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Autore: Giamo    04/08/2013    0 recensioni
Un giovane ragazzo torna a vivere dopo anni nella casa di famiglia, dove avvennero dei terribili omicidi. Il protagonista dovrà lottare con il suo passato e contro le sue paure per poter continuare a vivere.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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‘Sta tranquillo piccolo, penseremo noi a prendere il colpevole’.

‘Ma il colpevole è il cane, lo giuro!’

‘Certo Jake, ne siamo certi.’

-Ne siamo certi.- l’ironia in quella frase s’era riversata nella stanza come un tornado.
Senza ritegno né esitazione il poliziotto fece uscire il bambino dalla stanza, riuscendo comunque, grazie, o per colpa, alla sua esperienza, a farlo uscire in maniera piuttosto rassicurante.

‘Jake, ci impegneremo, ti farò sapere ogni giorno.’ Mentì.
Una volta che fu uscito entrò la zia: l’espressione comprensiva e disponibile dell’agente si tramutò in una inespressiva maschera di cera. Jake rimase ad origliare fuori dalla stanza di nascosto e sentì tutte le parole che vennero assemblate dagli apparati vocali di entrambi i colloquianti.

‘Signora Ross, suo nipote sostiene che a fare tutto questo sia stato un grosso cane nero, a quanto pare lo descrive come un alano.’

‘M-mi vuole spiegare, p-per favore, per q-quale motivo non gli credete?’ Si lamentò la donna disperata.

‘I primi dubbi ci sono venuti in mente appena dopo aver visto i corpi, signora: i cani, sebbene talvolta attacchino le persone, non se ne cibano. In più non ci sono cani corrispondenti alla descrizione qui vicino.’

‘Sarebbe p-potuto essere un r-randagio, no?’ Pianse la signora.

‘Qui entra in gioco la scientifica. I risultati sono arrivati questa mattina alle 12.30 e sembrano escludere attacchi da parte di cani, a meno che non abbiano usato armi da taglio. E ciò porta ad un’unica soluzione, signora Ross.’

‘I-intende dire..che mio fratello e s-sua moglie, sono stati as-sassinati?’ disse con un filo di voce, strozzata dal nodo alla gola, pronto a sciogliersi in un irrompente pianto.

‘Mi dispiace, signora Ross.’ Così s congedò l’agente. La donna rimase sola, chiamando il marito con la voce spezzata, cercando un minimo di consolazione.

Jake, che aveva ascoltato, si rifiutava di credere a quelle menzogne, e se ne andò sconfitto e afflitto in camera sua, con la mente rivolta all’agente e alle sue fandonie, gli occhi rivolti alla finestra che dava sul giardino, tempio efferato di sangue e morte.

In questo modo andò il giorno dopo la strage, lui aveva 11 anni ed era perduto, sospeso a mezz’aria, aggrappato ai ricordi mentre sgambettava dopo il pavimento che lo reggeva e lo sosteneva, sotto i suoi piedi. Era un bambino di 11 che aveva impressa sulla retina l’immagine di coloro che l’avevano creato mentre morivano e venivano dilaniati. Chi sopporterebbe un peso tale? Mai lagrime furono più amare per il  giovane pargolo, mai giorni più tormentati, mai notti più travagliate. Come soffriva, quel povero fanciullo, che si chiuse in se stesso, nei suoi ricordi, dove era ancora avvinghiato al seno della madre, da cui traeva energia per vivere, o per morire. E poi venne la depressione, ci vollero anni di terapie per fargli superare quel colpo: 8 anni di apatia, oblio e tristezza, nei quali non aveva nessuno oltre ai suoi zii. Nessuno, oltre a loro, che fosse una figura di sostegno.

Ma ora era lì, in quella stessa casa, tranquillo e stabile: libero dai suoi fantasmi che era riuscito a dimenticare. Era lì con la volontà di riaprire quel caso che rimase irrisolto, dopo 10 interminabili anni da quel 1964, così un giorno Jake, salì sulla sua Mustang e procedette verso la caserma della polizia. L’edificio era ancora nello stesso punto di dieci anni prima, era lo stesso edificio di mattoncini rossi che si ergeva, come una cattedrale nel deserto, in quel mare di asfalto e cemento. Il sole d’agosto picchiava sulla terra e sull’acciaio della Ford: scintillava e si scontrava contro il cofano coprente quel v4 che rombava e sapeva di fulmine a ciel sereno.

Arrivò nel parcheggio e spense la macchina. Quando scese non vide nessuno per strada, né davanti al piazzale della caserma: neanche i serpenti uscivano con quel caldo. Una volta varcata la soglia trovò un esercito di ventilatori che si destreggiavano nella sala e rumorosamente ventilavano lo spazio chiuso, pieno di poliziotti che altro non facevano oltre che soffrire dal caldo e cercare aria con le nari, come cani fuori dai finestrini delle automobili. Jake si schiarì la gola per attirò l’attenzione, allora uno dei cops si voltò:
‘Prego, dica.’

‘Mi chiamo Jake Ross, sono qui per chiedere informazioni sul caso dell’omicidio di Julian Ross e Mary Ross, del 1964.’

‘Ehm..porga i documenti prego.’ Tutti i poliziotti nella stanza si dimenticarono un attimo del caldo e fissarono, quasi attoniti, il ventenne.

‘Lei è Jake Ross? Il bambino orfano?’ chiese uno di loro.

‘Zitto Bud, è ovvio che sì. Scusalo, è nuovo e il caso della sua famiglia è rimasto nella mente di molti.’ Replicò innervosito l’agente a cui Jake s’era rivolto.

Jake porse i documenti, l’agente non li guardò nemmeno, li chiese solo per prassi, poi disse ‘Credo che sia meglio che vada a parlare con l’ispettore Mitchell. È nell’ufficio in fondo al corridoio sulla sinistra.’

-Bene- pensò il ragazzo, avanzando passo per passo con una dozzina di occhi puntati addosso, come nei migliori film western. Andando avanti la porta si faceva sempre più grande: la porta, probabilmente di ciliegio, che aveva una targhetta d’ottone avvitata storta sulla parte alta di sè. Sulla targhetta era stato inciso ‘isp. James Mitchell.’ Dipinto poi in rosso. Avvicinatosi, Jake bussò. Risposte una voce scura :

’Avanti.’

‘Mi chiamo Jake Ross, sono qui per..’

‘JAKE ROSS?! CRISTO SANTO RAGAZZO ENTRA! ‘ Jake, confuso, girò il pomello sferico della porta e varcò la soglia.

‘Mio Dio, non pensavo ti avrei più rivisto dopo..beh lo sai! Come vanno le cose? Come mai sei qui?’

Jake, non capendo ‘Mi scusi, chi è lei? Ci conosciamo?’

‘Ah beh, non mi aspettavo che mi riconoscessi, d’altronde ci siamo visti solo una volta. Sono l’ispettore Mitchell, dieci anni fa ero l’agente Mitchell; ti parlai io il giorno dopo l’accaduto. Ma su, cosa fai lì impalato? Siediti, ti piace il whiskey?’

‘Meglio una birra, grazie’ sedendosi ‘quindi lei era l’agente che mi promise che mi avrebbe informato sui fatti.’

‘Beh figliolo, il caso non era mio, ma comunque passò subito ai federali, non chiedermi per quale motivo, ma non so se lo sai: quelli sono più riservati del prete della regina Elisabetta d’Inghilterra.’
‘Capisco.’ Sorseggiò la sua birra ‘voglio che lei riapra il caso.’

‘Coosa?! Sei diventato matto?’

‘Affatto. Voglio sapere com’è andata.’ Sentenziò accostandosi alla scrivania dell’ispettore.

‘In effetti il caso è rimasto irrisolto, ma abbiamo bisogno di qualcosa di tangibile per riaprirlo, tipo una testimonianza o una prova.’
‘Il cane. L’ho rivisto.’

‘Ah no è! Non ritirare fuori la cosa del cane!’ disse Mitchell agitando le braccia e voltandosi verso le finestre dietro la sua scrivania. ‘Guarda, ragazzo, lo faccio solo perché ormai sono vicino alla pensione e ho il potere per farlo, perché è un caso irrisolto e perché all’epoca lo presi a cuore, nonostante nessuno ci capì nulla. Adesso esci prima che cambi idea, devo chiamare il procuratore.’

‘Bene ispettore, ci aggiorneremo, le lascio qui il mio numero’ l’avvisò Jake appoggiando un foglietto sull’agenda dell’ispettore. ‘Arrivederci’. Soddisfatto, uscì.

‘Dannato ragazzo, spero che il procuratore sia comprensivo, non voglio giocarmi la pensione per un caso di dieci anni fa.’
 
Jake uscì dalla caserma, montò in macchina e compiaciuto si diresse verso casa, sapendo, in cuor suo, che la verità sarebbe tornata a galla, prima o poi.
Intanto, a casa sua, davanti quel cancello eroico, un vecchio, grosso cane  nero, aspettava il ritorno di un suo amico, come il buon Argo fece con l’ellenico Odisseo, il guerriero multiforme.

   
 
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