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Autore: Yssel    02/08/2013    3 recensioni
“Lo so che mi senti.”, disse, sconsolato, passandosi l’ asciugamano sul volto distrutto, chiudendo gli occhi e ritraendo le lacrime che non aveva più.
“Ed io so che tu senti me.”
“Io non ce la faccio più, per me è troppo.” , si voltò verso l’ altra parte della stanza e, poggiato allo stipite della porta c’ era lui.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Arin Ilejay, The Rev
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Arin era solo, nel bagno di casa sua. Aveva tirato su il viso, guardandosi nello specchio: le occhiaie marcate e nere sotto gli occhi sciupati da bambino, i capelli che gli cadevano sulla fronte, la schiena stanca e le braccia indolenzite. Un’ altra notte insonne, un’ altra notte passata a pensare di non essere abbastanza, di non essere ciò che tutti vogliono.
Lo opprimeva, ormai, il pensiero di non essere la persona giusta, il pensiero di essere quello che più non si vuole, il non essere adatto, il non essere nulla. Lui era lo sfondo, era l’ ultimo elemento di un dipinto che si scorgeva solo se si aguzzava l’ occhio, era quello il cui nome non importava, lui non era quello che tutti avrebbero voluto fosse.
Arin era stanco, stanco di essere visto in quel modo. Poteva non importargli, poteva fingere che non gli importasse, ma alla fine la sua mente ci ricadeva sempre.
La notte, tutte le notti, guardava in alto, il soffitto scuro della sua camera, e si stringeva nelle sue coperte, come se in quel modo potesse sentirsi protetto. Protetto da cosa?
Dai mostri attorno a lui, dall’ assassino che scavava nel suo cuore, che gli sradicava la materia cerebrale, che gli spaccava la cassa toracica per avvolgergli i polmoni nelle grandi mani insanguinate e stringerli, soffocandolo. Rimaneva cenere.
Incubi, sogni, miraggi, rigirarsi nel letto, sudare d’ inverno, il tormento che prendeva il posto dell’ adrenalina negli arti. Era così, ormai, e Arin non riusciva più a sopportare quella parte di lui che lo ripudiava.
Lui non aveva preso il posto di nessuno, lui aveva solo fatto quello che gli era stato chiesto e, vedendo tutte quelle parole come una luce, un briciolo di speranza, si era buttato mandando al diavolo le conseguenze.
“Lo so che mi senti.”, disse, sconsolato, passandosi l’ asciugamano sul volto distrutto, chiudendo gli occhi e ritraendo le lacrime che non aveva più.
“Ed io so che tu senti me.”
“Io non ce la faccio più, per me è troppo.” , si voltò verso l’ altra parte della stanza e, poggiato allo stipite della porta c’ era lui, lo spirito di James, ancora i capelli con quell’ orrendo taglio che gli stava maledettamente bene, ancora quei due laghi azzurri infossati, ancora le braccia magre e ricolme d’ inchiostro colorato, ancora le gambe fasciate di nero, ancora quell’ enorme Fiction tatuato sull’ addome. Ultimamente, si faceva vedere in giro troppo spesso ed Arin, dal canto suo, aveva smesso di pensare che quella figura fosse solo frutto della sua immaginazione. Lo vedeva solo lui, era vero, o almeno così gli avevano detto gli altri, ma lo sentiva parlare, lo vedeva mentre cercava di tenergli una mano o mentre gli suggeriva come suonare durante i concerti. Era parte di lui ed era presente nell’ aria, ma magari era James che non voleva farsi vedere da Brian, o da Matt.
Arin non riusciva più a sopportare neanche lui, adesso che ci pensava. Appariva quando meno se l’ aspettava, gli rovinava le giornate ricordandogli la sua esistenza, gli rovinava tutto. Non voleva più essere preso di mira da uno spettro.
“No, non è troppo. Lo supererai.” , la voce nasale prorompeva nel bagno non come un sussurrio ma come un vero e proprio timbro marcato, come il parlare di un vivo.
Arin si sedette sulla tazza del cesso e si prese il viso fra le mani, sospirando- ma non di sollievo.
Era stanco.
Non reggeva più il cibo, non reggeva più lo stomaco che prendeva troppo spazio dentro di lui, non reggeva più il dover nascondere gli occhi con le lenti scure, non reggeva più sentire le gambe molli e senza forza, non reggeva più il dover sorridere fintamente di fronte a tutto e tutti e poi, una volta solo, dover crollare come il peggiore dei ghiacciai.
Era consumato.
Consumato dall’ aria che respirava, consumato dalla terra sulla quale camminava, consumato dal suo stesso esistere che si era in poco tempo ridotto ad un subire e ad un non essere felice. I ragazzi lo trattavano bene, non aveva potuto desiderare accoglienza migliore, ma lui non era comunque James, non era il loro fratello maggiore e non li faceva ridere come invece faceva lo spettro. Arin era solo la sfumatura sbagliata di colore che si accontentava di stare alle spalle di tutti, era solo il demone fra tutti quegli angeli. La sua presenza si vedeva ma era anche invisibile.
Ma lui c’ era. E c’ era anche James.
Quest’ ultimo rigirò fra le mani un paio di bacchette e diede il tempo, come se volesse attaccare a suonare, ma colpì l’ aria.
“Quando, quando lo supererò?”
“Non lo so.”
“Sto diventando pazzo.”, pensò ad alta voce, e si sfregò le mani chiuse a pugno sulle guance pallide, per trattenersi dallo scoppiare a ridere istericamente. “Completamente pazzo.”, continuò.
James si accigliò, strinse la bocca in un’ espressione contraddittoria e scosse le spalle, come se volesse scrollarsi la polvere di dosso che la tomba gli riservava giorno dopo giorno.
A volte Arin si chiedeva cosa quel batterista morto pensava. Cosa pensava di lui, cosa pensava di tutti, cosa pensava di ogni singola cosa che stava succedendo attorno a loro.
Cosa pensava del mondo.
James poteva capirlo, per lui la mente del ragazzo era un libro aperto, ma non aveva intenzione di dargli risposte, perché magari avrebbe creduto di starsi montando la testa, perché magari non gli sarebbero piaciute e lo avrebbero spinto a commettere cose più grandi di lui.
“Siamo tutti pazzi. Nessuno è normale.”
“Tu come fai a dirlo?”
“Io per primo, ero pazzo.”
Arin si decise a posare lo sguardo sullo spettro, ma quando lo fece lui non c’ era più. Era pazzo, continuava a dirsi, era pazzo ed aveva bisogno di uno psicologo, di un dottore molto bravo, perché si parlava di malattia e chi di dovere avrebbe dovuto curarlo come meglio poteva.
“Tu… Lo sai che manchi a loro.”, nonostante tutto, sapeva che James c’ era ancora, che poteva ancora rispondergli.
Una mano si posò lenta su una delle spalle tese di Arin, che non si scompose neanche un po’. Sapeva che era James, non c’ era nessun altro lì con loro. Era ferrea, la stretta che andò a compattarsi sulla sua pelle tirata, Arin riusciva a sentire le dita callose ed affusolate che lo sfioravano, che lo carezzavano dolcemente. Ancora, un tremore lo scosse; succedeva ogni volta che lo spettro di James lo toccava, e all’ improvviso, un alone di freddo faceva dell’ aria che respirava il ragazzo una coperta nella quale lui, per qualche istante, stava bene. Perché era come se James lo volesse abbracciare.
“Lo so. Ma non posso tornare.”, il corvino si schiarì la gola.
“Quand’ è che deciderai di… sparire?”
Le dita sulla spalla del più giovane si strinsero attorno alla carne, come colpite da uno spasmo, “Quando mi dimenticheranno del tutto. Per sempre. Quando il mio nome non sarà più ovunque. Solo allora potrò dire di aver vissuto abbastanza per essere felice.”
“Tu sei felice, Jim?”, gli venne quasi spontaneo chiedergli una cosa del genere.
L’ altro scosse la testa, “No.”
“Posso aiutarti, in qualche modo?”, non si erano guardati negli occhi l’ uno dell’ altro per un tempo  indefinito, le risposte arrivavano ad intervalli irregolari, le parole tremavano sulle loro lingue e i cuori, sia quello fermo che quello che batteva troppo forte, non avevano cessato un attimo di saltare nel petto.
“Devi esserlo per me. Le cose non durano per sempre e, nel tuo caso, non durerà per sempre neanche questo. Te lo prometto. Dopotutto sono qui con te perché ti devo tenere sotto controllo. Chi ci pensa a farti scatenare mentre suoni, se no?”, nel tono si avvertiva un accenno di sorriso che incurvava le labbra del Reverendo, ma quelle di Arin non fecero una piega. Al contrario, non appena il più grande scomparve e la sua presenza divenne rarefatta, una goccia cadde ed Arin la osservò mentre il tessuto dei suoi pantaloni la assorbiva; le lacrime tornarono.
E il ragazzo trovò riparo fra i suoi due palmi umidi ed i capelli che gli scivolavano sugli occhi, sulle gocce calde che bagnavano le mattonelle ai suoi piedi, su quelle che gli rigavano il volto e che scivolavano sotto il suo mento.
Si sarebbe risolto tutto. Arin se lo sentiva, si sarebbe risolto tutto.
E se la sua forza era James, se la sua forza non se ne sarebbe andata fino a che nessuno l’ avesse più ricordata, allora lui poteva camminare a testa alta, fare del pianto il suo amico migliore, la sua valvola di sfogo, e poteva sorridere perché se lo faceva, James era felice.

  
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