Ai miei amici lontani
…lontano dagli occhi
E anche il settimo ed ultimo anno ad Hogwarts finì, spazzato via dal vento, lo stesso vento che poche settimane prima aveva spazzato via le ceneri dell’ultima battaglia. Quella battaglia che Harry Potter era riuscito a vincere, ma aveva ugualmente perso. Quella battaglia che era durata per tre lunghissimi e massacranti giorni. Quella battaglia dove un’intera generazione era morta. La generazione dalla voglia insaziabile di potere, certo, ma anche quella del coraggio, dell’amicizia, della lealtà. Alle prime luci dell’alba lui si era rialzato e si era guardato intorno, cercando ancora una volta la sua famiglia, sicuro che l’avrebbe trovata. Sempre quando si era svegliato li aveva trovati lì vicino a lui, sorridenti. Sempre la prima cosa che aveva visto erano i loro occhi, brillanti e vivaci. Sempre, ma non quella volta. Li aveva cercati, aveva chiamato a gran voce i loro nomi, invano. Gli aveva risposto solo l’eco delle montagne rimbombante in mezzo ai cadaveri. Loro non erano neanche fra quelli. Vi era Seamus e vi era Dean. Vi erano Calì e Lavanda, e Angelina, e Katie, vi era Hannah Abbot, e Zacaria, vi erano mantelli e divise nere senza volto e volti senza nome. Vi erano bacchette spezzate, vi erano stemmi, vi erano le case. Grifondoro. E Tassorosso. E Corvonero. E Serpeverde. Vi erano amici e nemici. Vi era Ginny Weasley, distesa al suolo, come quella volta nella camera dei segreti. Vi era Draco Malfoy per un volta senza quell’odioso ghigno a storpiargli il bel viso. La sua vita aleggiava su quei volti conosciuti. Ma la sua famiglia, le uniche due persone al mondo per lui davvero importanti erano scomparse. Non vi era nessuna traccia. E allora aveva pianto. Aveva pianto perché i suoi compagni non erano lì con lui. Aveva pianto perché tutti quei ragazzi non sarebbero diventati uomini, ma anche perché lo erano diventati troppo presto. Per la tenera, piccola Ginevra e per i suoi bei occhi azzurri, persi per sempre. Aveva pianto. Pianto per se stesso e per Draco Malfoy, perché fra loro c’era stato sempre e solo odio. Pianto, perché nulla aveva più senso. Semplicemente aveva pianto. E grazie a quelle lacrime era tornato lentamente a vivere.
Correva il treno di Hogwarts per
le verdi campagne, ma tanti posti erano vuoti. Correva, ma il suo rumore era
ovattato dalle urla che ancora rimbombavano fastidiose nella testa. Ogni
giorno. Ogni ora. Ogni secondo. Correva e portava lontano dal castello, dal suo
parco e dal cimitero di Hogsmeade. Portava lontano da quelle bare e da quelle
lapidi, dai quei nomi incisi, da quelle fotografie che salutavano, sorridenti.
Portava lontano almeno per l’estate dai ricordi tristi. Nel silenzio due occhi
rispecchiavano le foreste e gli alberi in fiore. I suoi occhi. E il tempo
passava. Il treno si svuotava degli studenti. E il tempo passava, e con lui le
stagioni, con lui passavano i pianti e i sospiri e lentamente tornavano i
giorni felici. Quelli di un tempo. I posti vuoti si erano riempiti. I cuori
colmati. Quasi per tutti. Oh, non il suo certo. Non quello di Harry Potter. No,
lui era ancora in attesa di un segnale, di un qualcosa che gli facesse capire
che loro erano ancora vivi. E poi un giorno accadde. Mentre osservava la strada
affollata di gente, dall’alto di una finestra la vide. Vide una ragazza aiutare
un omaccione a scaricare qualcosa su una bancarella, al mercato. Era lei! Ma
com’era cambiata! I capelli, un tempo morbidi e in ordine, erano adesso tenuti
male, le gambe snelle e lunghe piene di graffi e di lividi e gli occhi, sempre
rilucenti di allegria e impertinente vivacità, non lasciavano ora trasparire
altro che dolore e stanchezza. Voleva chiamarla, vederla girarsi. Voleva essere
ancora una volta scrutato dal suo sguardo intelligente. Ma nessun suono era
uscito dalla sua bocca. Muto. Era rimasto muto e impotente. A guardare. Senza
rendersi conto del tempo. Anche mentre lei partiva, camminando a stento, e
scivolandogli via. Come acqua tra le mani. E lui si era maledetto ancora e
ancora. E poi, tempo dopo, aveva incontrato un giovane ragazzo dai capelli
rossi che veniva insultato da un uomo. Doveva essere il suo capo. Sembrava
proprio lui. Lui che cercava da tempo, quella parte di sé che gli mancava così tanto.
Se avesse potuto far fermare l’autobus sarebbe sceso a salutarlo. Aveva un aria
triste e avvilita. Gli abiti, un tempo troppo corti, ora gli cadevano flosci
sulle spalle e il viso gioioso coperto di lentiggini sembrava aver perso tutta
la sua vitalità. Lo aveva guardato fin quando aveva potuto, pensando se anche
l’altro si ricordava di lui e di ciò che avevano passato insieme. Non li vide
più per tanto, tanto tempo. E il sapere della loro sofferenza era stato per lui
peggio della morte. E poi un giorno aveva ricominciato a cercarli,
disperatamente, senza riuscire ad avere altro pensiero. Era tornato anche a
Hogwarts, a guardarla da lontano, ad osservare i ragazzini giocare, come lui e
loro. E ad un tratto aveva visto una bambina, probabilmente del primo anno,
minuta. Aveva crespi capelli rossi e i suoi occhi nocciola brillavano
d’intelligenza, sopra al naso coperto di lentiggini. Scoprì che era orfana.
Figlia di una giovane donna e del suo amante. I due si erano visti due volte
sole, l’ultima erano usciti e non avevano più fatto ritorno. Era orfana,
dunque, per legge. Era orfana. E si chiamava Lily Hermione Weasley.