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Autore: AsokaMakela    03/08/2013    2 recensioni
Chi si fa gli affari suoi campa cent'anni.
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre.
Un numero perfetto.
Il numero perfetto.
Ma come mai? È dispari.
Eppure, lo è.
Ricordo che il mio vicino, un vecchio di circa ottant’anni dai capelli brizzolati e radi, aveva tre rosai piantati nel vialetto di casa sua. Lui si chiamava Jack Russell Jonathan Smith. Era un tipo rozzo, dalle mani grandi e gonfie. Un uomo sempre ricurvo sul davanti, a causa della gobba gobba pronunciata sul lato destro della schiena. Il suo sguardo profondo e vecchio metteva suggestione a chiunque lo guardasse. Mai un sorriso sul suo viso, non un solco di una lacrima lungo lo zigomo. Non era un uomo che provava emozioni, tutt’altro. Sembrava poter sopprimere chiunque con la sola forza delle sue iridi di ghiaccio. Indossava sempre la solita camicia rattoppata di mille colori e i pantaloni di fustagno nocciola sporchi di terra. Sulla manica destra, all’altezza del gomito aveva cucito una pezza rossastra con delle figure di animali, simili a quelle utilizzate per le lenzuola dei bambini. O almeno così mi sembrava. Per uscire, cosa che faceva di rado, sistemava un maglioncino sulle spalle e portava un cappello scuro simile a una bombetta. Ai piedi calzava i soliti vecchi calzini bucati e un paio di ciabatte dalla fascia larga, tanto che ad ogni passo sembrava gli scappassero. Noi della via lo chiamavamo “Nonno Ru” per la familiarità che aveva con gli abitanti della zona. Il nostro non era un quartiere particolarmente ricco, lui era l’uomo che trovava lavoro alle nostre giovani madri ma ciò non ostante non provavamo alcun sentimento d’affetto per lui.
Le sue rose erano rosse e sempre rigogliose.
 “Forse era questa la formula della perfezione?”
In tutto il vicinato, non si trovavano rose migliori. Il loro profumo, in primavera, riscaldava l'aria in tutto il quartiere con un aroma forte, ma allo stesso tempo delicato, come quello che si respirava ad Hyde Park.
“Mi chiedevo come potesse essere tutto così... così... perfetto?”
Questo quesito mi rimbomba a distanza di anni, ancora, in testa. Dalla finestra della mia camera, osservavo ogni giorno il mio vicino, Nonno Ru, annaffiare i fiori due volte al dì. Una volta all'alba e un’altra al crepuscolo.
Da dieci anni lo vedo compiere, puntualmente, sempre alla stessa ora quel dannato rito.
“Cosa aveva di speciale, poi? Avrebbe potuto annaffiarle tre volte al giorno o troppa perfezione gli dava il voltastomaco?”
Nessuno parlava mai con il vecchio Jack.
Forse perché era brutto, puzzava ed era vecchio. Di certo non era un uomo dolce o dall’animo gentile come molti degli anziani ricoverati nella casa di riposo di Flowerstown, inoltre, pensandoci di fiori non ne ho mai visti in quel posto.
Un giorno, quel fatidico 17 novembre 1997, persi la testa.
Sono sempre stato un ragazzo curioso ed ero sicuro che sarei morto proprio a causa della mia curiosità.
Non ce la facevo più a sopportare quella routine. Mi dava sui nervi. Precisamente, alle cinque del mattino la chiave nella serratura veniva girata e la porta si apriva lentamente cigolando, lasciando così uscire quell’uomo. Versava l’acqua con lentezza e poi ritornava nella sua dimora. Gli stessi gesti venivano compiuti alle quindici, senza che tralasciasse nulla.
Era una gelida mattina, all'incirca tra le quattro e le cinque, mi sono avvicinato alla porta d’ingresso in mogano con il mio adorabile pigiama azzurro a pois bianchi. Ridicolo per un ragazzo di quasi diciassette anni, ma quello era un dono di mia nonna e non bisogna “mai”mettere nel cassetto una oggetto regalato da lei. Fare un atto del genere avrebbe voluto dire “compiere un atto nefasto”, inoltre non ricevevo doni da quella donna da più di dieci anni. Quello era lo stesso da più di dieci anni.
Il sole ancora basso all’orizzonte sembrava non volesse sorgere. Il cielo era buio e la chiara luce della luna era nascosta da nubi cupe coloravano il cielo di un blu intenso.
Lui non era ancora fuori, ma la porta era socchiusa: stava per uscire, lo avrebbe fatto da un momento all'altro.
Nonno Ru, quando annaffiava, sapeva che io lo osservavo e prima di rientrare dava un'occhiata alla mia finestra fermo sullo zerbino, un tappeto terrificante con la scritta “Benvenuto” e un gatto che giocava con un gomitolo di lana. Anch’esso logoro, malconcio, sporco e mai lavato.
Era una battaglia di sguardi, anche se quando si voltava per scrutarmi mi nascondevo dietro le tende azzurrognole. Penso mi odiasse. Ne ero più che certo. Ci odiava tutti. Non faceva altro che lamentarsi della nostra presenza e del nostro baccano. Giustificava così le sue uscite per innaffiare le rose. Ci dava la colpa di un reato mai commesso. Nessuno doveva guardare cosa stesse facendo.
“Ma perché così tanto odio?”
A otto anni mi era caduta la mia palla nel suo giardino. L’aveva presa come ostaggio, così per ripicca gli avevo sradicato una rosa. Forse quell’avvenimento aveva alimentato in lui il rancore che provava nei miei confronti. Vivevo con mia madre e le sue due sorelle, eppure, era normale per noi ragazzi della via fare scherzi a vicini e passanti. Forse aveva effettuato su di me un rito legato al malocchio.
Era uscito ed una leggera arietta si era alzata  facendo muovere i miei capelli corvini dal taglio corto, appena sotto le orecchie. Un brivido si era fatto strada lungo la spina dorsale facendo alzare i peli presenti su gambe e braccia. Sentivo la pelle d'oca sotto il pigiama. Con un leggero sorriso, accennato per non farmi vedere debole di fronte al nemico, lo osservo cominciare a innaffiare la prima piantina, quella più distante da me. Lo scrutavo, silenzioso, non avevo intenzione di dire la prima parola.” Non l'ho fatto ieri, non lo faccio oggi, non lo farò domani”. Avevo tremendamente paura di quell’uomo, ma volevo sapere cos’avessero di tanto speciale quelle rose. Erano la mia unica ossessione. Di notte non dormivo e di giorno non mangiavo se non lo avessi potuto vedere a causa di un mio mancato appuntamento, lo osservavo con il rudimentale binocolo creato con i rotoli di carta igienica finiti.
Congiungevo le mani, poi intrecciavo le dita tra loro. I miei occhi erano attirati verso il basso, nel punto in cui la terra si alzava per contenere l’acqua, in eccesso.
Intorno alle tre rose era presente quel leggero rialzo rotondeggiante. Non ci avevo fatto caso. Non era colpa dell’acqua. Sembrava quasi che sotto ci fosse qualcosa.
Ora che ricordo meglio effettivamente c'era qualcosa.

 

«Charles, rientra!»
Aveva gridato mia madre dalla finestra della cucina mentre io osservavo la porta di casa Smith. Ero arrabbiato, volevo restituito il mio pallone da basket, l'unico regalo che avevo ricevuto dopo otto Natali passati in miseria. Non costava molto, non per gli altri, ma per me sì. Era un regalo importante. Non avevo mai visto Babbo Natale in vita mia tranne quella volta. Era stato lui a consegnarmelo, di persona.
Si stava avvicinando il mio nono compleanno e quello era uno dei giorni più freddi dell’anno.
C'erano circa 5-6°C inoltre pioveva da nove giorni. Tutta la strada asfaltata era bagnata, umida. La pioggia risaliva dai pori del cemento lungo le mie gambe. La mia determinazione era più forte del freddo. Tremavo e singhiozzavo dalla rabbia. I miei occhi fissi sul pomello di quella porta come se avessero potuto velocizzare la sua uscita. Erano ormai le cinque di pomeriggio e, dopo una giornata a giocare nel fango, era l’ora di ritornare a casa. Ma non potevo, non senza il pallone. Dall’estate dell’accaduto mi fermavo fuori da casa sua, in attesa di vederlo senza doverlo spiare dalla finestra.
Stringevo le mani in due pugni sempre più irritato da quell'essere spregevole e insignificante.
Tutti dicevano di stargli alla larga. Il perché non si sapeva, ma nei suoi occhi si scorgeva un velo di cattiveria repressa. Aveva uno sguardo penetrante, con i suoi occhi riusciva a far agghiacciare il osseo.
Ma quel giorno ero più determinato che mai.
Avevo aspettato che uscisse per innaffiare le sue stupidissime rose.
Era lì. Sulla porta. Ad osservarmi.
Quello era stato il nostro primo incontro diretto. Nessuno dei due avrebbe voluto aprire la bocca e io non lo avrei fatto per primo. Aspettai un paio di secondi e mi avventai sulle sue rose prendendone  lo stelo di una. Lo tirai con forza, anche se non me ne serviva molta grazie alla terra friabile a causa della pioggia. Lui si fiondò su di me e io tirai ancora.
Aveva fissato le sue radici su qualcosa di insolito. Non era un sasso e nemmeno una piastrella, ma qualcosa di biancastro e crepato. La terra emanava un fetore assurdo, la rosa non aveva spine. Nonno Ru si stava avvicinando innervosito e io ero caduto di sedere con la rosa in mano.

 

Ricordo d'averla lasciata per terra ed essermi rifugiato in casa correndo a gran velocità. Non sono uscito per qualche settimana spaventato.
Mentre mi perdevo nei miei pensieri, lui si avvicinava all'ultima rosa, versando solo sulla terra l'acqua contenuta nell'annaffiatoio verde dalla bocchetta di metallo. Facendo attenzione a non bagnare stelo e foglie. Arrancava nell'avanzare parlando con le rose, le trattava come figlie. Tale atteggiamento mi aveva colpito tanto.
Sul suo conto, non si sapeva molto, aveva una famiglia che da un giorno all’altro lo aveva abbandonato. Forse la moglie lo aveva fatto per un altro uomo o semplicemente perché alla ricerca di una vita diversa. Sembrava volesse bene alle sue rose come se sua moglie e le sue due figlie non se ne fossero mai andate. Me lo aveva raccontato mia nonna quando ero più piccolo e mi aveva fatto promettere di non infastidirlo. Pover’uomo. Abbandonato dalle persone che più amava.
Per questo si era trasferito e forse questo era il motivo per il quale era legato così tanto a dei fiori.

Quella voce così familiare e gentile, non me lo aspettavo da un uomo del genere. Il cuore si era riempito di tristezza. Nel suo modo di parlare era presente un velo di malinconia e desolazione. Il mio atto mi faceva stare male anche per lui. Mi sentivo, improvvisamente, sottomesso alle sue parole come se dovessi donargli la tranquillità e lasciarlo davvero in pace. Non ci riuscivo. Qualcosa sotto quel velo mi diceva di stare allerta e le sue parole mi indicavano tutt’altro.
Avevo socchiuso per un attimo gli occhi, in quel momento con voce flebile e rotta a causa della vecchiaia mi chiese di prendere un te a casa sua. Non lo aveva mai compiuto un gesto simile. Cosa bramava? Non avevo fatto molto caso alla sua cortesia, ancora preso da quell’attimo di angoscia varcando la soglia al suo seguito.
L'interno della sua casa era accogliente, ben arredata e profumata. Sulle pareti parecchi quadri dal gusto classico ma raffinato. L’intera entrata era affrescata con piccoli fiorellini rosati e celesti. Un mobiletto laccato sulla sinistra e un orologio a cucù sopra la mia testa segnava preciso lo scorrere del tempo. Nulla da ridire, anzi mi stupiva tutto quell’ordine. Come un gentiluomo non dovrebbe fare con i suoi ospiti, ero stato lasciato da solo in quel corridoio tanto ospitale. In pochi istanti, era sparito. Iniziavo a sospirare.
Gli occhi si facevano sempre più pesanti e le gambe mi reggevano a stento. Non ero abituato ad alzarmi così presto, specialmente dopo una lunga nottata all'insegna del divertimento trascorso con altri ragazzi a lanciare sassolini a bottiglie di vetro. Gli occhi incorniciati da profonde occhiaie bigie si lasciavano coprire dalle palpebre che riaprivo di scatto. Il corpo vacillava a ogni singolo spiffero d’aria come inerme dal sonno. Se non avessi fatto qualcosa mi sarei addormentato l’, all’istante.
Qualche passo per la stanza e la volontà di ritrovare il pallone mischiato alla curiosità cresceva, come un impeto travolgente mi scrollava dalla stanchezza. Avevo l’opportunità di ritrovare ciò che mi era stato sottratto molto tempo fa.
Avevo cominciato a farmi strada nell’abitazione, salendo piano le scale di fronte all’entrata. La casa sembrava invitarmi alla scoperta del piano superiore. Nel piccolo corridoio color pesca dai battiscopa bianchi si affacciavano due stanze soltanto: il bagno adiacente ad una camera da letto.
Le due porte erano rigorosamente socchiuse. Guardo nella prima camera potevo vedere la toilette. Non era sicuramente pulita, i sanitari avevano la base piena di calcare e il rubinetto era scrostato. Il soffitto e il pavimento trasudavano anch’esso umidità, la muffa si era depositata su ogni angolo della stanza, compreso quello dello specchio sporco. Sul lavello uno spazzolino logoro dalle setole consumate, un flacone di collirio e alcune pillole sistemate alla meglio in una scatolina ricolma. Sulla vasca, in pessime condizioni, alloggiava un’ampolla forse di bagnoschiuma, sporca all’esterno dello stesso liquido che conteneva e il tappo adagiato sul bordo. Disgustato da quella vista voltai lo sguardo nella stanza vicina. Quella non era come tutto il resto dell’edificio. Le pareti carbone erano imbrattate di articoli di giornale di cronaca nera, lo avevo intuito da quelle poche righe che avevo potuto leggere. Non avevo avuto il tempo per saperne di più, poiché mi ero sento chiamare. Sapeva il mio nome?
La voce non era più rauca come quella di prima, ma sembrava angelica e cordiale tanto da tranquillizzarmi. Scesi le scale con molta lentezza, attratto da quella voce intensa e calda. Un passo alla volta, sfregando per bene la suola della scarpa leggera sugli scalini color castagno. Non riuscivo di fare a meno di seguirla. Una volta arrivato sul pianerottolo inizia a guardarmi intorno. Quella voce non smetteva di chiamarmi e lo faceva sempre più insistentemente. Mi voltai verso una porticina. Quella voce era diventata un lamento. Un richiamo. Ora chiedeva aiuto, sussurrando flebili gemiti. La voce sembrava singhiozzare e tutto intorno diventava silenzioso. Solo quell’angelo che insisteva nella sua sofferenza. Lasciai scivolare la mano sulla maniglia dorata, abbassandola con la stessa lentezza della sua pena. Il mio cuore soffriva ai suoi richiami disperati. La voce mi portava fino alla cantina, dove ritrovai il mio pallone arancio dalle strisce brune con la scritta “basket” color fuliggine dalle rifiniture bianche e il disegno di un giocatore color panna; qui potevo vedere un fascio di luce proveniente da un’unica lampadina accesa per chissà quale motivo. La tenue illuminazione non mi permetteva di avvistare nient’altro che non fosse a pochi passi di distanza. Eccolo, finalmente!
I miei sospetti erano andati via per la mia euforia. Mi avvicinai di fretta, quasi per non essere visto dal proprietario che non sapevo dove fosse finito. Ero al settimo cielo. Sprizzavo gioia da tutti i pori. Non stavo più nella pelle. Non vedevo l’ora di portarlo a casa e farlo vedere nuovamente a mia madre. Di nuovo nella mia stanza. Il mio unico pensiero era la sfera poggiata al centro della stanza in cemento.
Quello era il mio intento.
A soli dieci passi un 'click' aveva fermato la mia marcia. Non mi mancava molto per arrivare a sfiorare il pallone, ma il mio sesto senso mi diceva di alzare la guardia che ingenuamente avevo abbassato improvvisamente. Le mani aperte pronte ad afferrare l’oggetto, le dita rigide semi piegate cominciavano a tremare in modo ingovernabile. Il battito del cuore era irregolare ed esitavo ad alzare la testa a causa della troppa paura. Mi pareva di non avere più padronanza dei miei movimenti così impacciati. Il fiato si era fatto corto, sempre di più, fino a smorzarsi in una lenta quiete. Alzai gli occhi notando quello sguardo gelido fisso su di me. Era la seconda volta nella mia vita che incrociavo quello sguardo. Il sangue mi gelava e il respiro era sempre più affannato. Non riuscivo più a resistere. Volevo scappare ma non ne ero capace. Il suo sguardo mi teneva sotto tiro. Il cuore batteva all’impazzata salendo veloce verso la gola soffocando il mio più gracile sussurro, impedendomi di gridare e chiedere aiuto. I suoi occhi si erano assottigliati in leggere fessure, più maligne del solito. Il mio corpo non reagiva secondo razionalità ed era pervaso da lunghi spasmi. Le labbra sigillate in due piccole linee sottili e rosate si erano piegate in una leggera smorfia. Ero consapevole del fatto che avrei sofferto, ma non era ciò a farmi paura. I lamenti erano ripresi frequenti, incessanti, corti e spasmodici. La mia testa era piena di bisbigli. Troppi per poter comprendere cosa dicessero e capire nitidamente su cosa volessero mettermi in guardia. Brusii, tramestii e sussurri, pieni di odio, dolore, collera. Chiedevano perdono, un perdono che nessuno avrebbe potuto recepire. Alla vista di un leggero bagliore i miei occhi chiari spalancati si velarono. Deglutii sonoramente stringendomi su me stesso.



In pochi istanti mi ritrovai steso per terra. Una macchia cremisi si erano espanse intorno al mio capo e dagli occhi ancora aperti quelle lacrime non uscirono mai.
Quell'uomo era riuscito a farmi gelare anche il cuore. Lo aveva ghiacciato e fermato definitivamente, terrorizzato dall'urlo disperato di una donna. Così, le rose, non erano più perfette come quando le avevo viste l'ultima volta.
Non avrei mai pensato di riuscire a scorgere un verme da così vicino.
Ora le rose sono quattro e il mio cranio fa da vaso.

  
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