo ore e ore a parlare di lei, dicendo che era meglio per uno o per l’altro. Una bella mattinata, alla fine del ’42, lei era là, che faceva la fila fuori per entrare dal panettiere. Alfredo mi spinse in avanti e mi disse: “Vai è il tuo momento!” io rifiutai spingendo lui: “No, vacci tu!” Alfredo non si lasciò pregare. Andò da lei e parlò, parlò e parlò. E io stavo lì chiedendomi perché l’avessi fatto, perché non fossi andato da lei e perché non ci avessi parlato io con lei… Ma ormai tutto era perduto. Si fidanzarono e passarono bei momenti felici, in cui io ero assente o facevo solo da cornice. Poi accadde l’ inspiegabile. Valeria venne da me piangente, una sera in cui si stava scatenando un tremendo temporale. La fissai, sognante ascoltando tutto quello che mi disse. E non ci pensai due volte: la presi per la testa delicatamente e la baciai sotto la pioggia. Ci fidanzammo e da allora Alfredo si rifiutò di parlarmi. Ci odiavamo oramai. L’unica cosa che ci legava, era sua mamma, ammalata da anni di una strana e incurabile malattia. Solo i farmaci la salvavano. Ma Alfredo lavorava sodo ogni giorno per mantenerla in vita e il comune del nostro paesino qualche volta, donava qualche spicciolo alla sua famiglia. Troppo pochi per permettere ad Alfredo un po’ di pausa. Valeria si incamminò fianco a fianco con Alfredo, parlando della madre. La cosa che pesava di più fra tutto, era che Alfredo ne era ancora pazzamente innamorato. Li raggiunsi. “Non mi pare ti abbia invitato.” Borbottò placidamente Alfredo, lanciandomi un’occhiata d’odio puro. “Non si tratta di te, ma di tua madre. Per questo vengo pure io.” Precisai. Lo odiavo. Arrivati a casa di Alfredo ci precipitammo nella camera della madre e ci fece gioire la vista di quella donna che tanto stimavo e apprezzavo seduta sul letto. Non parlava, non sorrideva, non faceva nulla. Non si accorse nemmeno della nostra presenza . era incosciente. Alla vista di quella donna così forte, ma ora così debole e fragile, mi vennero le lacrime agli occhi. Anche Valeria era commossa. Uscimmo tutti dalla stanza, senza parlare. “Quando si ristabilirà?” chiese con le lacrime agli occhi, Valeria. Alfredo si strinse nelle spalle e non disse nulla. “Alfredo, mi dispiace. È come una madre per me.. capisco come ti senti…” dissi io, commosso. Quello che affermavo era vero. Ero veramente dispiaciuto. “Si, peccato che non è tua madre e che tu non capisci niente.. non hai mai capito come si sentiva il tuo migliore amico.. soprattutto sei stato insensibile per quanto riguarda Valeria.. eravamo distrutti e tu ne hai approfittato…” disse sottolineando malvagiamente Alfredo. “Ma cosa stai dicendo?” esclamai io, indignato. Sentivo di odiarlo. Valeria era visibilmente imbarazzata, rossa in viso, non sapeva che fare. Poi s’intromise nella conversazione: “Alfredo smettila.. non è stata solo colpa sua.. ricorda che eravamo in due..” “No, No… Valeria non darti colpe ti prego!” biascicò strisciando come un verme Alfredo. Avrei voluto tanto prenderlo per i capelli e farlo smettere, dirgli che Valeria era mia e che lo sarebbe stata per sempre. Poi Alfredo si rivolse verso di me: “Ora non ho più nulla da dirti. Quella è la porta, esci di qui!” tentennai. Rivolsi uno sguardo interrogativo a Valeria e poi guardai per l’ultima volta la stanza della mamma di Alfredo. Della mia mamma adottiva. “Non hai capito quello che ho detto? ESCI!!!!” urlò arrabbiato. Rivolgendogli lo sguardo più odioso e disprezzante che riuscii a fare raggiunsi l’uscita. Aprendo la porta, sentii Alfredo che mormorava da perfetto leccapiedi: “Vuoi qualcosa, un po’ di tè, del latte? Ho dei biscotti, li vuoi? Sono molto buoni e…” “No Alfredo.” Lo interruppe lei. “Non voglio niente. Grazie per l’ospitalità e mi dispiace moltissimo per tua mamma.. ciao, stammi bene.” E uscì anche lei dalla stanza, lasciandolo lì con la tazza del tè in mano. Si era illuso. Valeria non poteva essere di qualcun altro. Passarono mesi e mesi dall’ultima volta in cui parlai con Alfredo, dall’ultima volta che entrai nella sua casa un tempo anche la mia e dall’ultima volta che vidi la “mia” mamma. Stavo così male, che non sapevo che fare. Era il 1944, ed era agosto. Dal fronte italiano e da quello degli Alleati non giungevano belle notizie e la paura cresceva giorno dopo giorno. In paese si parlava di tremendi luoghi della morte, dove le persone venivano trattate peggio delle bestie, in condizioni disumane, e dove migliaia e migliaia di persone morivano quotidianamente. Venivano chiamati campi di concentramento, di sterminio o semplicemente dal tedesco lager. Spesso ci radunavamo a gruppetti e parlavamo di questa situazione terribile: perché accadeva tutto questo? Io non ero ebreo e non avevo nessun antenato che lo era stato. La mia famiglia era cristiana da secoli e secoli e in casa possedevo bibbie antichissime di inestimabile valore; stessa cosa per Valeria, anch’essa cristiana. Non c’erano apparenti motivi per cui avremmo potuto essere catturati. Dovevamo stare calmi, anche se in città c’erano i tedeschi che avevano risalito tutta la Toscana e ci avevano raggiunti anche qui, a Volterra. Una sera piovosa, dove un temporale si riversava furiosamente sulle nostre campagne oscurandoci totalmente la vista, io e Valeria stavamo nel salotto di casa mia, avvolti in una coperta e stretti intorno al fuoco, nonostante fosse estate. Bussarono. Il rumore delle nocche che si abbattevano sulla porta di legno ci fece rabbrividire. Coraggiosamente mi alzai e tremando sia per la paura che per il freddo mi accinsi ad aprire la porta. Mi trovai lì davanti Alfredo. Bagnato, con i capelli neri appiccicati alla testa, tremante e infreddolito e con gli occhi arrossati. Perché? Temetti che fosse successo qualcosa a sua madre.. “Alfredo” chiamò Valeria. “Cosa stai lì sulla porta a prendere freddo, entra dentro!” ma Alfredo non si mosse. Rimase lì dov’era. Nascose la testa nelle mani e singhiozzò. Fra i singhiozzi udii solamente: “Sono loro gli ebrei di cui vi parlavo!” Ebrei?? Io e Valeria ci tirammo un’occhiata rapidissima, carica di significato. Paura, timore, inconsapevolezza, amore, e pieno soprattutto di tanti perché. Quando entrarono degli uomini in divisa armati di mitragliatrici compresi. Le SS!!!! Ma che ci facevano qui da me? Alfredo? Oh no!!!! Tanti pensieri si accavallavano uno sull’altro ed ero talmente confuso e sbigottito che non mi resi conto che l’SS mi stava tirando il fucile nello stomaco. caddi a terra agonizzante. Mentre mi contorcevo dal dolore notai un piccolo particolare: l’SS dava ad Alfredo un sacchetto. Alfredo lo aprii e si mise a contare quelle che sembravano lire. Erano lire!!!! Era stato corrotto!!! Perché? Collegai immediatamente tutto e fu molto doloroso. Era come se mi avessero pugnalato diritto al cuore. Alfredo aveva bisogno di soldi e aveva detto alle SS che noi eravamo ebrei e che ci nascondevamo. Ma l’aveva fatto anche per vendetta nei miei confronti, me lo sentivo. E fu chiaro quando me lo disse: “Chi è che ha vinto ora, Michele?” lo fissai pieno di odio. Avevo la bocca colma di sangue e non riuscivo a parlare. Sapevo di odiarlo. Ora.. che ne sarebbe stato di me e Valeria? Improvvisamente collegai le voci che si sentivano in paese riguardo questi temuti lager, l’ultima fermata di tanti, troppi ebrei… e collegai, dopo, il mio destino e quello del mio amore. “Valeria scappa, scappa!!! Corri, corri, non fermarti!!” gridai nella sua direzione. Lessi paura nei suoi occhi, ma si divincolò dalla presa dell’SS e scappò via diretta verso la finestra aperta che stava in cucina. Poi però la presero e l’ammanettarono. Fecero lo stesso a me e mi fecero rialzare, a suon di insulti e calci, in piedi. Fissai Valeria, tremante di paura e piangente; poi guardai Alfredo. Volevo ucciderlo con quello sguardo. Doveva morire. “Ah grazie per la soffiata..” disse una delle SS stringendo la mano ad Alfredo. Alfredo compiaciuto sorrise, ma quella faccia felice gli si gelò in viso quando vide Valeria, ammanettata e ridotta in una maschera di lacrime, dolore e tanta paura per l’ignoto futuro che si stagliava all’orizzonte, cupo e minaccioso. “Io….” Prese a balbettare Alfredo, ma non serviva più a nulla. Valeria piangeva e guardava me. Solo me. Alfredo non era mai esistito. Poi improvvisamente, l’SS che aveva stretto la mano al traditore, gli tirò un pugno in faccia. Quando cadde a terra, venne picchiato e poi ammanettato anche lui. Ridendo le SS ci portarono via. Per strada riconobbi molti paesani, amici di sempre, compagni di giochi e avventure che erano stati arrestati pure loro e ridotti ad una misera fila indiana che si dirigeva verso Volterra. Valeria davanti a me, era scossa dai singhiozzi. Alfredo dietro di me, parlava sommessamente con se stesso. Lo vidi, girandomi, che tirò un ultimo sguardo verso la sua casa. Sua madre. Sarebbe morta senza Alfredo e le sue cure, senza qualcuno con cui guarire la sua pazzia. Lo sentii piangere. Mi sentii quasi in colpa: aveva fatto tutto questo per colpa mia, lui voleva solo salvare sua madre! Molta gente venne ammazzata perché stanca, perché cadeva per il tragitto o perché si opponeva alle angherie dei tedeschi. Io, Valeria e Alfredo camminavamo in silenzio, la mente svuotata di ogni pensiero e riempita solo dalla paura. Arrivati a Volterra, ci fecero raggiungere la stazione. Ci divisero, uomini da una parte, donne e bambini da un’altra. Eravamo stati liberati dalle manette e al momento della suddivisione ci stringevamo le mani, timorosi di qualsiasi parola o gesto delle SS. Prima fecero salire su un treno le donne. Lottai per non essere separato da lei, ma fu tutto inutile. Lei salì e, solo quando vidi la targa del treno, mi resi conto di dove andavamo… Mauthausen. Parlando con i compaesani, tutti avevano affermato l’esistenza di questo campo che, insieme ad Aschwitz e tutti i suoi sottocampi, era uno dei peggiori. Il treno poi prese a muoversi. Io urlai, spaventato e carico di dolore. Presi a correre schivando tutti i tedeschi che tentavano di prendermi e di fermarmi. Ma io correvo per andare a pari passo con il treno. Non l’avrei lasciata andare così! Era la donna della mia vita, la luce dei miei occhi.. senza di lei ero nulla. Dalla finestra lei tirò fuori la mano che io strinsi, mentre correvo. “Non ti lascio, amore! Non ti lascio!!” gridavo mentre, senza badare alla fatica, avanzavo cercando di tenere il passo del treno. “Io ti amo Michele!!!” mi gridò lei disperata. Piangeva. Una lacrima mi cadde sulla mano. Presi a piangere anche io… non l’avrei più rivista. L’amore della mia vita stava andando a morire… NO!!! “Ti amo anche io Valeria, e ti amerò per sempre e ovunque!!” le urlai di rimando, piangendo a dirotto. Pregavo Dio che fermasse questo dannato treno, che facesse qualcosa. Ma non accadde nulla. Poi cominciai a rallentare e il treno a avanzare più rapidamente. La mia stretta si allentò e mollai la sua mano. “NOOOO!!!! VALERIA TI AMO!!! NOOO!!!” gridai con il poco fiato che mi rimaneva in corpo. “TI AMO E NIENTE LO POTRÁ CAMBIARE!!!” non ottenni risposta. Subito dopo le SS mi acciuffarono e mi picchiarono. L’unica cosa che ricordo fu che, dolorante, mi buttarono in un vagone bestiame e che chiusero le porte. Dopodiché, la mia mente si annebbiò nel ricordo splendente di quello che era stata lei. La mia mente riprese a funzionare solamente dopo aver messo piede a Mauthausen. Appena appoggiai la suola della scarpa in quel luogo di morte, un brivido gelido mi percorse. Tremavo di paura e non di freddo, l’unica cosa che non patii in quel mese di deportazione. 27 agosto 1944. non me lo dimenticherò mai. È stata la data in cui misi piede in Mauthausen, in cui cominciai a respirare quell’aria carica di mistero, paura, morte e di cenere di cadaveri cremati. Ci fecero spogliare di tutto: vestiti e di ogni bene. Spaesati, incominciarono la selezione. Scelsero alcuni anziani e alcuni bambini che, per mancanza di spazio, erano stati messi nei nostri vagoni. Poi analizzarono con cura un uomo sulla cinquantina zoppo. “Come mai sei zoppo?” gli chiesero le SS. “Lavorando l’altro giorno mi sono fatto male” rispose l’uomo che dava l’idea di essere un contadino. “Bene.. allora avrai.. un trattamento speciale…” rispose ghignando l’SS che lo stava interrogando. Un’altra SS, che stava lì accanto, rise sommessamente. Un altro uomo con in mano una penna stilografica e un foglio di carta chiese: “Allora che faccio, lo segno per Hertheim?” gli altri due annuirono, ridendo. Il contadino zoppo, tutto contento, non faceva nulla per nascondere la sua gioia. In molti erano felici per lui, altri invece, come me, erano sospettosi. All’epoca, non sapevo che cosa fosse Hertheim, ma negli anni venturi successivi alla mia deportazione e alla mia liberazione lo visitai. Quando penso al contadino zoppo e alla sua contentezza mi metto a piangere, pensando alla triste e terribile sorte a cui è toccato. Quindi, alcuni di questi anziani e di bambini che avevano segnalato precedentemente, vennero inviati per un altro “trattamento speciale”, verso le “docce”. Noi invece venimmo portati verso le baracche dove scegliemmo delle scarpe e delle casacche con un numero. La mia casacca presentava una Stella di Davide sul petto e un numero, il 32 347. Ci dissero che quello sarebbe stato il nostro nome nel campo, che non eravamo più Michele Bolini o Alfredo Buoninsegna. Eravamo solo uno stupido e vuoto numero, privo di significato. In baracca cominciai a chiedere ad alcuni che erano lì da più tempo, che fine avevano fatto le donne. Uno di loro, Pietro, mi disse: “Le donne? Quali donne? Qua le ragazze, a meno che non sono belle vengono tutte uccise alle camere a gas.” “Se non sono belle? Scusa ti potresti spiegare meglio?” già intravedevo una luce di speranza. Valeria era bellissima. Non l’avrebbero di certo uccisa! “Se sono belle donne vengono utilizzate nella baracca numero 10… ovvero quella delle prostitute.” Ci rimasi malissimo. Valeria una.. no, non una prostituta!!! Nessuno poteva permettersi di toccare la mia Valeria, nemmeno avvicinarcisi! Mi sentivo così stupido e impotente. Ero il suo uomo e non era stato neppure in grado di difenderla, di aiutarla, di farla scappare dall’agonia a cui stava andando incontro.. Non ne ero stato capace e avevo fallito. Non meritavo di essere l’uomo della sua vita… Mi sentivo male, uno straccio e non solo perché avevo mangiato un piccolo tozzo di pane in tutta la giornata.. mi sentivo morire dentro. Senza la mia Valeria mi sentivo meno di zero, ma la cosa che più mi faceva soffrire era sapere che non era stato capace di proteggerla. Avevo perso di vista Alfredo, in quel mare di uomini, e ciò mi dispiaceva: volevo solo farlo a pezzi. Mi aveva cacciato in questo guaio e per colpa del suo egoismo io e Valeria rischiavamo di morire, di non vederci più, di non vedere realizzato io nostro bellissimo sogno d’amore… La prima giornata di lavoro si rivelò terrificante. Ci fecero trasportare dei blocchi di pietra enormi sulle spalle, mentre percorrevamo la così chiamata nel campo, Scala della Morte. Era terribile. Gli scalini non erano normali, ma sconnessi, ripidi e piccoli: non mi stava nemmeno metà del mio piede! Più volte rischiai di cadere e ciò significavano guai: se cadevo, tiravo giù tutti quelli che mi stavano dietro e tutti quelli della mia fila. Infatti eravamo collegati l’un con l’altro da delle funi. Chi cadeva , si portava con lui tanti altri sventurati. Più volte un uomo davanti a me fece per cadere e io lo tenni dal dietro, con la paura che mi animava ogni cellula del corpo. Valeria, Valeria, Valeria… era l’unica cosa che mi spingeva su per quelle maledette scale, l’unica cosa che mi spronava a salire con quei blocchi enormi e pesantissimi sulle spalle, l’unica cosa che mi faceva trovare la forza anche quando non ne avevo più… la giornata si concluse in questo modo. Tantissime ore a trasportare senza motivo blocchi grandissimi e pesanti di pietra su per le spalle avanti e indietro per la Scala, in discesa e in salita, senza motivo. E tutto sotto il sole cocente di agosto. Stranamente quell’annata stava facendo caldo; infatti, mi raccontava Pietro, l’anno scorso ad agosto c’era già qualche centimetro di neve… Quella sera, in baracca, arrivò il nostro kapò che mi prese da parte e mi ordinò di portare quel documento che teneva in mano, a Frank Hurtemman, una delle SS del campo. Titubante presi il documento e mi accinsi ad uscire. Tutti si chiedevano se sarei tornato o no. Mi fermai davanti alla porta della dimora di Frank temendo che aprisse la porta in quell’istante. Ero al campo solo da due giorni, ma sapevo già che tipo era da come trattava noi prigionieri. Aveva paura ad entrare e tremando, misi il documento sotto la porta. Poi scappai. Correndo a tentoni nel buio, mi trovai in una zona del campo che non avevo ancora visto. Una baracca, una sola. La baracca numero 10… il cuore accelerò bruscamente.. era lì, me lo sentivo! Valeria era lì!!! Ma non potevo entrare! Solo le SS avevano il permesso di entrare e uscire a piacimento da quella baracca… tentennai se aprire o non aprire quella porta, ma venni poi fermato da delle grida soffocate. Pieno di terrore crescente mi avvicinai e vidi, con orrore, che un’SS stava torturando e ammazzando una povera donna. La stava strangolando con il frustino con cui, avevo visto, andava a picchiare alcuni deportati che non gli andavano a genio. La donna annaspò in cerca d’aria, il volto contratto in una smorfia di dolore e terrore. Poi tutto si fermò. Le dita, cui la donna aveva ficcato nel terreno, smisero di stringere la terra con la forza che possedevano prima.. l’intero corpo della donna si accasciò privo di vita. L’SS, come se non fosse accaduto nulla di male, si tolse la polvere dalla divisa, mise a posto il frustino e senza degnare più di uno sguardo il cadavere della donna se ne andò. Avevo visto abbastanza. Me ne tornai in baracca, sconvolto. Tutti mi chiesero che avevi visto, ma non dissi nulla. Passarono molti mesi e arrivò il 1945. eravamo ad aprile e non sapevamo che fra pochi giorni sarebbe avvenuto il miracolo che ci aspettavamo da troppo tempo. Una notte, ricordo molto bene, mi svegliai di soprassalto, svegliando Pietro che condivideva il letto con me. “Che succede?” mi chiese sottovoce. Pieno di timore, pronuncia quella frase in un sussurro sommesso, per paura che ciò si avverasse, che fosse realmente vero… “È morta….” Sussurrai, fra le lacrime. “E come fai a saperlo?” Pietro sapeva tutto di me. Gli avevo raccontato tutto di me e Valeria. A qualcuno dovevo condividere il mio amore per lei. “Io e lei abbiamo un legame, come un filo che ci unisce. Non sento più questo filo. È come se il nostro legame si fosse spezzato.. non sento più.. la sua anima.” Avevo paura sul serio. Pietro mi fissava nell’oscurità. Sapevo che mi credeva, che era mio amico, molto di più di come lo era stato Alfredo. Posandomi una mano sulla spalle, mi sussurrò: “Forse è solo un incubo, anzi sicuramente è così. Tu non perdere la speranza.” E si addormentò. Io ci misi un po’, ma ascoltai quello che mi diceva. La mattina dopo, ci ordinarono di raccogliere i cadaveri e di scavare delle fosse in cui sotterrarli. Era un lavoro duro, meschino. Non riuscivo a farlo e mi limitavo solo a raccogliere i cadaveri e a ammonticchiarli su delle carriole e portarli a Pietro che li avrebbe sotterrati. Pietro e io, dicevamo un “mi dispiace” ad ogni cadavere che buttavamo nella fossa comune. Improvvisamente scorsi Alfredo in lontananza. Fu come un fulmine a ciel sereno. Avrei tanto voluto andare lì e prenderlo a calci, inventarmi qualche bugia perché fosse punito dalle SS… ma la cosa che più mi sconvolse fu notare cosa portava sulla carriola, o meglio chi… era.. no.. no… NO… NO… NO!!!!!!!! Era Valeria!!! Il suo viso era tumefatto e sconvolto, ucciso, morto senza ombra di felicità passata.. Pietro mi chiese qualcosa, ma io non lo ascoltai. Anche lì, ogni rumore si spense. C’eravamo solo io, la salma della MIA Valeria e.. quell’essere che trasportava la carriola. Quello che aveva fatto accadere tutto questo. Mollai la carriola e corsi verso di lui. Senza preavviso lo buttai per terra, lo allontanai dalla MIA Valeria, dalla sua essenza. La guardai: il volto anche se sfregiato da tutte le angherie subite era ancora bello come un tempo. Nulla di lei era cambiato se non che era divenuta magrissima, uno stecchino. Ma cosa importava? Lei non c’era più!! Le presi una ciocca di capelli e la chiamai: “Valeria? Valeria, amore sono io, il TUO Michele…” ma lei non rispose. Mi alzai e fissai con gli occhi pieni di lacrime Alfredo che giaceva lì per terra, vergognandosi di lui stesso e di quello che aveva fatto. Ma la vergogna sua non mi bastava. Volevo vendetta. Rubai il piccone di un prigioniero che stava tornando dalla cava e feci per abbatterlo contro di lui. Tutti attorno a me si fermarono e mi fissarono. Anche le SS, rimasero sbalordite. Feci per colpirlo quando, improvvisamente, mi apparvero in mente tutti i nostri momenti passati: da quando a quattro anni ci divertivamo a giocare con le trottole, quando aspettavamo ansiosi l’arrivo del Natale, quando a tredici anni correvamo con i nostri cavalli lungo le campagne toscane, quando quattordici anni giunsi senza preavviso in casa sua e chiesi aiuto e lui me lo diede….. di fronte a quei ricordi che mi rendevano piccolo, piccolo non riuscii a fare quello che aveva sempre desiderato: uccidere Alfredo. Buttai lontano il piccone e, rivolgendo un ultimo sguardo al corpo di Valeria, tornai da Pietro e ripresi a lavorare. I giorni trascorsero monotoni, senza più la voglia di continuare a vivere, il filo che mi univa a lei, ma senza più la paura di morire. Quella, dal primo momento che avevo visto il cadavere di Valeria, non esisteva più. Morire significava andare da lei, vivere felici per sempre e dimenticare, fuggire da tutti gli orrori del mondo terreno. Arrivò il 5 maggio 1945 e gli americani entrarono in Mauthausen e ci liberarono. Vidi Frank essere picchiato a morte da molti deportati. Ma la cosa che più mi colpì fu un americano che scriveva, appoggiato al suo carro armato, un diario. Pietro che sapeva l’inglese, gli chiese da parte mia che stava scrivendo e lui gli rispose che testimoniava l’accaduto. Dissi a Pietro di raccontare all’americano di Valeria e di tutta la nostra storia e l’americano inserì anche quel pezzo della nostra vita nella storia… successivamente, una volta tornati in Italia, lo Stato ci aiutò economicamente per riuscire a ricostruirci delle case. Alcuni soldi gli spesi per acquistare una lapide da posizionare nel cimitero di Mauthausen in memoria della donna della mia vita.. l’unica… Ora seduto sul pullman decido di scendere. Mi incammino verso il campo ed entro. Incontro subito la prof che mi chiede scusa per essere stata così insistente. “No, scusi lei. Non dovevo essere così schivo.. siete qui per non commettere più gli stessi errori quindi è giusto che vi dedichi un po’ del mio tempo.” Mi scuso. Radunando i ragazzi dico loro: “Ragazzi voglio portarvi a vedere una parte del campo cui sono stato coinvolto in prima persona.. per questo vi racconto anche una mia vicenda personale…” nel frattempo prendo a dirigermi verso il cimitero con lo sciame di ragazzini desiderosi di imparare, che mi ascoltano interessati e angosciati allo stesso tempo, seguendo ogni mio passo.
  
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