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Autore: Emera96    02/08/2013    2 recensioni
"Ti va di suonare qualcosa?"
Un padre, una famiglia, un pianoforte a coda.
La musica che si trasforma in malinconia, un sentimento che va nascosto a tutti i costi.
La tristezza di una figlia che, vedendo suonare il padre, capisce quanto il suo sogno sia perso.
Un padre che, in quei tasti neri e bianchi, vede una vita diversa, che ha tanto desiderato.
Una storia sulla difficoltà di esprimere emozioni che, se mostrate, potrebbero cambiare le cose.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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River flows in you.

Note dell'autrice:
Come nasce questa storia? Semplice.
Una chiacchierata con un'amica, e la voglia di voler descrivere qualcosa che lei non sapeva tirar fuori.
Il titolo si riferisce ad una meravigliosa canzone di Yiruma, al quale mi sono ispirata durante la scrittura. ( 
http://www.youtube.com/watch?v=F-4wUfZD6oc )
Spero vi piaccia. (ì


"Ti va di suonare qualcosa?"
La mia voce è scherzosa, un soffio placido nella grande stanza. Padrone assoluto di quel palco inesistente è il grande pianoforte a coda, posto al centro del salone. Lucido, quasi nudo. E potrebbe sembrare appena comprato a chiunque.
Ma non a me. Non a me, unica spettatrice di quelle armoniche melodie. Non a me, fan più accanita di quella passione così pura. 

"Certo, tesoro."
La voce di mio padre, certamente più profonda e adulta della mia, non tradisce alcune emozione.
Anche soltanto quel piccolo dettaglio, quel suo estraniamento dalla realtà circostante, è capace farmi capire. Capire che adesso io non ci sono più. Non ora. Adesso la stanza è solo sua e di quei tasti neri e bianchi. Le dita non sono quelle di un giovane pianista, lunghe e affusolate, prive di calli o difetti qualsiasi. Le sue sono le dita di un barista.
Sono dita con dei graffi, con dei taglietti un po' ovunque. Ruvide per lo sforzo fatto ogni giorno dietro il bancone. E stanche di quella vita del tutto sbagliata, quella vita che non dovrebbe appartenergli affatto.
Una vita non sua, uno sbaglio che adesso non può rimediare più.
 
Gli occhi scuri, fino ad un momento fa fissi su di me, scendono verso il basso, soffermandosi sulla purezza monocromatica di quei tasti. Non sono più gli occhi sorridenti di un padre. Sono gli occhi malinconici che guardano, con tristezza e nostalgia, il sogno di una vita scivolare dalle mani. Occhi impotenti, occhi che osservano tutto con un velo di dispiacere.
Per non avercela fatta. Per non aver lottato a sufficienza. 
 
Sento mio padre sospirare forte, prima di dar luogo al suo spettacolo su misura, creato solo ed esclusivamente per me.
Le sue dita scivolano piano sui primi tasti, creando una leggera melodia iniziale fatta di un'alternanza piacevole di note acute e basse, che sembra accarezzarmi la pelle senza mai arrivare a sfiorarmi davvero. Una carezza traslucida di un'amare nostalgia, che mi punge l'anima e mi fa pizzicare gli occhi.
A questa melodia si aggiungono note su note, arpeggi mai sentiti prima, e quel tocco delicato che si fa più pressante col passare della canzone.
Un ritmo sempre più accelerato. Così veloce da necessitare una partecipazione maggiore dal suo creatore, mio padre, che vedo quasi chinarsi sui tasti. E' come vederlo sotto una campana di vetro. E' come se lui non potesse nemmeno vedermi.
Ma io lo vedo.
 
Vedo come si guarda disgustato le mani, il fastidio che prova verso quei graffi. Come se non gli appartenessero nemmeno.
Vedo anche il suo amore per quel sogno sfumato. E il suo amore per me, uno dei tanti ostacoli alla sua ambizione.
Sento le lacrime trattenersi a stento sui miei occhi, le ciglia ormai impregnate di quel senso di colpa umido. E' colpa mia.
E' colpa mia se adesso può suonare solo qualche volta.
E' colpa mia se quelle dita sono così rovinate.
E' colpa mia se non riesco a dimostrargli quanto quei due o tre minuti che mi regala ad ogni canzone riescano a farmi star male.
E' colpa mia, e lui non me lo farà mai pesare. Lui ha scelto me, accantonando il suo sogno. 
Ha scelto di sciuparsi i polpastrelli, di tornare a casa con la sola forza di addormentarsi sul divano.
 
Lo vedo alzarsi, l'espressione sconfitta di chi, dopo un sogno meraviglioso, apre gli occhi e torna alla realtà.
Si volta verso di me, alla ricerca di qualcosa in cui rifugiarsi. Una parola. Un gesto. Una lacrima.
Ma non so dargli neanche questo. Controllo la malinconia e scaccio via le lacrime con un gesto della mano.
Ma è papà a rompere il silenzio per primo.
 
"Scusa se non ci sono spesso per te. Spero ti sia piaciuto ascoltarmi."
 
Sono costretta a voltarmi di scatto e a nascondere la faccia tra le mani per impedirgli di vedermi piangere.
Sento la gola chiusa da quello sforzo immane, e mentre il groppo cresce, fino ad ostruirla, mi ripeto mentalmente: non qui, non adesso, non davanti a lui. 
   
 
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