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Autore: maybegaia    03/08/2013    1 recensioni
Lo schiaffo mi colpisce con violenza, voltandomi la faccia di lato. Resisto alla tentazione di portarmi la mano alla guancia, là dove il colpo brucia ancora, ma non posso impedire alle lacrime di scendermi copiose sugli zigomi e proseguire oltre.
«Piangi, sì. Piangi pure, tanto c’è Steven sempre pronto a consolarti» mi dice Joe, con la voce carica di disprezzo.
Non provo neanche a spiegargli, per l’ennesima volta, che Steven ed io siamo solo amici. Ci ho già provato, ma non fa che innervosirsi di più, quindi piango in silenzio. Rassegnata.
Joe mi osserva, sprezzante, mentre un sorriso gli increspa le labbra. È divertito dalla mia debolezza, dalla mia incapacità di resistere alle sue percosse. Si diverte perché sa che non lo abbandonerò e non lo denuncerò. In due anni, non l’ho mai fatto.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Lo schiaffo mi colpisce con violenza, voltandomi la faccia di lato. Resisto alla tentazione di portarmi la mano alla guancia, là dove il colpo brucia ancora, ma non posso impedire alle lacrime di scendermi copiose sugli zigomi e proseguire oltre.

«Piangi, sì. Piangi pure, tanto c’è Steven sempre pronto a consolarti» mi dice Joe, con la voce carica di disprezzo.
Non provo neanche a spiegargli, per l’ennesima volta, che Steven ed io siamo solo amici. Ci ho già provato, ma non fa che innervosirsi di più, quindi piango in silenzio. Rassegnata.
«Non rispondi, eh? Non lo dici più, che siete solo amici?» mi accusa, appena prima di colpirmi nuovamente con uno schiaffo sull’altra guancia. Più forte del primo. Barcollo, sforzandomi di non cadere ed appoggiandomi al muro per farlo.
Joe mi osserva, sprezzante, mentre un sorriso gli increspa le labbra. È divertito dalla mia debolezza, dalla mia incapacità di resistere alle sue percosse. Si diverte perché sa che non lo abbandonerò e non lo denuncerò. In due anni, non l’ho mai fatto.
All’inizio stavamo bene insieme, a dire il vero. Così bene che dopo appena quattro mesi abbiamo deciso di convivere. Joe mi ha accolta a casa sua ed è lì che sono cominciati i problemi. Vivendo sotto lo stesso tetto, lui poteva osservare tutti i miei orari ed essere a conoscenza di ogni mia uscita senza di lui. I ritardi poi, l’avevano sempre mandato fuori di testa. Quando rientravo in ritardo, anche di pochi minuti, si infuriava e mi faceva scenate di gelosia, urlandomi contro tutto quello che non ero in grado di dargli. Mi faceva male, sì, ma non erano ferite che lasciavano segni sulla pelle e dopotutto io volevo perdonarlo.
Il primo schiaffo arrivò alla fine del secondo mese di convivenza, ma Joe si scusò immediatamente dicendomi che aveva alzato un po’ il gomito e aveva perso le staffe, così lo perdonai subito. Anzi, lo rassicurai, come se fosse lui quello che ne aveva bisogno.
Gli credetti senza difficoltà, quando mi disse che aveva bevuto troppo. A Joe erano sempre piaciuti i liquori ed i vini, ma non aveva mai mostrato una dipendenza. Anzi, non si era mai ubriacato, che io sapessi. Amava bersi un bicchierino la sera, massimo due, ma restava sempre lucido.
Una settimana dopo il primo schiaffo, però, tornò a casa alle undici e mezzo, ubriaco. Di solito tornava prima di me, ma quella sera arrivò ore dopo. Non pensavo neanche più a quell’unico, solitario schiaffo, finché non sentii la sua voce chiamarmi forte dall’ingresso.
«Rosaline!» ruggì. La sua voce diceva chiaramente che era ubriaco, ma pensai che forse assecondandolo sarebbe rimasto tranquillo.
Mi alzai dalla sedia in cucina, dove lo stavo aspettando, e raggiunsi l’ingresso. Quando me lo trovai davanti, ebbi un brivido. La giacca e la cravatta erano fuori posto, la sua figura sembrava più imponente del solito e nei suoi occhi c’era un’ombra che non vi avevo mai visto.
«Dove sei stata?» mi aggredì. Come se fossi rimasta io fuori casa fino alle undici e mezzo.
«Qui. Ti aspettavo» dissi con dolcezza, sperando che la mia voce lo calmasse.
«Bugiarda! So che mi tradisci, lo so! Con chi, eh? Dimmi il nome!» mi gridò contro lui, mentre l’odore di alcool del suo alito raggiungeva le mie narici.
«Joe, io non ti tradisco. Io ti amo» gli risposi.
«Non posso fare nulla per impedirtelo, ma posso punirti. Ti avverto, però: non prendermi per il culo, puttana» mi insultò.
Quell’offesa mi pesava dentro, all’altezza del cuore. Non mi aveva mai ferita così profondamente, e  per questo i due pugni che mi rifilò non mi sconvolsero più di tanto.
Da allora sono passati altri diciotto mesi. Sto insieme con Joe da due anni, e da uno e mezzo lui mi picchia. Il motivo è sempre lo stesso: la gelosia. Lui è convintissimo che io possa tradirlo, che io lo faccia, anzi. Come se la sola idea di comprarmi un paio di jeans non mi terrorizzasse. Posso quasi sentirlo accusarmi di averli comprati per uscire con un altro uomo, se solo ci penso.
Oggi ho fatto un grande errore. Credevo che rivelargli il vero motivo per cui sarei uscita lo avrebbe tranquillizzato, ma mi sbagliavo eccome.
Oggi pomeriggio ho incontrato Steven. Io e lui frequentavamo lo stesso liceo e ci conosciamo da allora. Siamo sempre rimasti buoni amici e lui è appena tornato da un viaggio intorno al mondo durato quasi un anno. Joe lo conosce e ricordo che ne abbiamo parlato, di lui. Joe era geloso, ma gli ho spiegato che non ce n’era motivo: da anni sospetto che Steven sia gay, anche se non ho mai avuto conferme. Nemmeno smentite, però.
Joe non l’ha presa affatto bene. Sono stata fuori appena mezz’ora, proprio per evitare che si facesse strane idee, ma come al solito è stato tutto inutile.
«Sono stanco delle tue bugie! So che mi tradisci, ammettilo!» continua a gridare Joe.
Non so cosa fare. Se negassi, si infurierebbe. Se gli dessi ragione, si infurierebbe. Se non rispondo, si infurierà.
«Ammettilo!» grida ancora Joe, prima di colpirmi con un nuovo schiaffo, sulla guancia colpita per seconda, la sinistra. Questa volta è troppo forte e mi accascio su un fianco con la schiena contro il muro.
Piango in silenzio, mentre Joe continua a ripetermi la sua litania fatta di «Ammettilo!» e mi prende a calci. Alle mie lacrime ben presto si aggiungono  i singhiozzi che sono ormai incapace di trattenere, mentre gli stivali di Joe mi colpiscono le costole ed il ventre. Poi Joe si china, con un ringhio stampato sul volto deformato dalla rabbia, e per un attimo mi illudo che sia finita. Il pugno che mi arriva alla tempia è il più doloroso di tutti quelli che Joe mi ha tirato in questi mesi di violenza, non solo perché mi fa sbattere la testa contro il pavimento. È doloroso perché non me lo aspettavo, pensavo che fosse finita. Joe, seppur nel suo stato confusionale, non mi aveva mai illusa ed essere colpita quando pensavo che avesse finito è peggio di quanto pensassi. La testa mi gira e sento l’impulso di vomitare, ma mi costringo a resistere. Joe continua a colpirmi, su tutto il corpo. Mano aperta, pugno, calcio. Dopo un tempo che mi sembra interminabile, si stanca e se ne va,  lasciandomi sola in preda al dolore, esteriore ma soprattutto interiore.
 Aspetto di sentire la porta della camera sbattere e solo allora tento di alzarmi, con scarsi risultati. Alla fine, riesco a trascinarmi fino al telefono, proprio nell’ingresso dove è iniziato tutto stasera. Joe non si era mai spinto così oltre, ma adesso so che non si fermerà mai. Può uccidermi e per quanto la mia vita faccia pena, non voglio perderla in questo modo. Amo Joe, ed è anche per questo che lo faccio. Spero solo che non gli facciano del male e lo trattino con gentilezza. Confortata dal pensiero di aiutare Joe, afferro il cordless tra le mani tremanti e compongo il numero che avrei dovuto fare da mesi.
Nove, uno, uno.
«Nove uno uno, emergenze. Come posso aiutarla?» dice una voce femminile all’altro capo della linea.
«Voglio solo smettere di soffrire» riesco a dire, animata dalla disperazione.
Ho preso in considerazione anche il suicidio, ogni volta. Una volta ci sono andata così vicino... Mi sono tagliata i polsi con una lametta, ma non ho avuto il coraggio di affondarla più in profondità ed ho capito che non mi sarei mai tolta la vita con le mie stesse mani.
«Di quale emergenza si tratta?» mi chiede la voce, venata d’apprensione.
«Violenza. Il mio compagno torna a casa ubriaco e mi picchia perché è geloso». Sono sicura che non le interessi, ma non ce la faccio più a tenermi tutto dentro.
«Le mandiamo degli agenti. Arriveranno entro mezz’ora». Silenzio, poi di nuovo la voce posata dall’altro capo della linea. «Verrò anche io. Sono Violet e mio padre picchiava mia madre. Ho un’esperienza simile alla tua, potremo parlarne se vorrai».
La ringrazio infinite volte e le do il mio indirizzo, poi riaggancio e aspetto.
Il campanello suona, facendomi sobbalzare. Joe non lo sentirà, o almeno spero. Di solito ha il sonno pesante dopo una sbronza. Mi tiro a sedere a fatica, quanto basta per aprire la porta d’ingresso, poi mi trascino di lato per lasciarli entrare e mi lascio cadere di nuovo distesa, sfinita.
Cinque paia di gambe entrano nel mio campo visivo prima che i miei occhi si chiudano. Sono esausta. Sento dei movimenti intorno a me e presto mi sollevano dal pavimento per posarmi su qualcosa di più morbido, poi la voce femminile con cui ho parlato al telefono mi chiede gentilmente: «Lui dov’è?»
Mi sforzo di parlare, ma non ci riesco. «In camera» sillabo senza emettere un suono.
Per fortuna, Violet capisce che non sono in grado di rivelare altro e dice qualcosa agli agenti, che si inoltrano alla svelta nel corridoio buio.
Tutto quello che succede dopo, per me è un mistero, dal momento che cado in catalessi. Non so bene se sono svenuta o mi sono addormentata, so solo che resto a lungo incosciente e quando mi sveglio sono in un ampio letto d’ospedale. Apro gli occhi sbattendo più volte le palpebre per abituarli alla luce, poi mi guardo intorno confusa e un po’ spaesata.
Al mio capezzale c’è una giovane donna, avrà trent’anni circa, dalle guance rosee e con dei lunghi boccoli castani. Mi sorride con dolcezza e sembra così delicata e gentile...
«Sono Violet. Ti ricordi di me?» mi chiede dopo qualche istante in cui ci siamo guardate in silenzio.
Annuisco debolmente, perché non ho la forza di fare altro. Non dimenticherò mai quella notte, per quanto possa desiderarlo.
«Quanto ho dormito?» chiedo, e la voce mi esce roca. Improvvisamente mi rendo conto di avere la gola secca.
«Due notti ed un giorno. Io non posso stare qui con te ancora per molto, ma se tu avessi bisogno di qualsiasi cosa, non esitare a chiamarmi» dice posando un bigliettino sul comodino accanto alla mia testa. «Qualsiasi cosa» ribadisce poi sorridendomi prima di alzarsi e uscire dalla stanza.
Resto ancora un po’ sdraiata in solitudine, riflettendo su tutto quello che è successo. So che non lo supererò facilmente, ma mi sento già più leggera pensando che da due notti nessuno mi colpisce con violenza, anzi ci sono persone che si prendono cura di me e delle mie ferite. Sento le lacrime pizzicarmi gli occhi al solo pensiero. Sono commossa e piena di gratitudine.
Alla fine decido che è giunto il momento di conoscere le mie condizioni. Premo un pulsante e dopo un  minuto arriva un’infermiera. Ha un viso pulito e i capelli biondi raccolti in una coda ordinata. Per non so quale motivo, la sua semplicità mi rassicura.
«Hai bisogno di qualcosa cara?» mi chiede con gentilezza. Mi domando se sia il suo modo di fare abituale o se conosca la mia storia, ma decido di tenermi il dubbio.
«Potrei avere un po’ d’acqua?». La mia voce è rauca, come poco fa.
«Ma certo» risponde avvicinandosi al comodino dove Violet ha poggiato il suo biglietto da visita. Traffica per qualche secondo, poi mi allunga un bicchierino di plastica pieno d’acqua. La bevo con gratitudine, poi, visto che non se n’è ancora andata, le faccio la domanda che volevo porle da quando l’ho chiamata.
«Come sono messa?» dico con amarezza.
Vedo che cerca di evitare di rispondermi, quindi aggiungo che può parlare liberamente.
«E va bene» si arrende alla fine lei, «hai due costole fratturate. Le altre sono ferite superficiali».
Mi sfugge un gemito e mi chiedo quante siano, le ferite superficiali di cui parla, ma non voglio saperlo.
«Quanto dovrò rimanere in clinica?» chiedo poi.
«Ancora una decina di giorni, ma dovrà restare a riposo un po’ più a lungo» mi dice.
Oh, no. La ringrazio, dopotutto non è certo colpa sua se sono ridotta così, e mi aspetto che se ne vada, ma lei resta in piedi di fianco al mio letto.
«Cosa c’è?» le domando curiosa.
«Volevo dirle che c’è un ragazzo qui, da ieri notte alle cinque. È rimasto tutto il tempo ad aspettare qui fuori, ma adesso si è addormentato. Vuole che lo chiami e lo faccia entrare? Ha detto di chiamarsi Sean o Stephan, non ricordo bene...» spiega.
«Steven!» mormoro. Mi si stringe il cuore a pensarlo su quelle scomode sedie di plastica per più di ventiquattro ore. Che angelo è stato!
Penso rapidamente: non voglio svegliarlo proprio adesso che si è finalmente addormentato, ma so che se non lo faccio mi rimprovererà. Tuttavia sarà un rimprovero affettuoso e non si arrabbierà davvero con me, non adesso, quindi dico all’infermiera di lasciarlo dormire e dirgli che sono sveglia solo quando lo sarà anche lui.
 
È pomeriggio inoltrato, quando Steven irrompe come una furia nella mia camera d’ospedale. Spalanca la porta con impeto, ma sulla soglia si blocca.
«Oh, Rose, ero così in pensiero!» esclama con le lacrime agli occhi, poi mi corre incontro e mi abbraccia.
Un attimo dopo si stacca e mi guarda con un’espressione contrariata.
«Perché non mi hai fatto chiamare quando ti sei svegliata? Sapevi che avrei voluto tu lo facessi!» si lamenta.
Trattengo a fatica una risata. Non credo che le mie costole gradirebbero.
«Steve, calmati. Non ti ho fatto chiamare perché sapevo che non ti saresti rimasto arrabbiato a lungo ed eri stato qui per così tanto tempo che ho preferito lasciarti riposare. In fondo, io ho dormito due giorni e mezzo. Tu solo una mattinata ed un pomeriggio, perché dovresti agitarti tanto?»
«Non vale» protesta lui, imbronciato, «tu non dovresti sapere che non riesco a portarti rancore.»
Poi si fa serio. «Allora come stai?» mi chiede.
Mi rabbuio. Vorrei potergli rispondere che va tutto a meraviglia, ma non potrò farlo così presto.
«Non male come sembra. Ho solo due costole rotte e qualche livido» scherzo.
«Rose. Guardami negli occhi. Come stai?» ripete.
Da quant’è che i suoi occhi sono così verdi?
«Non lo so. Mi sento come sollevata da un peso, ma anche terribilmente in colpa verso Joe ed un mucchio di altre persone con cui non mi sono confidata prima. Sono confusa e mi sento persa all’idea di non trovare più Joe ogni sera. Non ci crederai, ma era diventata una tale routine che ormai aspettavo le sue percosse quasi con ansia». Mentre parlo sento riaffiorare le lacrime e la voce mi si spezza più volte.
Steven si siede dove quella mattina c’era Violet, poi mi asciuga il volto col pollice. Il suo tocco delicato mi fa tornare in mente quello violento di Joe e rabbrividisco, ma gli poggio una mano sopra la sua in modo da evitare che la allontani.
«Puoi venire a stare un po’ da me, se non te la senti di stare sola» mi dice accarezzandomi dolcemente la guancia.
Lo guardo, colma di affetto e gratitudine, ma non posso accettare.
«Steve, io credo che sia meglio di no, adesso. Non prendertela, ma...» comincio.
«Non me la sono affatto presa. Non sono così immaturo, capisco le tue motivazioni...e forse è meglio così» mi interrompe Steven.
«Meglio?» chiedo incerta. La verità è che non sono affatto sicura di quello che farò quando mi dimetteranno dall’ospedale. Non me la sento di vivere sola, ma nemmeno con un uomo, anche se si tratta di Steven. Dovrei parlare con mia madre e chiederle di ospitarmi per un po’. So che accetterà, ma sarà più difficile tornare a vivere sola poi. Tuttavia, credo sia l’unica soluzione.
«Sì. Devi riacquistare un po’ di fiducia in te stessa e negli altri e ti ci vorrà del tempo. Ma sei forte e so che ce la farai» mi risponde.
«Steven?» lo chiamo.
«Sì?»
«Quando queste costolette me lo permetteranno, ti devo un sacco di abbracci» gli dico.
Un sorriso gli illumina il volto, poi si trasforma in una risata.
«Steve?» lo chiamo di nuovo.
«Sì?»
«Dov’è Joe?» chiedo titubante. Non so se voglio saperlo davvero.
Lui sospira e abbassa lo sguardo. Restiamo in silenzio per un po’, poi, quando ormai non ci conto più, Steven mi risponde.
«In una clinica di riabilitazione. Se non sporgi denuncia, non possono arrestarlo».
Chiudo gli occhi, sollevata. Joe starà bene. Meglio di prima, forse, perché non credo che stesse bene quando si ubriacava ogni sera.
«Come fai a sopportarmi?» domando poi a Steven, dopo un altro silenzio.
«Guardati. Sei in un ospedale, con due costole rotte che ci metteranno Dio sa quanto a rimarginarsi, piena di lividi, sotto shock psicologico e ti preoccupi per il bastardo che ti ha ridotta così. Io sono arrivato qui subito dopo di te, sono rimasto sveglio mentre dormivi aspettando solo di vederti e di parlarti. Mi sono addormentato per sfinimento e tu mi hai lasciato dormire. Come farei a non sopportarti?» Arrossisce e abbassa lo sguardo.
«Sei un angelo. Non preoccuparti per me, starò bene. Vai a casa».
Steven mi guarda con un sopracciglio inarcato, scettico.
«Starò meglio di quanto lo sono stata negli ultimi mesi. Va’ a mangiare, rinfrescarti e riposarti. Potrai tornare domani, se vuoi».
Alla fine, quando gli dico che ha già fatto più di chiunque altro per me, cede. Mi saluta con un bacio sulla guancia e se ne va, mentre io mi lascio scivolare ancora nel sonno.
 

***

 
Sono passati cinque anni da quella notte. Per un anno e mezzo ho vissuto con i miei genitori, poi mi sono presa un piccolo appartamento in affitto, ma ci sono rimasta solo pochi mesi. Steven, infatti, mi ha chiesto di sposarlo e ho accettato. L’idea del matrimonio e della convivenza mi spaventava un po’ - ero terrorizzata -, ma mi fidavo di lui. Lo conosco da anni e la nostra storia è nata da un’amicizia, che mi sembra una base più solida della semplice attrazione. Così, due anni dopo quella notte, ho accettato la sua proposta di matrimonio, che si è celebrato sei mesi dopo. Dopo altri sei mesi -sì, quando mi sono sposata ero già incinta, ma il matrimonio era in cantiere da più tempo, no? -, ho dato alla luce la mia prima figlia. Si chiama Janet, ha i miei capelli biondi e gli occhi verdi del padre. È una bellissima bambina e sorride molto, fin da quando non aveva ancora i dentini. La sua nascita è stata la cosa migliore che mi sia successa in tutta la mia vita. Poi c’è Steven, che non solo non mi ha mai colpita neanche per scherzo, ma non mi ha neanche mai insultata o gridato contro. È il compagno perfetto e Janet la figlia che ogni madre vorrebbe. Mia madre sembra rinata e vizia la mia piccola ogni volta che la lascio sola con lei. Mio padre è felice di vederla così in forma e anche lui adora Janet, come anche i genitori di Steven. Ci conosciamo tutti da molto tempo e i rapporti tra di noi sono ottimi. Sembrava che le cose potessero solo peggiorare, così Steven ed io abbiamo deciso di migliorarle: stiamo cercando di avere un altro figlio da un po’ di tempo e con oggi il ritardo del mio ciclo è di tre giorni. Non oso fare annunci o predizioni per scaramanzia, ma...sento che sarà un maschietto!









Note dell'autrice: il riferimento alla fenice e al carattere ciclico della sua esistenza presenti nel titolo riguardano la  protagonista, Rosaline. Come una fenice, anche lei si consuma, finché non resta che un mucchietto di ceneri del suo corpo e del suo spirito, ma è capace di usare quel poco che le resta per ricostruire se stessa, ciò che ha perso e anche qualcosa di più. Il suo percorso di recupero, naturalmente, avviene passo dopo passo, con cautela, come se dovesse ripetere le tappe della sua vita, seppur cambiandone l'esito. Così come la fenice, quando rinasce, rivive la sua vita dalla gioventù alla vecchiaia. Il paragone mi è sembrato calzante e forse era chiaro anche senza questa spiegazione, ma nel dubbio eccola qui.
Vorrei dedicare questa storia a tutte le donne e, più in generale, le persone, che si trovano in situazioni riconducibili per ingiustizia e sofferenza a quella del mio personaggio. I fatti narrati sono interamente frutto della mia fantasia, ma il tema purtroppo è reale. Spero di poter almeno far riflettere qualcuno e ci tengo a precisare che con questo racconto non ho nessuna pretesa. Sono perfettamente consapevole della delicatezza estrema dell'argomento trattato; non pretendo pertanto di dare insegnamenti né di sminuire coloro che, in situazioni simili a quella descritta, non hanno ancora trovato la forza di reagire, anche perché, per mia fortuna, posso solo immaginare cosa si trovino a passare. Il mio intento era quello di sensibilizzare, far riflettere e, nella più rosea delle ipotesi, infondere speranza e coraggio a chi ne ha bisogno.
  
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