Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: unicorn_inthemind    31/07/2013    2 recensioni
Qualcuno mi ha consigliato di andare dallo psicologo, una volta, ma non vedo l’utilità del farmi spillare soldi da un tipo che mi ripeterà le stesse cose che io mi ripeto ogni volta.
Ho dei problemi nel relazionarmi con gli altri perché sin da piccolo sono stato escluso e maltrattato e, ah già, devo tentare di approcciarmi gradualmente a qualcuno, parlare con lui o lei dei miei problemi, e riuscire così a riacquistare fiducia nelle persone.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che sto appuntando la mia storia, lo sto facendo perché sono steso pancia all'aria sulle mattonelle di ceramica bianca del cesso, lungo lungo tra il mobile del lavandino e la vasca da bagno. Devo dire che ha un che di claustrofobico la cosa, ma mi sono sempre piaciuti i posti così: piccoli, solitari, vuoti, bui... lontani dalla gente.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La chiamano crisi adolescenziale.
Io sguazzo in questa merda da quando ero bambina
e loro la chiamano crisi adolescenziale.(*)





Le mattonelle sono fredde, nel cesso di casa, mentre appunto nella mia testa questa storia. La mia storia che, al contrario di tutte le altre che ronzano in un angolo del mio cervello, non ha un lieto fine.
Invento storie, sì, e sono tutte storie dolci e a lieto fine, al contrario della mia vita che va a puttane. Le invento così perché è come se fossero un meccanismo di autodifesa, un calmiere per quando sto per scoppiare e spararmi un colpo alla testa.



Le ripesco e mi dico “ecco, in questo angolo di cervello va tutto bene.” e invece di preoccuparmi dei miei problemi faccio sorridere i miei “amici immaginari”.



Qualcuno mi ha consigliato di andare dallo psicologo, una volta, ma non vedo l’utilità del farmi spillare soldi da un tipo che mi ripeterà le stesse cose che io mi ripeto ogni volta.
Ho dei problemi nel relazionarmi con il prossimo perché sin da piccolo sono stato escluso e maltrattato e, ah già, devo tentare di approcciarmi gradualmente a qualcuno, parlare con lui o lei dei miei problemi, e riuscire così a riacquistare fiducia nelle persone.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che sto appuntando la mia storia, lo sto facendo perché sono steso pancia all’aria sulle mattonelle di ceramica bianca del cesso, lungo lungo tra il mobile del lavandino e la vasca da bagno. Devo dire che ha un che di claustrofobico la cosa, ma mi sono sempre piaciuti i posti così: piccoli, solitari, vuoti, bui... lontani dalla gente.



La gente fa male. Sul serio, parlo per esperienza personale.



Mi si stanno ghiacciando il culo, la schiena e la nuca ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è il lampadario esattamente sulla mia testa. Avrei preferito venire al mondo lampadario.
E’ bruttino, devo dirlo, quadrato e rosso cremisi risalta sul soffitto bianco, e ricorda la faccia numero tre di un dado: con tre lampadine poste diagonalmente su di esso, a pendere nel vuoto.

La centrale pende esattamente sulla mia fronte.


Sarebbe bello se, adesso, quella lampadina per caso si svitasse. E sempre per caso mi cadesse in testa.


Cadesse.
Cadesse.
Cadesse.
Cadesse.
Cadesse.
Cadesse.

Sulla testa.
Sulla mia testa.
In testa, sai che botta.
Sulla mia povera testa.


Roba da morirci.


Sulla mia testa piena di esperienze che ho sempre taciuto per paura di sembrare ancora più strano di quando fossi già.

 
Mi sono alzato, due minuti fa, sono andato in cucina a prendere una mela e sono tornato indietro.

Lungo il tragitto di ritorno mia madre mi ha guardato e ha chiesto: «Che hai?»

Ha guardato i miei occhi arrossati e ha detto: «Che hai?»
Ha notato le mie labbra tremare e ha sussurrato: «Che hai?»
I passi incerti, ha visto anche quelli, e ha domandato: «Stai bene?»




«Che hai?»

«Stai bene?»

«Che hai?»

Che. Che. Che. Che.

«Stai bene?»
Stai. Bene.

Bene.

Bene.

Bene.

Bene.

Bene.

Bene.

«Bene.»




E via in bagno, per un attimo mi ero illuso mi fermasse, mi guardasse e dicesse «Spiegami. Apriti con me.» e che mi stringesse tra le sue braccia profumate.
E io avrei taciuto, sospirato appena, e non sarei stato meglio. Sarei stato lo stesso.
Gli abbracci delle madri sono medicine, e come medicine possono curare solo alcune cose: le litigate tra noi, i brutti voti a scuola e le sue punizioni stupide.
E il malessere che mi galleggia attorno adesso non centra nulla con lei, è distante anni e anni luce. E’ come curare un cancro con l’aspirina.


Questa mela sa di cartone.


Rotola via sul pavimento, lontano, tra il gabinetto e il termosifone. Potessero scivolarmi lontano così facilmente anche i ricordi.


«Bene.», sono diventato così bravo nel dirlo.

Bene, quel giorno d’asilo una bimba mi si era avvicinata, io coloravo al tavolino, si era seduta con due bambole in mano e dopo due minuti si era messa a gridare che dovevo andare via da lì.
C’era lei e io non ci potevo stare.

Tu fai schifo!”.



Bene, mamma, alla ricreazione pioveva, in terza quarta elementare, sotto la finestra dell’aula si era formata una pozzanghera e i miei compagni facevano le barchette di carta per lanciarcele dentro.
Alcune cadevano di piatto, altre testa in giù, e altre erano più fortunate, navigavano un po’ e poi affondavano bagnate dalla pioggia.
Io non sapevo fare le barchette, me ne stavo in un angolo a guardare.
Nessuno mi notava, solo qualcuno si girava, mi fissava atono e poi si allontanava borbottando un “strano”.




Bene. Bene. Bene.
Bene. Bene.
Bene.




Sorrido, la lampadina non ne vuole sapere di venire giù e io sto qua come un coglione. Mi tiro su e lo specchio sul lavandino alla mia destra riflette il viso di un mostro: i capelli scompigliati e gli occhi rossi, le guance lucide di lacrime.
Comunque, dicevamo, la storia che mi ha condotto qui, inizia oltre un anno fa.



E dopo quella, la solitudine.

 
 
Non so come cazzo ci sono arrivato in quella situazione, fatto sta che uno di quei due ragazzi che riuscivano a sopportarmi e uscire con me - una volta su mille - mi aveva strattonato verso di se e poi, eravamo soli, si era avvicinato davvero tanto, il vicolo illuminato da un mezzo lampione giallo, e, d’improvviso, aveva preso le mie labbra – così, le aveva prese tra le sue. E le aveva, piano e incerto, baciate – le aveva prese tra le sue e baciate.
Un mio amico, roba da non crederci. Mi aveva acceso in un colpo solo, imbarazzo, stupore, paura e altre emozioni di cui non conoscevo il nome mi avevano assalito, così: per un bacio.

E si era scostato, mi aveva allontanato piano – a me, in trance, mi aveva scostato dal suo corpo - e io ero pian piano tornato freddo e vuoto. Mentre lui dal bianco cadaverico con cui si era avvicinato diventava cremisi, dalle guance, al naso alle orecchie. Tutto rosso, come se mi avesse ceduto quel colore prima del bacio e poi se lo fosse ripreso.

«Prima volta? Dico, prima che baci un ragazzo?»

Imbarazzo. E adesso che facevo, magari nel bacio avevo fatto schifo, ci aveva messo anche la lingua lui. Magari, se diceva così, avevo fatto cilecca. Perché dare un bacio a un ragazzo forse era diverso dal darlo a una ragazza. E io non avevo baciato nemmeno quella.
«Prima...» dico, mi avvampano le orecchia quando continuo con un: 
«In generale.»
Io ero divenuto paonazzo, lui era impallidito.

Paonazzo.

Pallido.

Pallido.

Paonazzo.

Paonazzo.

...


Cosa era quel ping-pong di rosso?
 
«Io non... scusa... se lo...»
«Nulla.»
«Davvero, è che volevo...»
«Nulla.»
«Ma nulla un corno. Tu mi piaci!»

«...»
«...»

Ping-pong di rossi, ancora, io pallido e lui paonazzo.

Sentivo lo stomaco stritolarsi da solo, si contorceva facendomi venire su quasi un rigurgito acido. La situazione, il posto, il bacio, lui. Il bacio.
La confessione.
Mi piaci.

Lo stomaco mi si stava ribellando contro. Era addestrato contro gli insulti, non contro le dichiarazioni.

«Ti fa schifo? Che sono un ragazzo, e mi piaci. E ti bacio?»
«No.»
«No?» sorride.

Volevo squagliarmi nell’acido, questo ragazzo voleva amarmi. Non era questione di uomo o donna, era questione di amore, e io non sapevo come si faceva.

Non lo so ancora adesso.

 


Sedici anni e non mi ero mai innamorato in vita mia, neppure una cotta, una falena tra i succhi gastrici. Un saltino nel petto, un nome da pronunciare sulla lettera uscita dalla linguetta della Coca-Cola.
E stavo benissimo così. E adesso mi dicevano che c’era chi mi voleva amare, che voleva uscire con me. Contattarmi all’una di notte, alle sette del mattino. Vedermi, toccarmi, parlarmi ogni giorno.
Dovevo stare in compagnia.


Era follia.


«NO!» gridavo.

«No, non posso.» ripetevo.

«No, stammi lontano.» ribadivo.

«No. No. No. No. No.»
 
«Perché?» ribatteva lui, non capiva, forse avrei fatto bene a scappare.
«No. So che vuoi fare, vuoi uscire con me no? E non ce la faccio io.»
«Perché?» Ostinato. Mi soffocava, si stava avvicinando.

Paura.
Ti prego,no. Non guardarmi.
Gli occhi – i tuoi occhi -  non posarli su di me, ne ho il terrore.

Eppure mi guardavano, quegli occhi, quel viso, le iridi e le pupille. Mi stavano osservando le sue palpebre e le sue sopracciglia, le ciglia e la cornea.
C’era da avere davvero da farsela sotto. Mi divorava.

Tra i doni peggiori che Dio ha fatto all’uomo, creandolo, di certo in cima ci sono gli occhi.

Occhi, due, neppure uno, vedono il doppio, percepiscono il doppio. Giudicano il doppio.

Come si fa a non avere il terrore dei giudizi, dopo che si hanno ricevuti sempre e solo quelli? Con una personalità fragile come la mia, non potevo pretendere di costruirmi un’armatura e non curarmene.

Con una debolezza come la mia, non potevo far altro che erigere un muro d’aria per proteggermi fuori e morire dentro.
Loro non vedevano e io morivo dentro.

Ti prego basta, mi viene da vomitare, sto male. Sto male. Non anche tu, con quelle iridi buie. Non puoi farmi iniziare ad avere paura anche del buio, all’infuori del silenzio, è l’ultimo filo che mi tiene lontano dalla follia.

«Che male c’è? Non costa provare, magari va bene...»

«Sicuramente va male, fuggirò, avrò paura. No!»

Guardava lui, continuava a guardare, e i miei occhi bruciavano, riversi a terra.
E i suoi indugiavano, sulla pelle, sugli organi e sulle ossa.
Su di me.

Comprimevano la cassa toracica, aiuto soffoco.


Scavavano fino alla mia anima, quegli occhi, stavo per morire, così, in apnea.
Causa del decesso: dilaniamento dell’animo. Davvero una brutta fine.
Un animo fragile e raggrinzito, accartocciato in un angolo imprecisato che soffoca.

Il mio animo.


Mi accartoccio.


Il mio corpo.


Soffoco.





Si può morire così? Di sguardi?
Sì se il giudizio è abbastanza spietato.
E il giudizio nei suoi occhi era netto, una decisione, un ordine.

Anima in pena, io ti salverò!”

Non voglio essere salvato.

Ma le tue paure.”

Siete voi la mia paura.

Ma i tuoi demoni.”

Ci ho fatto amicizia. Sono più simili a me di quanto crediate, sicuramente non come voi.

Ti salverò.”

No.

Ti aiuterò.”

No.

«Svegliati» Non ancora, ti prego.
«Svegliati.»Due minuti, come quando devo andare a scuola.
«Ora!» No, ancora un po’, magari bastano ancora pochi secondi per morire.
 



Lui mi ha baciato ancora, e ancora e ancora. Mi ha prosciugato la bocca.
Non chiedeva, prendeva e basta come la prima volta. E io mi piegavo – mi piegavo e basta -, opponendo la stessa resistenza – zero – che opponevo a tutti.
E ad ogni bacio io mi allontanavo, perché poi mi guardava - distruggeva -, e pretendeva.
Pretendeva un che non gli è arrivato mai.
E’ oltre un anno che non lo sento e non percepisco la sua mancanza. Sono mesi che non sento nessuno.

Non è che non mi fidi delle persone, è che loro pretendono, e io non so donare nulla.
 



«Esco», dico a mia madre di solito, e vado a rintanarmi in un angolo sconosciuto di paese. Con un libro o un quaderno bianco e una sigaretta o due fumare tra un paragrafo e l’altro.
Sono l’essere stano che si aggira per il paese con la tracolla nera e il lieve aroma di tabacco. Se volete vedermi passate per i vicoli bui.
 




 
Comunque, vorrei ricordarvi, che sono ancora qui nel cesso. Che la lampadina è ancora fastidiosamente attaccata e ho sognato di essere un lampadario.
Deve essere bello, essere un lampadario, stai lì – solo e fermo, pace – e poi qualcuno entra nella stanza e, schiacciando l’interruttore, per donarsi una certezza, alza lo sguardo e ti fissa per un secondo. Ma è uno sguardo diverso, soddisfatto che la luce si sia accesa. E’ uno sguardo breve, di chi sa di perdere già da prima della partenza, perché il lampadario – la sua luce – è forte, e quelli sono solo due occhi.
Ho sognato di essere un lampadario, e di prendermi la rivincita su tutti quegli sguardi.


 
Non so perché lo sto facendo, ma mi sto arrampicando sul mobile del lavandino. Mi arrampico e mi metto in piedi, mi sbilancio verso avanti quasi perdendo l’equilibrio. E lo faccio. Allungo la mano e lo faccio. Metto fine alla mia frustrazione.


Crash.


Che bel suono che fa, la lampadina che si fracassa a terra, esattamente come me lo ero immaginato. Crash, suona di vita che va in pezzi, come la mia.
La differenza però, tra la lampadina e la vita, è che si frantuma in fretta, la lampadina, e la vita no. La vita è bastarda, va a puttane poco a poco, e tu non ti rendi neppure conto di essere divenuto un ammasso di schegge di vetro. E due filamenti di ferro attorcigliati, le braccia della tua anima stanca strette attorno alle ginocchia.

Accartocciato.

Lampadina in frantumi.

Vita a pezzi.

Esausto.

Filamenti che si bruciano con il loro stesso fuoco.

E l’anima che muore, di questa solitudine, che prende tutto e non lascia spazio.

E il minimo contatto con il mondo è cianuro.

«Che succede?» Quasi perdo l’equilibrio nel sentire mia madre oltre la porta chiusa a chiave.
Sai che roba, sbattere la testa sulla vasca da bagno e morire tra le schegge di vetro.
Non sarebbe una cattiva idea, ma poi chi cazzo glielo spiega che suo figlio è crepato perché voleva sentire se una lampadina gridava prima di morire?

«Tutto bene?»
Tutto bene. Tutto.
Tutto bene. Bene.

Bene. Bene. Bene. Bene.

Guardo le schegge. Bene. Tutto bene.



Ho capito, adesso, ho capito tutto. Tutto.



Ho capito bene.
Bene.






«Tutto bene.»


 
Scendo piano dal mobile e vado a tirare a vuoto lo sciacquone del bagno – si chiama alibi – torno indietro, salto le schegge e apro la porta. Mamma mi fissa, fissa troppo, potrebbe anche piantarla con quello sguardo d’accusa.



Mi sta per ricominciare il vomito.



«Stavo pisciando e la lampadina è caduta. Forse era avvitata male.»
«Ah. Probabile. Prendo scopa e paletta per pulire, tu prendi una lampadina nuova che la cambiamo.»
Se ne va, neanche guarda le schegge a terra, forse se le guardasse capirebbe anche lei.
Non fa neanche un saluto alla piccoletta spiaccicata, ma è così che deve andare.

Le sue compagne, lassù, staranno gridando, piangendo, si staranno disperando.
Ma non le sento, è così che va il mondo.

Ci sono miliardi di lampadine nel mondo, una in meno non cambia, siamo troppo occupati a pensare agli uomini, per compiangerla.
 

 



Chissà se qualcuno si dispererà al mio funerale.

Qualcuno piangerà, almeno un poco.







 
E l’Universo non sentirà.
Sarà troppo occupato a badare alle stelle.









So che dovrei occuparmi del nuovo capitolo di American Cafe, ma oggi non c'ero con la testa e mi è uscita fuori questa OS che mi ha un po' pesato sull'animo.
Mi ha alquanto turbato delineare questa psicologia.
Spero l'apprezziate almeno un po' e sarei felice se mi lasciaste una recensione, anche per dire che non fa schifo.
O che è pessima!
Uni.

(*) Questa è una citazione di un blog di Tumblr, anche se credo di averla un po' distorta. Chiedo venia all'autrice.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: unicorn_inthemind