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Autore: Cassie chan    14/02/2008    3 recensioni
Una storia strana, una storia qualunque. Due persone diverse, ma complementari. Due sapori diversi, ma complementari. Un destino che li unisce. Due vite che li dividono… le loro… E la consapevolezza di quello che sarebbe stato e non fu più. Una storia d’amore sul senso dell’amore… esiste qualcosa di più importante? E se dalla risposta, poi, dipendesse anche tutto il resto?
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ayako, Hanamichi Sakuragi, Haruko Akagi, Kaede Rukawa, Ryota Miyagi
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo 10 – Something inequivocal

Capitolo 10 – Something inequivocal

 

Anko Sakuragi

 

L’odore degli aerei è sempre lo stesso, in ogni parte del mondo. È un odore intenso, penetrante, pizzicante. Sarà l’odore delle poltrone in tessuto sintetico, quello dei vani bagagli, quello delle borse e delle valigie, non lo so. O l’odore delle persone, magari. Persone che partono, che se ne vanno, che dicono addio, che spezzano cuori. Questa è la prima categoria, poi c’è la seconda, quella delle persone che tornano, che arrivano a casa, che abbracciano di nuovo, che baciano ancora. Le persone che viaggiano sugli aerei si dividono strenuamente in queste due categorie, come le due parti di Berlino divise da un muro insormontabile, fino al ‘89. Forse sono davvero le persone ad odorare così stranamente. E in questo la tesi viene avvalorata dal fatto che non c’è differenza se un aereo lo prendi per partire o per tornare, anche se le persone sono diverse. Il dannato odore è sempre lo stesso, quindi forse devo escludere i passeggeri come causa di questo odore.

Che, tanto per intenderci, mi dà la nausea. O forse è solo mal d’aria, chissà. Ho la tendenza ad esagerare le cose.

L’odore è sempre lo stesso, anche se viaggi da sola o in compagnia. Perlomeno credo, perché io non faccio testo. Fino a quel momento, io di aerei ne avevo presi solo due. E sempre da sola. Avevo preso quello, ed un altro… l’altro cinque anni prima. E l’odore era esattamente lo stesso.

Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.

Credo, perché sono io sempre dannatamente la stessa.

La sola differenza sostanziale era che allora io stavo tornando, anni prima me ne stavo andando. Ma anche quella era una differenza trascurabile. Perché? Semplicissima come risposta. Allora, cinque anni prima, scappavo. Dal Giappone per New York. In quel momento, scappavo. Da New York al Giappone. Sempre di scappare si tratta, no? Credo che, anche in queste cose e non solo nei numeri, ci sia la proprietà commutativa.

Cambiando l’ordine, il risultato non cambia.

Mancava ancora un’ora al mio arrivo in Giappone, quando iniziai quelle patetiche, ma consuete riflessioni. Cominciai a riflettere sul colore delle poltrone, sul perché le facessero azzurre perché io, l’azzurro, lo odio. Chiesi ad un’hostess bionda una coca cola, chiedendomi perché le hostess fossero anch’esse tutte bionde, come delle bamboline fotocopia, come le Barbie, mai una castana o dai capelli rossi come i miei, se magari fosse una voce sul loro curriculum. Bionda naturale. Magari dava più possibilità di essere assunta. Sorseggiai la mia bibita con lentezza, guardando fuori dal finestrino, mentre la mia compagna di posto intimava alla figlia di non posare le scarpe sul sedile. La guardai per qualche secondo quella bambina, i capelli ramati legati da dei nastri rosa in due codini alti sul capo. Rosa anche il vestitino, le scarpette ed una piccola borsetta. A me sarebbe venuto da vomitare al posto suo. Mentre la bambina faceva la linguaccia alla mamma, beccandosi uno schiaffo, mi chiesi perché, all’inizio della storia, avevano scelto il rosa per le bambine e l’azzurro per i maschi.

Mio padre mi vestiva sempre di azzurro. E io l’odiavo.

Mia madre mi consigliava di vestirmi di rosa. E io l’odiavo.

Verde, giallo, viola, bianco e nero. E rosso, insomma ce ne sono di colori.

Perché, per forza, la scelta era sempre tra il rosa e l’azzurro?

Perché, per forza, la mia scelta è sempre tra mia madre e mio padre?

E, mentre quelle penose riflessioni, almeno riempitive della mia testa, evaporavano, la verità venne a galla.

La verità mi perseguita sempre, mentre io voglio disperatamente bugie. Sembra orribile? Molto probabilmente è così, ma sinceramente non mi interessa. Chi dice “bugia”, pensa immediatamente a quella bugia, detta da uno che si faceva la tua migliore amica e a te diceva che andava a giocare a calcetto. O peggio a quella di un assassino, che negava con spavalderia davanti ad un giudice, nonostante il quadro probatorio completamente avverso, e che tanto ti aveva scioccato, guardandolo in televisione.

Ma io non penso a queste cose.

Per me, a questi concetti si associa più facilmente la verità. Perché, per me, le bugie sono fiabe.

Meravigliose. Colorate. Vivaci. E soprattutto indolori.

Quand’anche rivelassero la loro fatuità, non avrebbero peso. Sono sempre aria, perché nella loro menzogna non sono mai esistite. Invece, la vita è sempre una scomoda eccezione. Perché la vita, inevitabilmente, è sempre verità. Una nauseabonda pozza di verità, condita da qualche patetica e poco longeva bugia. La vedo nella mia mente e la immagino nera, colma di onde altissime che vogliono solamente affogarmi. Onde che, come se non bastasse, hanno la consistenza e la forza di valanghe di neve.

La verità, poi, ha sempre avuto una particolare predilezione per la mia persona. Assolutamente non ricambiata e non richiesta. Mi fiuta sempre, come un segugio dal naso nero. Mi stana e mi morde con i suoi denti affilati, ed alla fine mi mette sotto gli occhi le vere domande. Con le relative vere risposte. Nemmeno quelle mi risparmia, le risposte. Chi cazzo le ha chieste? Le domande ancora ancora le tollero, ma le risposte… quelle non le accetto. Perché non hanno minimamente a che vedere con il colore delle poltrone, dei capelli di una hostess e dei nastri di una bambina.

La vera domanda è una sola. Anch’essa è sempre stata la stessa, anch’essa è sempre uguale.

Perché la mia vita è sempre una scelta tra mia madre e mio padre?

Sospiro, d’accordo, l’ho capita l’antifona. Devo pensarci per forza, no? Non c’è modo per uscirne, vero? Perlomeno ho la consolazione di essere io l’artefice del mio suicidio. Una sorta di eutanasia, diciamo così. Discerno tutta la situazione con la freddezza di un chirurgo, cieca al sangue e cieca al dolore, anche fisico.

Per Hanamichi, è sempre stato diverso. Forse perché è sempre stato lui diverso. Io sono sempre la stessa.

Hanamichi non ci pensava mai a nostra madre, nemmeno quando eravamo bambini. Diceva che non gli interessava. Si metteva a giocare ai videogiochi, a calcio, a guardie e ladri, e non ci pensava. Mai.

Era una grandissima stronzata.

Ci pensava, eccome, a nostra madre. Ma a quella scelta, a quella domanda, lui aveva risposto nel giorno stesso in cui era nato, in cui entrambi eravamo nati.

Aveva scelto nostro padre. Subito, senza pensare. Aveva scelto il genitore che gli comprava il nuovo videogioco, che lo faceva arrampicare sulle sue spalle per prendere il pallone sull’albero, che faceva sempre la parte del poliziotto imbranato. Semplicemente, aveva scelto il genitore che c’era. Non che fosse stata una scelta difficile, in fondo. Era la scelta ovvia, quella che tutti avremmo fatto.

Hanamichi assomiglia molto a nostro padre. O, si dice, assomigliava? Insomma, Hanamichi è il soggetto della frase, no? Ed Hanamichi c’è sempre, quindi… invece mio padre… serrai forte gli occhi, trattenendo il respiro e stringendo i pugni. La mia vicina di posto dovette pensare che avessi un attacco di panico, chissà… pallido palliativo al senso di colpa ed al rimorso, urlai nel mio cervello il verbo nella forma presente.

Hanamichi assomiglia molto a mio padre.

Non esteticamente, intendiamoci. I capelli rossi sono di nostra madre, uguali ai miei. La figura, l’altezza, molti gesti sono sempre di nostra madre. Solo gli occhi, gli occhi di Hanamichi, erano di nostro padre. Scuri come erano quelli di mio padre. Mi morsi il labbro inferiore freneticamente, senza volere avevo usato il passato.

Erano di nostro padre, ora sono solo di Hanamichi. Perché mio padre non c’è più.

La verità mi perseguita sempre, mentre io voglio disperatamente bugie.

I miei occhi sono sempre stati diversi. Verdi, assurdamente e stranamente verdi. Assurdi e strani per una bambina che si guarda allo specchio accanto al padre e al fratello gemello. Perfettamente normali per una che, invece, si guarda accanto alla madre. Sono una fotocopia di mia madre. In tutto e per tutto. Forse, per questo, i miei occhi non hanno mai visto le stesse cose che vedevano loro. 

Da piccola, non capivo, non ci arrivavo. Era un’ impressione vaga e impalpabile, una nebbiolina sui pensieri, un oscurarsi dei ricordi, un offuscarsi delle sensazioni. Era come avere una cosa sotto agli occhi con qualcuno che ti spinge a guardarla bene, e comunque non vederla, non volerla vedere. Nello stesso momento in cui davvero l’avrei vista, tutto inevitabilmente avrebbe preso forme e colori completamenti diversi da quelli che conoscevo, piccole venature di rosa in un infinito oceano di azzurro. Magari era di questo che avevo paura, magari era questo a separarmi da loro due, al di là degli occhi.

Mi nascondevo sotto il tavolo della cucina, abbracciando le ginocchia, la polvere che mi irritava il naso. Diventavo io stessa polvere, cenere di una cosa bruciata tempo prima ed abbandonata lì con assoluta noncuranza ed indifferenza. Fingevo che non ci fossi. Che fossi altrove o che non fossi mai esistita, a seconda dei casi e delle giornate. Hanamichi e mio padre tornavano a casa, ridevano e scherzavano, entrambi coperti di fango dalla testa ai piedi. Sporcavano il pavimento con enormi chiazze scure. Mio padre aiutava Hanamichi a pulirsi e si congratulava per il tiro perfetto che aveva fatto. Hanamichi gonfiava il petto e diceva che era stata una bazzecola per lui, lui che era un genio, un maestro, il campione per eccellenza di ogni cosa. Io ero sempre lì, sotto il tavolo, e loro non mi vedevano. Mi dicevo che forse era perché io non ero un genio, un maestro, il campione per eccellenza di ogni cosa. Mi stringevo più forte le ginocchia, poggiavo la fronte su di esse e facevo ancora finta di non esserci. Facevo finta, sì; perché comunque io lo stesso c’ero, lo stesso esistevo ancora. Chi non c’è, chi non è mai esistito, chi è morto, non sente nulla. Io invece ancora ascoltavo le loro parole. Arrivavano a parlare di bambine, di adolescenti, di ragazze. Mio padre rideva ancora ed Hanamichi si arrabbiava, nomi su nomi di persone che diceva di amare alla follia. Ogni giorno, il nome cambiava.

Poi arrivavano al mio di nome.

“Dov’è Anko?” diceva mio padre, guardandosi attorno per la casa.

E io sgattaiolavo via, gattonando da sotto il tavolo, all’improvviso troppo piccolo per nascondermi. Spuntavo davanti alla porta della cucina, fingendo che ero sempre rimasta in camera mia. Mi scrollavo silenziosamente la polvere di dosso, riassumendo un aspetto perfetto. Tingevo i miei occhi verdi di colori simili a loro, accesi di stelle vivaci e di pensieri felici, indossavo cieli azzurri per sentirmi a casa, nascondendo sotto la mia anima quelle piccole sfumature rosa, che mi facevano sentire un’estranea. Così mi sedevo accanto a loro, ridevo, scherzavo anche io, prendevo in giro Hanamichi per la sua cotta per Makoto, scoprendo però che invece si trattava di Yoko.

Chiudevo gli occhi, ridendo, e non vedevo. Non volevo vedere che già i loro visi erano cambiati. Impercettibilmente cambiati e diversi. Non peggiori, non migliori. Solo diversi. E tutto perché c’ero anch’io.

Non è da fraintendere la situazione, certo per molto tempo l’ho fatto, ma ora non è più così. Mio padre mi amava, tanto. Ed anche mio fratello, anche se certamente a suo modo. Questo l’ho capito molto dopo, in America, da sola, senza di loro. In una calda mattina di sole, mentre camminavo a Central Park tra decine di persone. Non nascosta sotto un tavolo a riempirmi di polvere. L’ho capito, uscendo da quel tavolo, che loro mi amavano con tutto il cuore. L’ho capito quando c’era già un oceano a dividerci, un oceano di acqua azzurra. Ed era già tardi.

Perché prima avevo capito un’altra cosa. Era stato il giorno del mio onomastico, quasi tre anni prima… Hanamichi aveva scartato un regalo per me, mi ero arrabbiata con lui, perché i regali erano miei, era il mio di onomastico, cavolo! Ma quello niente, figurarsi se mi aveva ascoltato. Aveva scartato il regalo di una mia prozia rimbambita. Aveva infatti pensato che fosse la festa di Hanamichi e non la mia, ed aveva spedito un complicatissimo aereo da guerra. Hanamichi chiaramente se ne era impossessato, dicendo che era una cosa da maschi, non da femmine. Mi ero ribellata, dicendo che comunque era un mio regalo, ma mio padre, ridendo, gli aveva dato ragione.

Ed era stato allora che avevo capito il perché di tutto quello che succedeva da quando ero bambina. Il perché di quella nebbia sul mio rapportarmi a loro due. Il perché del loro stare così bene assieme. La cosa che non volevo o non potevo vedere.

Era così perché erano padre e figlio, accomunati dallo stesso sesso.

Io ero diversa, semplicemente perché ero una ragazza. Insomma, la risposta era semplice, eppure mi era sempre sfuggita. Semplice, perché era sempre stata lì, ma mi era sempre sfuggita perché non avevo mai avuto un mezzo di paragone. Ero cresciuta con mio padre, con mio fratello, e fuori di lì c’era solo un’altra persona, e non era un mezzo di paragone, essendo un ragazzo anche lui. È strano che non mi voglia ricordare nemmeno il suo nome per paura che mi faccia ancora male…

Non c’era un mezzo di paragone, perché al suo posto c’era invece un’assenza, pesante come un macigno, una voragine che succhia la felicità e la tristezza, rendendole uguali, senza alcuna differenza. Non ero mai felice e nemmeno propriamente triste.

Tutto solamente per una ragione, la ragione.

La mia mamma. Mia madre, insomma. Quella persona non c’era mai stata. Era… altrove… lei, la donna della mia famiglia. Lei, quella che mi avrebbe capito più di chiunque altro. Che grandissima puttanata, ero veramente un’idiota… non posso assolvermi dal giudizio su me stessa, dicendo che era per questa ragione che lasciai il Giappone.anche se è questa la verità. Ma ho avuto modo di illustrare in che rapporto sono con quella vecchia bastarda. Le verità non devono essere necessariamente giuste e corrette. Le mie non lo sono mai state.

Mi convinsi che mio padre preferiva Hanamichi. Mi dicevo che doveva odiare mia madre e, se io non ero uguale a lui, era perché lo ero rispetto a mia madre. Ergo, lui vedeva mia madre in me. Quindi, odiava anche me.

Palle, grosse bugie gigantesche. Le uniche che davvero mi hanno fatto male.

Mio padre non odiava mia madre. L’amava ancora. Quindi, amava anche me.

E, poi, mia madre non ha niente di me. Lei non sarebbe mai tornata indietro, come infatti non aveva mai pensato di fare. E io, stupida, non me lo ricordai, quando arrivò quella maledetta. Mi sono sempre chiesta, perché avesse chiamato me, e non Hanamichi. Lei diceva di averlo fatto, ma che Hanamichi le aveva fatto gentilmente sapere che non ne voleva sapere niente di lei. Una cazzata, anche questa.

Chiamò me, perché le servivo. E forse perché già sapeva che avrei abboccato, come una povera stupida.

In fondo, è vero che mi conosce meglio di chiunque altro. Mi capisce, perché sono come lei. Ho l’anima intessuta di bugie. 

Toccai distrattamente la mia guancia, piangevo. Mi sarebbero rimasti gli occhi rossi, ma Hanamichi non avrebbe detto mezza parola, ne ero perfettamente consapevole.

Perché, nel suo profondo del cuore, mi augurava ogni lacrima che cadesse dai miei occhi.

E non potevo dargli torto.

Non avrebbe nemmeno riconosciuto una sorella nei miei occhi.

Perché sono verdi. E non sono quelli di papà. E, per sua fortuna, Hanamichi ha sempre visto solo quelli di papà.

Mai quelli della mamma.

 

 

Trascinai pigramente la mia valigia, cercando di evitare quella stessa bambina dell’aereo con i nastri rosa nei capelli. La madre la chiamava a gran voce, si chiamava Noijiiko. Mentre mi sorpassava, correndo, la trattenni per il piccolo braccio, facendola fermare. La piccola si dimenò per un po’, intanto la madre ci raggiunse entrambe, sospirando di sollievo.

“Grazie” mi disse trafelata “E’ una vera peste, non posso mai perderla di vista!”. Le sorrisi, riconsegnandole la sua pargoletta. La bambina mi guardò imbronciata, sicuramente mi odiava per averle impedito lo scatto di libertà che agognava da quando era seduta sull’aereo. Sorrisi anche a lei, non dicendole che cosa avessi pensato. Ma, come avevo già avuto modo di chiarire, il pensiero comunque raggiunse me. Fin quando hai una madre che ti chiama, impedendoti di andartene, goditela. Credimi, non è una cosa così scontata come pensi, NoiJiiko. E poi avrai sempre tempo per scappare da lei.

Salutai la donna con la bambina, ed iniziai a camminare svogliatamente per l’aeroporto. L’aereo era stato perfettamente puntuale, quindi Hanamichi doveva essere già arrivato. Che bello, non stavo più nella pelle all’idea di rivederlo. Ovviamente ero ironica. Stanca di camminare come una deficiente, priva di una qualsiasi meta, lasciai la valigia per terra, sedendomi sopra. Poggiai i gomiti sulle ginocchia e la testa sul palmo aperto, guardando ancora davanti a me, priva di un reale interesse. Davo le spalle all’ingresso, la gente che mi passava accanto, evitandomi distrattamente oppure sfiorandomi con i bagagli. Sbuffai annoiata, sarebbe stato decisamente meglio prendere un taxi ed andarmene in un maledetto albergo, altro che avvisare Hanamichi. Prima di tutto, se era rimasto come era, sarebbe arrivato un’ora dopo l’atterraggio. Ma la cosa più importante era che Hanamichi sicuramente non mi avrebbe guardato nemmeno in faccia, avrebbe preso le mie valigie in completo silenzio e avrebbe preso a camminare davanti a me, costringendomi a seguirmi. Cazzo, adesso che ci penso non sono nemmeno tornata per la morte di papà. Mi faccio schifo da sola. Lo chiamai, questo sì, e lui mi chiuse il telefono in faccia, non appena seppe che non sarei tornata. Potrei dare anche di questo la colpa a mia madre, forse sarebbe anche vero. Rose me lo diceva sempre. Diceva che non dovevo farmi controllare da lei. Diceva che anche se quella donna era mia madre, non era detto che la dovessi ascoltare, qualunque cosa dicesse.

Rose aveva sempre ragione. Specialmente perché a sua volta era madre, madre della mia.

Mia nonna.

Hanamichi non ha nemmeno conosciuto lei, Rose. Era morta un anno prima.

Siamo quasi pari, lui non ha visto morire nostra nonna e io nostro padre.

Che stronza, pretendo anche di giustificarmi in questa subdola maniera.

Era solo, Hanamichi, non c’ero con lui. Deve aver sofferto le pene dell’inferno. E io ero dall’altra parte del mondo.

Mi correggo, se mai arriverà, per prima cosa Hanamichi mi guarderà in faccia. Solo per prendere la mira e sputarmi addosso. Come cazzo mi è saltato in mente di chiamarlo? Di pretendere che mi venisse anche a prendere? Ma che cazzo di persona sono diventata? O forse sono sempre stata? Mia madre non c’entra niente, sono sempre stata così. Odiare mio padre, perché andava più d’accordo con Hanamichi; odiare mio fratello, perché mio padre aveva un rapporto preferenziale con lui; lasciarli per andarmene in America da quella donna… questo l’ho fatto prima di conoscere mia mamma. Sono proprio io che sono così.

Mi alzai di scatto dalla valigia, come se scottasse, e la presi a trascinare nella direzione opposta all’ingresso. Me ne dovevo andare, immediatamente. Prima che arrivasse Hanamichi, non avrei sopportato di vederlo. La valigia mi intralciava troppo nel camminare velocemente, fui tentata di lasciarla lì e prendere a correre come una pazza, prendere il prossimo aereo, non importa dove mi avrebbe portato.

Ma non feci in tempo.

Questa volta, mi fu impedito di scappare un’altra volta.

Una ragazza bionda mi urtò, mentre veniva dalla direzione opposta. Non le feci caso, sembrava occidentale e non avevo nessuna persona occidentale da evitare, perlomeno in quel continente. Lei, invece, mi squadrò dalla testa ai piedi, aggrottando le sopracciglia. Lo so, capita spesso, sia perché sono una bella ragazza, sia perché i capelli rossi in America sembrano strani, in Giappone poi... insomma, non detti peso allo sguardo azzurro della ragazza su di me. Poi, mi sentii afferrare per la vita e fermarmi. Fu allora che invece meditai di prendere la tipa in questione e di darle un calcio, che ne so, poteva essere una lesbica in calore. Ed invece no.

Era solamente la fidanzata di mio fratello.

“Sei Anko, per caso?” mi chiese, sbattendo le ciglia.

Annuii con poca convinzione. Non mi sembrava di conoscerla, il che avvalorava la mia tesi della pazza maniaca.

Lei sorrise quasi con sollievo, dicendo: “Meno male… credevo di essere arrivata in ritardo!”.

“Ma ci conosciamo?” chiesi a mia volta, guardandola di sbieco.

Lei si sbatté una mano sulla fronte con foga, fu forse in quel momento che intuii chi poteva essere. E in cui decisi che mi sarebbe stata simpatica. Chissà per quale motivo… solo per una stupida pacca sulla fronte… certo che le sensazioni e le prime impressioni sono veramente strane…

“Perdonami, devo averti dato l’aria di una svitata…” rispose con calore. Ribadisco, mi stava proprio simpatica.

Sorrisi, dimostrando che il piccolo incidente era dimenticato.

“Mi chiamo Kaname Koishikawa… ma tu puoi chiamarmi Kana…” mi disse, porgendomi la mano che strinsi con la mia. Forse vedendo il mio volto non illuminarsi di comprensione, soggiunse con una punta di sottile amarezza: “Sono la fidanzata di Hanamichi… tuo fratello…”.

Mi colpii il suo viso, si era come oscurato. D’un tratto, compresi. Evidentemente doveva essere rimasta delusa dal fatto che Hanamichi non mi avesse parlato di lei. Ovvio, tra fratelli ci si dice certe cose. Certo, tra fratelli… ma non tra me ed Hanamichi. Poteva anche essere sua moglie e mia cognata, e non mi avrebbe detto lo stesso niente.

Come una pugnalata, mi accorsi che non sapevo niente della vita di mio fratello di questi anni.

Che aveva fatto? Chi aveva conosciuto? Andava ancora a scuola? Amava questa ragazza?

Ne era uscito dalla morte di nostro padre?

Sorrisi, simulando un’espressione stanca di comprensione. Sono la maestra delle bugie, non l’ho forse già detto?

Le bugie hanno anche il pregevole dono di non fare male, ma addirittura di arrecare piacere.

Si può dire lo stesso della verità?

“Hanamichi mi ha parlato di te…” sorrisi ancora “Perdonami, ma non ti avevo mai visto. Per questo, non ti ho riconosciuta…”. Kana sorrise a sua volta, evidentemente sollevata che l’unica parente del suo fidanzato che avesse mai visto, avesse sentito parlare di lei. So che era anch’essa una bugia, che io sia l’unica sua parente ancora in vita, ma in fondo Hanamichi non ha mai considerato nostra madre una sua parente. quindi, effettivamente gli rimango solamente io. E, comunque, allo stadio attuale delle cose, credo di condividere il suo pensiero. Mi rimane solo lui.

“Mi ha detto di venirti a prendere…” mi disse Kana, incamminandosi verso l’uscita, poi sollevò gli occhi al cielo e sospirò con espressione affranta: “Si stava ingozzando come un maiale al bar dell’aeroporto… ovviamente ha perso troppo tempo e quindi alla fine sono entrata solamente io…”.

Le sorrisi, raccogliendo la mia valigia. Guardando la valigia ai miei piedi, ripensai al mio tentativo di fuga di poco prima. Era troppo tardi ormai.

Non sarei mai dovuta tornare.

Invece, io dovevo tornare. Da sempre. Perché quella era casa mia.

Ma non solo perché lì c’era il mio passato. Ci sarebbe stato anche il mio futuro, benché questo ancora non lo sapessi. Il mio futuro… un futuro che avrebbe avuto la faccia segnata dal dolore, esattamente come la mia.

 

 

“Che cavolo di fine ha fatto, quel decelebrato?!!” urlò Kana, schermandosi con la mano gli occhi dal sole che picchiava forte sulle nostre teste nel parcheggio dell’aeroporto, pieno di autovetture che partivano, colme di bagagli e valigie. Mi ero seduta di nuovo sulla mia valigia, sospirando, gli occhi nascosti dietro le lenti da sole scure. Avevo lo sguardo fisso su una pozza d’acqua lontana, sicuramente un miraggio del caldo. Faceva caldo quell’estate a Tokyo, me ne ero scordata quella temperatura. Non che in America facesse freddo, anzi… ma mia madre odiava il caldo con tutta sé stessa e quindi, ai primi mesi di giugno, faceva le valigie e obbligava me e Rose a trasferirci in Canada, a Vancouver, dove la temperatura era decisamente più fresca. Credo che lo facesse per far stancare Rose e farla morire, non c’è altra spiegazione. Insomma, di estati americane non ne ho vista nemmeno una, forse quella stessa, poco prima di partire. Ma era ancora giugno, quindi non faceva ancora il caldo soffocante che i telegiornali descrivevano convulsamente, mentre io sorseggiavo cioccolata calda nel nostro chalet di montagna canadese. Sospirai ancora, Kana continuava ad imprecare da sola, in realtà aveva pressoché parlato da sola per tutto il tempo. Certo, forse lei aveva pensato di stare parlando anche con me, ma io non la stavo assolutamente ascoltando, persa com’ero sui fatti miei. Anche perché, pure se ci mettevo attenzione, che cavolo avrei potuto capire? Niente, ecco cosa. Lei cianciava su un torneo nazionale, su qualcosa che aveva a che vedere con il basket, e non ci capivo che cazzo c’entrasse con me. Sembrava esagitata… avevo annuito con il capo per tutto il tempo, inserendo qualche “mm…” e “ma certo” di tanto in tanto, per darle perlomeno l’impressione che la stessi ascoltando. Guardai l’orologio distrattamente, le undici e mezzo. Ero atterrata sul suolo giapponese da tre quarti d’ora.

“Ascolta Kana… se vuoi, vado a chiamarmi un taxi e me ne vado da sola… non c’è problema…” le dissi, guardandola dal basso verso l’alto.

“Non se ne parla neanche!” inveì lei, facendomi ritrarre quasi spaventata “Se non arriva tra mezzo secondo netto, gli farò fare dodicimila giri di campo! So che sei stanca, ma è una questione di principio! E poi non hai voglia di rivedere tuo fratello?”.

“Da morire…” sibilai a denti stretti, facendo ridere Kana. Se avesse saputo che non stavo per niente scherzando… all’improvviso, vidi avvicinarsi tre persone. Una aveva i capelli rossi, cortissimi sul capo, rasati… Hanamichi… non so che diamine mi prese in quel momento, avevo programmato quel momento nella mia testa da così tanto tempo, che credevo di essere perfettamente pronta. Credevo che la cosa sarebbe andata come io volevo e che sarei stata calma, tranquilla e serena. D’accordo, erano anni che non ci vedevamo e il nostro saluto non aveva avuto esattamente un coro di violini e musica struggente in sottofondo, ma lo stesso avevo avuto modo di smaltire la cosa, di metterla nella giusta prospettiva, così da essere preparata. Chiamare Hanamichi, o meglio mandargli una mail e dirgli del mio arrivo, aspettare la sua risposta, sapere che poteva ospitarmi lui o che sarebbe venuto a prendermi, era stato enormemente facile. Non avevo sentito la sua voce, non l’avevo visto, avevo solamente letto poche e scarne righe elettroniche, illudendomi che fosse una cosa normale. E non lo era, per niente. Ma allora era molto più difficile pensare di allontanarmi da mia madre, quindi tornare da Hanamichi mi sembrava facile come bere un bicchiere d’acqua. Ma adesso che c’ero, mi sentivo crollare la terra sotto ai piedi.  Come avevo potuto pensare che avremmo potuto fare finta che non fosse successo niente? Come potevo tornare a farmi raccontare le storielle sulle sue mille risse? Come potevo pensare che tutto sarebbe andato a posto, così, semplicemente senza fare niente?

Come potevamo essere ancora fratello e sorella?

Sentivo alitarmi sul collo come un animale malvagio ed affamato lo spettro del tradimento che gli avevo riservato. Lo avevo tradito sì, in tutto. Lo avevo lasciato solo, dopo la morte di papà. Senza nessuno. Senza la sua famiglia. Aveva i suoi amici, ne ero certa. Aveva avuto anche Kana, poi. Ma la sua famiglia, quella no. Ed era quella la cosa più importante, la più vitale e necessaria. Pensateci. Ogni volta che aprite la porta di casa, che la sbattete, che ve la chiudete alle spalle. Avete sempre una porta da aprire, da sbattere, da chiudere. Camminerete per le strade, per chissà che città sconosciuta, ed avrete terrore, paura, spavento. O ne sarete affascinati, colpiti, meravigliati, persino commossi ed innamorati. Salterete nel vuoto dei vostri giorni con la matematica certezza che quella porta è sempre alle vostre spalle. Magari non vorreste aprirla più, rimpiangerete di non averla sbattuta, vi pentirete di averla chiusa. Ma quella, intanto, c’è sempre, continuerà ad esistere, come una cintura di sicurezza per le volte in cui vorrete tornare indietro. Tornerete indietro? Forse sì, forse no. Alle volte, lo farete, pentendovene. Altre volte, non lo farete, pentendovene ugualmente. La porta comunque ci sarà sempre. Con la sua intrinseca scelta. Tornare o no?

Pensate se quella porta, con la sua scelta a voi concessa, non ci fosse più.

Avreste la stessa forza di andarvene, con la paura che comunque non si potrebbe tornare indietro?

La forza nell’andare avanti, sarebbe la stessa, se ci fosse l’eterna coscienza che dietro non c’è più niente?

Andreste avanti solo perché non potreste tornare indietro.

Ed andare avanti solo per questo, non porta mai da nessuna parte.

In America, andavo avanti perché sapevo che non potevo tornare da Hanamichi.

In Giappone, Hanamichi andava avanti perché sapeva di non poter tornare indietro da nessuno della sua famiglia.

Alla fine, fratellino, qualcuno dei due è arrivato a qualcosa? Io no. Sono tornata, forse solo per avere la forza di andarmene di nuovo.

E tu, invece?

L’hai trovato un posto dove tornare?

Kana parlava, stava effettivamente dicendo qualcosa, ma io non la sentivo, non riuscivo a sentirla. Avevo nelle orecchie come un fischio indistinto che non mi permetteva di distinguere nessuna delle sue parole. Iniziai a torcermi freneticamente le mani in grembo, come il mio stomaco che si contorceva su sé stesso a ritmi sempre più forsennati man mano che lui si avvicinava. Non riuscivo nemmeno a respirare, come era possibile? Detti la colpa al caldo, all’afa, alla stanchezza, alla lunga attesa sotto il sole cocente. Che razza di raccontaballe… mio fratello si avvicinava e io avrei preferito morire per un qualsiasi tipo di causa inspiegabile, pur di non trovarmi lì davanti a lui. Era così alto mio fratello, prima? No, certo che no. L’ultima volta che ci siamo visti, avevamo dodici anni. Era alto sì, perlomeno per la sua età e in raffronto a me, ma non così tanto. Sembrava schiacciarmi con la sua altezza, comprimermi con la faccia premuta a terra. O ero solo io a sentirmi così? Era cambiato, indubbiamente, aveva un passo più sicuro e deciso, meno cadenzato e disordinato. Sembrava in forma, come uno abituato a fare sempre attività fisica. Non prima che fosse fuori esercizio, ma adesso era difficile non accorgersene. Aveva continuato a prendere a cazzotti chiunque gli desse fastidio? E perché si era tagliato i capelli? Stava bene prima… poi mi accorsi di quanto era stupido al pari di tutto il resto, farmi tutte quelle domande. Hanamichi doveva essere cambiato. Era più importante di ogni legge fisica, di ogni principio, di ogni teorema. Le cose, per non distruggersi, dovevano trasformarsi.

Hanamichi, per sopravvivere, doveva essere cambiato.

All’improvviso, semplicemente troppo vicino a me.

Arrivò davanti al mio viso ed al mio sguardo in maniera troppo rapida e repentina. Scanzonato come sempre Hanamichi, il fratello che mi faceva morire dalle risate, raccontandomi delle sue infinite avventure e storielle assurde. Capitavano sempre tutte a lui, chissà com’era possibile… ridevo e lui fingeva di offendersi, quando in realtà credo che ridesse lui stesso delle scemenze che raccontava. Ma erano le nostre scemenze, il nostro piccolo mondo, quello che gli altri avrebbero liquidato come un qualcosa di infinitamente sciocco ed infantile. Ora vorrei avere tra le mani una sola di quelle cose sciocche ed infantili, poterne ancora parlare con lui, riderne magari. Perché, invece, adesso il nostro silenzio è pieno di cose enormi ed illimitate, cose da adulti.

Ci uccideranno, come farfalle schiacciate da lastre di marmo freddo. E ne moriremo.

E il peggio è che non ci posso fare nulla. Ma, se c’è qualcosa di anche peggiore, è che non ci voglio fare nulla.

“Anko…”, anche la sua voce era diversa, era una voce da uomo. Era un uomo ormai. Lo guardai per qualche secondo, cercando di imprimere nella mia retina l’immagine di quell’estraneo che sarebbe dovuto essere mio fratello. Kana gli disse qualcosa in tono inquisitorio e lui mi lasciò immediatamente perdere per dedicare tutta la sua attenzione a lei. Adesso c’è qualcuno di più importante, no?  Parlava con lei di qualcosa che io non potevo minimamente sapere, o anche immaginare. Sembravano parlare di allenamenti o cose simili, ma non ci prestai molta attenzione. Che mi importava? Capire di che cosa stavano parlando, sarebbe stato sempre troppo poco rispetto a quello che ancora non sapevo. Volevo solamente andarmene ed ancora mi chiesi chi cavolo me l’aveva fatta fare a chiamare proprio lui, sarei potuta tornare e non dirgli niente, oppure andarmene dall’altra parte del mondo, senza che lui lo venisse mai a sapere. Sarebbe stata la scelta più logica. Ed invece, idiota come sono, lo avevo chiamato. Che grandissima demente.

“Allora, Anko, com’è stato il viaggio?” la sua voce mi sorprese come non mai. Ma stava davvero parlando con me?

“Che cosa?” chiesi scioccamente.

“Il viaggio… com’è andato…” ripeté lui con pazienza. Il suo sguardo era opaco, sorrideva amabilmente, e so per certo che Hanamichi non conosce sorrisi amabili. Quelli che si fanno solo per educazione. Lui conosce le risate sguaiate, gli accessi di allegria che ti gettano a terra, gli starnazzi dei momenti sommamente divertenti. Ma certo… Kana non sa nulla di me e di te. Sta fingendo per lei… la ama molto, allora… tranquillo, Hanamichi, in fondo siamo stati fratelli per dodici anni…

“Da schifo…”  la mia voce suonò troppo acuta, quindi cercai di restringere il tiro, incrociando le braccia e sbuffando: “E poi sei stato dodici ore per arrivare… più del tempo del volo…”. Lo guardai di sottecchi, sperando di non avere esagerato in questo eccesso di confidenza. Ma lo vidi sorridere piano, lo sguardo che si rasserenava un po’. Sorrisi tra me e me, avevo colto perfettamente l’antifona…

“Non erano assolutamente dodici ore… hai una nozione tutta sballata del tempo…” replicò lui, offeso.

“Hai ragione… erano quattordici ore…” gli risposi per le rime, ridendo. Volevo solo mettermi a gridare, ma continuai a ridere come una povera cretina. L’avevo capito che, finché ci fosse stata Kana, avremmo fatto finta che tutto fosse a posto. Come mettermi davanti agli occhi un’enorme torta sapendo che sono affamata, ma dirmi che non la posso mangiare. Era esattamente la stessa cosa. Farmi vedere come sarebbe stata se quel giorno non me ne fossi andata, ma con l’aggravante che non era per niente vero e che non lo stava certamente facendo per me.

Per la prima volta nella mia vita, odiai una bugia più della verità.

Avrei preferito che non mi parlasse piuttosto che godermi questa patetica scenetta.

Il prezzo della normalità non poteva essere null’altro che vivere in una bugia assurda e senza senso. Ed, in effetti, come avrebbe potuto essere altrimenti?

Ridevo ancora, quando mi voltai senza accorgermene. Il cuore mi balzò in petto. Non poteva essere vero… anche questo… fantastico, era davvero la mia giornata fortunata… sentivo la pelle del mio viso farsi gelida e, ci scommettevo, anche bianca, creando un contrasto strano con il colore dei miei capelli. Come potevo sperare che non venisse anche lui? Chiusi gli occhi, maledicendo la mia stupidità ancora una volta. Era lui il vero fratello di Hanamichi, non io. Il sangue non c’entrava niente. Chi cazzo se ne frega di un liquido che scorre dentro di te e che vedi solo se stai particolarmente male? Non è mai importato nulla. A tutti e tre. Era un fratello anche per me… che enorme cazzata… un fratello, sì come no. Era… tutto, tranne che un fratello. E ho tradito anche lui.

“Quindi, sei tornata davvero…”.

Accolsi l’ultima parola con un sospiro, come se mi ferisse dentro e concedessi a me stessa solamente quel respiro un po’ più intenso. E già volevo di nuovo la bugia di Hanamichi, fingere come due provetti attori, piuttosto che vomitarci addosso la verità dietro parole innocuamente buttate a caso, ma in realtà scelte con il sadismo di un killer. Sono veramente incontentabile… sollevai lo sguardo timidamente, ritrovandomi a guardarlo dopo tutti questi anni. Era cambiato anche lui, ovviamente, ma non fu quello a colpirmi. Sgranai gli occhi, sentendo qualcosa premermi sotto le palpebre. Abbassai gli occhi, spaventata.

Lacrime.

Ecco cos’era.

Stavo per… piangere… impossibile, stavo per piangere…

Non per mio fratello, ma per… lui… sbirciai con la coda dell’occhio le loro mani unite, scoprendo che mi faceva male più di quanto credevo possibile. Non ci avevo mai pensato in questi anni, ed anche questo era stato enormemente facile. Sapevo che poteva succedere, eppure non mi preoccupava. Per nulla. Quando sarei tornata, anche questo sarebbe andato a posto. In fondo, era di lui  che stavamo parlando. Mi avrebbe capito, sicuramente.

Se non rispondeva alle chiamate, era perché aveva da fare.

Se non rispondeva alle lettere, era perché non gli piaceva scrivere.

Se non si faceva sentire, era perché era ancora arrabbiato con me.

Ma gli sarebbe passata… ovviamente…

Come cazzo ho fatto a pensarla per quattro anni così?

Ci mancava solamente che pensassi che m’avrebbe potato un regalo e che mi avrebbe portato al luna park, come facevamo da bambini. Che grandissima idiota… alla fine, era ovvio il contrario. E’ andato tutto a puttane anche con lui…

Sollevai gli occhi, ringraziando le lenti scure che mi celavano ancora alla vista di tutti. I miei occhi sono sempre stati più sinceri di me, mi hanno sempre smascherata, ma, se sono coperti, sono più tranquilla. Non si vide che erano umidi, non si vide che guardavano ossessivamente quelle due mani teneramente intrecciate, non fecero indovinare i miei pensieri su dove cazzo finisse la sua ed iniziasse l’altra. Queste cose, magari, un giorno di tanti anni prima, lui le avrebbe capite semplicemente, sentendo la mia voce. Ma adesso non era più così… trattenni ancora le lacrime, cercando di controllarmi con tutte le mie forze. Ci mancava solamente che scoppiassi a piangere come una cretina. 

“Certo che sono tornata… “ dissi piano, senza rabbia, volevo perlomeno cercare di non tradire il tacito accordo di tranquillità con Hanamichi “Le promesse le mantengo, io…”.

Era stato uno sfogo represso, valevole solo per la mia persona. Me lo sarei fatto bastare in quelle serate, in cui quel ricordo si sarebbe affacciato prepotentemente nella mia mente, colorandosi ogni volta di particolari diversi ed assolutamente inediti. Solo per le mie orecchie, la parola promesse si era vestita di un tono nostalgico, aveva indossato con rabbia e foga il dolore di questi anni, aveva assunto le sembianze di tradimenti consumati e ricambiati. Nella mia sola ed unica parola, c’era tutto quello che ci sarebbe dovuto essere sempre. Era una parola persa nel vento, una parola che sarebbe vibrata a vuoto, ma almeno c’era. Almeno l’avevo detta. Almeno, paradossalmente a dirsi per me, in quella sola parola ero stata sincera.

Avevo accentuato a vuoto anche l’io, sapendo che non se ne sarebbe accorto. Ma poco importava, importava poco anche di questo. Era solo una mia stupida ed irriflessiva vendetta… my love is a vengeance, that’s never free…  la prima canzone che avevo nell’I-Pod, ricordavo solo quel verso adesso. L’avevo messa solamente perché era la canzone che c’era alla radio il giorno che seppi della morte di mio padre. Era stato un caso. Ed invece già conteneva un implicito messaggio. Il mio amore è una vendetta che non sarà mai libera.

Certe volte, le cose sono da sempre in attesa di succedere. Aspettano solamente il momento in cui fregarti.

E quello era il momento.

“Ci sono promesse… e promesse… e, per alcune, è chiaro che non saranno rispettate… non lo sai, Anko?”.

Yohei… dissi solamente nella mia mente, incapace di parlare, la bocca impastata. In un secondo, si riempì la mancanza di quel nome, da anni mai pronunciato nei miei pensieri per paura che mi facesse male. Come sempre, ha capito tutto.

Sorrisi, volgendo lo sguardo altrove. La presenza di una canzone, messa apposta per farmi nascondere dietro di essa. Il vuoto nella mente, messo apposta per farmi nascondere dietro di esso. E adesso questa parola ripetuta, messa apposta per farci  nascondere dietro di essa.

Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.

Credo, perché sono io sempre dannatamente la stessa.

 
 
 
 
Se chiudo gli occhi, non ci sei

In fondo a tutti i miei vorrei.

Almeno tu lasciassi scia,

saprei come lavarti via.

Se chiudo gli occhi, dove sei,

davanti a tutti i dubbi miei.

Almeno tu lasciassi scia,

saprei come mandarti via.

 

 

 

Yohei Mito

Quando quella mattina mi ero alzato dal letto, per un solo secondo non mi ero ricordato che cazzo di giorno era. Quella informazione mi era giunta subdola, mentre mi facevo la doccia e l’acqua mi scorreva lentamente gelida sul viso, impregnando progressivamente i miei capelli. Suonavano lente le ultime parole di una canzone di poco tempo prima dei Limp Bizkit, gruppo che mi piaceva parecchio; avevo alzato parecchio il volume, riconoscendo l’accordo iniziale di Behind blue eyes, ed avevo aperto il rubinetto dell’acqua. Canticchiavo l’unico verso che sapevo, dato che l’inglese non c’era mai stato verso di impararlo, né a scuola né altrove. Quell’unico verso me l’aveva scritto Haruko sul diario di scuola il giorno dopo il famoso bacio, e mesi dopo, le avevo chiesto il nome della canzone. Scaricatola da internet, mi era piaciuta e quindi, sebbene con me e con lei non c’entrasse niente, era diventata una specie di nostra canzone. No one knows what’s like to feel these feelings, like I do. Questo diceva. Quella mattina, quella fottuta canzone era messa apposta lì per farmi distrarre la mente e poi darmi un colpo in testa. Era finita, quando il dj diceva che Kyoko Kyozawa aveva vinto i biglietti per il concerto dei Fall out boys per la settimana prossima. Disse la data del concerto, ricordandomi automaticamente che giorno era. E io da perfetto coglione me ne ero completamente scordato. Come un imbecille, uscii fuori dalla doccia, raggiungendo camera mia e controllai il piccolo calendario sulla scrivania tra pile di libri ormai dimenticati. Cazzo, allora era vero. Era proprio il giorno che diceva quello alla radio.

Era il giorno che tornava Anko.

Mi accasciai sul letto, gettando per terra l’accappatoio, e rimasi qualche secondo, fermo a guardare il soffitto bianco della mia camera. Cercavo di tenere a bada il cumulo di pensieri che la mia mente automaticamente stava formulando, ma, come era prevedibile, non ci riuscivo per niente. Cazzo, Anko stava per tornare. E non un stava per tornare dilatato nel tempo, ma… adesso, tra poche ore. Ero stato una settimana a dirmi che mancava ancora un sacco di tempo, finché i giorni si erano progressivamente ed inesorabilmente fatti ore. E sicuramente tutto questo era avvenuto troppo in fretta per i mie gusti. Decisamente, troppo in fretta.

“Yohei, telefono!” la voce urlata di una delle mie sorelle mi fece alzare bruscamente dal letto. Mi infilai le prime cose che avevo sotto gli occhi e scesi al piano di sotto. Reika se ne stava ferma in attesa con la cornetta in mano, sbuffando scocciata, mentre nella stanza accanto Sakura e Yukari gridavano come delle ossesse su chi avesse rovinato con un’enorme macchia di cioccolato una camicia azzurra. Come era prevedibile, erano appena arrivate a gettarsi contro ogni cosa che avessero a tiro. Dove fossero i miei in questo spargimento di sangue? Semplice. Mia madre stava in cucina a farsi i cavoli suoi, dicendo che stava cucinando, e mio padre guardava la televisione, cercando di capire come si praticasse correttamente la pesca d’altura. Speriamo che non mi metta in mezzo… la pensione ai genitori gioca decisamente brutti scherzi. Credo che, adesso, si sia reso conto con compiutezza che viviamo tutti e due in un inferno femminile e cerchi di scappare ogni momento, trascinandomi dietro. Cazzo, ci doveva pensare prima di mettere al mondo tre figlie femmine, prima di arrivare al sospirato erede maschio. Così te la vai proprio a cercare, d’accordo io non sarei mai nato, ma queste tre, anzi quattro se aggiungiamo mia madre, sono difficili da sopportare anche nei momenti migliori. E c’hanno pure Reika ventitre anni e le gemelle diciannove, quando cazzo si sposano e se ne vanno di casa?

“Vi chiudete quella fogna di bocca?!” urlai, la mano premuta sulla cornetta del telefono. Il fracasso ovviamente continuò, aggravato dalle urla di mia madre, mio padre ed anche di Reika. La casa degli orrori, ecco cos’è…

Sospirai, tanto non mi avrebbero mai sentito, e cercai di allontanarmi il più possibile, perlomeno per quanto me lo concedesse la lunghezza del filo del telefono. Se ne spendono di soldi, maledizione, ma un cordless no, eh!

“Chi è? Cioè pronto…”.

“Cazzo, oggi c’è più casino del solito…”.

“Che hai detto?!” urlai nella cornetta, non riuscendo a distinguere nessuna parola.

“HO DETTO CHE OGGI C’E’ PIU’ CASINO DEL SOLITO!!!”.

“Come se io non me ne ero accorto, sei un genio Hanamichi!”.

“Modestamente lo so…”.

Rotai gli occhi alla sua esplosione di sghignazzi presuntuosi, e gridai ancora, cercando di sovrastare le voci delle galline: “Che cazzo vuoi?!”.

“Lo sai che giorno è oggi?!” la sua voce si era fatta più bassa ed incerta, ma distinsi ugualmente ogni sillaba.

Certo che lo so, maledizione… sono quattro anni che lo aspetto sto fottuto giorno…

“Il giorno che faccio richiesta di essere adottato?” dissi nervosamente, facendo passare il fremito nella mia intonazione come conseguenza del casino che ero costretto a subire da diciassette anni. Era credibile in fondo, no? Ma era una bugia bella e buona… ed Hanamichi poteva anche capirlo. In fondo, è quel fratello che la mia vera famiglia non è stata in grado di darmi. Quindi, sa perfettamente che, come chi dice con eccessivi scatti nervosi di odiare la propria famiglia, in realtà la ama molto, lo stesso vale per me. Lo adoro sto casino, non potrei viverci senza, lo odierei il silenzio che c’è a casa sua, per esempio, adesso parzialmente rotto solo dalle voci mie, di Kana e di Haruko. Cazzo, ma lo odierei lo stesso. Lo odierei come odierei la sua causa, la mia famiglia assente. Come la odia lui, mentre ci ride eccessivamente sopra. Ognuno di noi due è sempre il contrario dell’altro. 

“Non chiedere di essere adottato dalla famiglia Sakuragi, allora…” ci rise sopra Hanamichi, come volevasi dimostrare “Avresti un culo allucinante… e con i Callaway, non ti va meglio…”.

“Escludere Sakuragi e Callaway… perfetto…” annotai “Anche perché chi ce la farebbe a diventare tuo parente?!”.

“Vuoi che ti spacchi la testa?!”.

“Quando vuoi, sempre che non te la rompa prima io quella testa di ca…”.

“Yohei!” la voce scandalizzata di mia madre mi richiamò bruscamente all’ordine. Ma che stava origliando?!

“Scusami mamma…” dissi, abbassando il capo in segno di pentimento, mentre quel bastardo se la rideva dall’altra parte del telefono, scimmiottando la mia voce: “~ ~Scusami mammina!! ~ ~.

“Quando ci vediamo, ti prendo a calci, razza di mentecatto…” lo minacciai, sibilando silenziosamente nel telefono.

“Sì, sì come no… allora, passi da casa mia tra mezz’ora? L’aereo dovrebbe atterrare tra due ore al massimo…” aggiunse allora Hanamichi, il tono ridiventato nuovamente serio. Certo, abbiamo fatto finta fino ad adesso che sia tutto normale… Hanamichi non voleva pensarci nemmeno lui. Al fatto che Anko stava tornando, intendo. Se faceva sclerare me, figuriamoci lui… doveva essere sbarellato di brutto. In fondo, che facessimo finta tutti e due, lo sapevamo che c’era qualcosa di diverso in quella giornata. Che io finga di essere arrabbiato per la mia caotica famiglia o che lui scherzi come sempre, non cambia nulla. Alla fine, sempre lì andiamo a sbattere la testa. Anko sta per tornare. Punto e basta. E nessuno dei due è pronto alla cosa. Né lui, né tantomeno io. Prenderci per il culo serve a dirci che perlomeno questo resterà uguale, ma se fingiamo davvero di non ricordarcelo che cosa accade oggi… bè, saremmo due emeriti coglioni. Lo sappiamo da tutta la vita che cosa accade oggi.

“Va bene…” risposi, senza ulteriori false amnesie “Andiamo assieme a prendere Haruko e Kana?”.

“Kana è già qui…” mi rispose allegro, mentre sentivo un saluto provenire dalle sue spalle e diretto a me.

“Ah, allora Kana è già lì… e ci sta da molto tempo?” chiesi sornione e malizioso, capendo perfettamente in che circostanza Kana si era trovata ad essere già lì.

“Ciao Yohei!” urlò Hanamichi nel telefono, non dopo aver aggiunto, spaccone: “Poi ti racconto tutto!”. Peccato che anche Kana avesse sentito tutto… prima del suono del telefono riagganciato, udii chiaramente il clangore di una padella che lo colpiva sulla testa. Speriamo che non l’abbia ucciso… quella ragazza certe volte è veramente troppo violenta…

Appoggiai nuovamente la cornetta sul telefono, poi mi sporsi in salotto per comunicare i miei programmi per la giornata.

“E così Anko torna a casa…” commentò piattamente Reika, guardandomi di sbieco. Sollevai gli occhi noncurante, fingendo disinteresse. Cazzo, raccontala una volta una cosa ad una ragazza e quella non se la scorda mai, specialmente se si tratta di tua sorella maggiore. Quel maledetto giorno di quattro anni fa, è vero che avevo quasi tredici anni, ma come cazzo mi venne di dire tutto a Reika? Sono davvero un grandissimo coglione…

“Immagino che Hanamichi sia contento…” mi disse Sakura, mentre cercava inutilmente di smacchiare la sua camicia azzurra.

“Come no…” sibilò Reika, socchiudendo gli occhi.

“Contentissimo…” cercai di correggere il tiro di quella boccaccia larga di mia sorella, considerando che le altre due e i miei invece non sanno niente.

“Quindi, l’andrai a prendere all’aeroporto?” mi chiese mia madre e mi limitai ad annuire, prima di dire che dovevo uscire tra qualche minuto e quindi mi dovevo vestire. Stavo per salire di sopra, quando Reika mi fermò per un braccio e mi trascinò in bagno. Ma che cazzo di fine hanno fatto le ragazze di una volta tutte zucchero e miele?! O meglio… sono mai esistite?!

“Che c’è?!” chiesi a mia sorella, che mi guardava con gli occhi fiammeggianti e le braccia conserte.

“Non dirmi che vuoi andare veramente a prendere… quella lì… all’aeroporto?!”.

Sospirai, ecco che cosa si guadagnava ad essere aperti e sinceri con le proprie sorelle…

Annuii di nuovo, già ne avevo una voglia pazzesca, a ribadirlo ulteriormente mi venivano i nervi.

“Ma come cavolo fai, eh?! Non ti ricordi che ha fatto ad Hanamichi?! E adesso se ne torna bella bella come se niente fosse?!” inveì Reika contro di me, scuotendomi per il braccio “Che c’è, ha finito i soldi?!”.

“Non lo faccio per lei…” fui costretto a mormorare “Figurati che cazzo me ne sbatte di lei… uno, alla fine, le cose le impara, Rei… tardi, ma le impara… no, non è per lei… è per Hanamichi… non credo che Kaname sappia niente… insomma, non voglio che…”.

“… stia da solo…” completò lei per me, venendomi incontro.

Annuii con il capo, mentre lei sorrideva leggermente.

“Fai bene…” mi rispose conciliante “Anche se secondo me, nemmeno lui dovrebbe andare a prenderla, come se niente fosse…”.

“Lo penso anch’io…” le dissi sinceramente “Ma conosci Hanamichi… se decide una cosa, nella maggior parte delle volte la motivazione se la tiene per sé… non so nemmeno perché Anko abbia deciso di tornare… non me l’ha detto…”.

“Quindi non sai nemmeno perché ritorna?!” mi chiese sconcertata Reika.

Negai con il capo, era veramente una situazione strana a guardarla in quella maniera. Non che a viverla fosse una cosa diversa, mi sentivo strano anche in quello. Non avevo la minima idea di che cosa stessi facendo. E soprattutto del perché lo stessi facendo.

“Va bene…” approvò alla fine lei “Ma mi raccomando Yohei… non farti illusioni… le persone restano sempre le stesse, sempre dannatamente le stesse. E nonostante tu ci speri che cambino, quelle rimangono sempre uguali. Non credere o sperare per un solo secondo che lei sia cambiata…”.

Le risposi male.

Dissi che non ci credevo, né tantomeno ci speravo affatto.

In realtà, era proprio nel contrario che speravo, che lei non fosse cambiata.

Ritrovando la persona che mi aveva fatto così male quattro anni prima, me ne sarebbe fregato di tutto. E l’avrei gettata fuori a calci dalla mia vita.

Ne avessi trovata un’altra, nuova, o fosse anche quell’Anko che io avevo sempre conosciuto… bè, le cose sarebbero andate decisamente a puttane.

Perché sarebbero state sempre le stesse. Sempre dannatamente le stesse.

E così anch’io dimostrerei di essere sempre lo stesso.

 

 

Ero rimasto dieci minuti buoni davanti al cancello di casa di Hanamichi, incapace di fare un maledetto passo e nemmeno di suonare il campanello. Ma in quella strana giornata, non sembrava una novità fermarmi immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Ero rimasto tre ore davanti allo specchio, apparentemente incerto tra una camicia bianca ed una maglia rossa. In realtà, me ne fregavo assolutamente, ma era sempre una scusa per perdere un po’ di tempo. Tempo perso anche per decidere se andare a piedi o in bici. Tempo perso anche per decidere se farsi un’aranciata o meno. Tempo perso anche per decidere se passare a prendere prima Haruko o meno. Ed ancora tempo perso per decidere se suonare il campanello o… suonare il campanello tra un altro po’. Appoggiai la testa al muretto che circondava la casa, chiudendo gli occhi, cercando di calmarmi, dicendomi che non mi sarei mai dovuto comportare in quella maniera penosa. Va bene, era pur sempre Anko, era sempre di lei che stavo parlando, ma cazzo! non era da me farmi prendere dalle menate in quel modo. Adesso ero cambiato, no? Adesso stavo bene, no? Adesso stavo con Haruko, no? Quindi, Anko ormai non c’entrava più niente con me. Basta, mi dovevo preoccupare solamente per Hanamichi. E pure questo, solo se era assolutamente necessario…

Allegre come sempre, le voci di Hanamichi e Kaname raggiunsero le mie orecchie, appena in tempo. Mi staccai dal muro, raggiungendo la porta del cancello, come se lo stessi aprendo proprio in quell’istante.

“Venti minuti di ritardo, complimenti!” mi minacciò Hanamichi, ancora alla fine del vialetto. Calciò con un piede una vecchia corda attorcigliata su sé stessa. Da quando è morto il padre, lascia sempre tutto in mezzo, anche quella… la corda che usavamo con Anko per arrampicarci sull’acacia… se buttasse qualcosa, non farebbe male. Ma se glielo suggerisco, quello sicuramente lo fa fare a me.

“E’ meglio che ti stai zitto… ti ricordo che già al telefono avevo promesso di prenderti a calci…” risposi noncurante.

“Perché, che ho fatto?!” fece lui scioccato. Oddio, perde anche la memoria a breve termine…

“Lasciamo perdere…” risposi, agitando la mano “Per questa volta, te la faccio passare…”. Strano, quel giorno non avevo nemmeno voglia di una sana scazzottata con lui, quelle che di solito mi riappacificano con il mondo, ed Hanamichi sembrò accorgersene, dato che non insisté oltre.

Credo che, mai come in quel momento, ci fosse un sottobosco di pensieri e di parole non dette, molto più importanti e sincere delle mille che ci potevamo scambiare, attribuendoli di volta in volta un significato ed una motivazione diversa.

“Dobbiamo andare a prendere Haruko?” mi chiese Kana, stringendo il braccio di Hanamichi. Sembrava più serena e tranquilla del solito quella mattina, lei sola tra tutti e tre. Mi azzardai anche a pensare che era persino più carina del solito; i casi erano due: o Hanamichi li aveva raccontato tutto della sua famiglia e di Anko, ma in quel caso dubito che avrebbe avuto una faccia contenta, anche se investita della somma fiducia del suo ragazzo. Oppure… sorrisi tra me e me… è rimasta con lui stanotte, Hanamichi voleva raccontarmi qualcosa e lei non voleva… quindi ci sono arrivati anche loro…

Automaticamente, mi venne a pensare a me e ad Haruko. Stavamo assieme dallo stesso momento in cui stavano assieme anche Hanamichi e Kana. Eppure, tra me e lei non era ancora successo niente del genere. Non so come, ma la vedevo sempre troppo piccola per… insomma, certo che lo volessi, il pensiero mi lasciava sveglio di notte. Ma Haruko non era solamente quello, cazzo lei… era Haruko. La mia prima vera ragazza. È una cosa demente, ma non volevo che lei un giorno se ne pentisse. Lo doveva volere con tutta sé stessa. Doveva vedere la sua prima volta necessariamente con me, non come un’eventualità che poteva nel caso accadere, dato il nostro stare assieme al momento.

Per me, era diverso. Sommamente diverso.

Non avevo una favola a cui credere, ma solo una bella storia dorata da regalare. A lei, ad Haruko.

Volevo che la sua prima volta fosse perfetta. Cazzo, era inquietante pensare che lo volessi così tanto più per lei che per me, ma era così. E non ci potevo fare niente. Non volevo una fiaba, non ce l’avevo, né tantomeno la desideravo. La mia favola sarebbe stata la sua. Il ricordo magari di un giorno lontano, in cui lei era stata felice, lei il mio primo amore. E basta. Sarà poco, ma era esattamente questo. Volere di più era inutile, superfluo. Già vedere lei in quel momento volere solamente me, sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Ci impazzivo nell’attesa, ma avere prima quello che non era ancora per me, era come… che ne so… rubare… sì, rubare, solo per non avere avuto la forza di aspettare un po’ di più ed avere così quella cosa tutta per sé. So che cosa significa rubare qualcosa che non è proprio. Strappare da dentro qualcosa che nessun altro potrà mai restituirti. Esattamente come dicevo qualche giorno prima per Ayako… aver dato ogni giorno un pezzo della propria anima a qualcuno, che non te la ridà più indietro. Alla fine, la perdi del tutto, no? E quando trovi qualcuno che può darti qualcosa non di tuo, ma di proprio, al posto di qualcosa che hai perso per sempre… vai a cercare la fregatura nel pacchetto. Quel qualcuno ti dona gratuitamente un qualcosa di così bello e luccicante, che quello che hai perso un giorno lontano, sembra una cagata.

Prima che Haruko mi donasse il suo di cuore, credevo che il mio non sarebbe mai stato tornato a posto.

O meglio, credo che ormai avessi perso il ricordo di che cosa fosse un cuore, non che mai davvero l’avessi chiamato così.

La sua assenza l’avevo nascosta dietro la mancanza di quello stesso nome.

La mancanza che Anko aveva portato… portandosi via, rubandosi… il mio cuore.

 

 

Haruko se ne stava seduta sotto il portico di casa sua, un gomito poggiato sul ginocchio e la mano aperta sotto il mento. Sorrisi nel vederla da lontano, all’imbocco della strada di casa sua, praticamente davanti a me. Vestiva di verde quel giorno, un vestitino di lino che le lasciava scoperte le gambe già abbronzate. Ne seguii la linea sinuosa per qualche secondo, concentrandomi poi sul suo viso, reso luminoso dalla luce del sole e scoperto dai capelli legati sulla nuca. I suoi occhi seguivano pensieri tutti suoi, chissà a che diamine pensava in quel momento, in cui la sua mente era solamente sua e di nessun altro, nemmeno mia. Cercai di distinguere qualcosa dei suoi pensieri dai suoi occhi lontani, ma dovevo essere un indovino per capirlo. Poteva star pensando davvero di tutto in quel momento. Geloso quasi dei suoi pensieri, la raggiunsi velocemente, sorpassando Kana ed Hanamichi che tubavano tra loro dalla mattina. Non appena mi vide, sorrise e si affrettò ad infilare velocemente qualcosa in tasca. La guardai sospettoso, socchiudendo gli occhi, ma lei mi ricambiò lo sguardo, sorridendo ancora. Lei non potrà mai avere pensieri da nascondere come i miei. Scossi la testa, decidendo di lasciar perdere. La salutai, porgendole la mia mano, la strinse mentre salutava Hanamichi e Kana.

Ci incamminammo lentamente, chiacchierando, verso la stazione della metro, arrivandoci quasi quindici minuti dopo. Ogni tanto, camminando, sentivo lo sguardo di Haruko addosso, ma quando mi voltavo per guardarla, lei faceva finta di niente. Non riuscivo assolutamente a capire che cosa avesse, ma evitai a me stesso di preoccuparmi anche di quello. Ad ogni passo, inesorabilmente si avvicinava il momento in cui avrei rivisto Anko. E, ad ogni passo, desideravo sempre di più che quella distanza si allungasse sempre di più nel tempo e nello spazio, fino a diventare infinita ed eterna. Invece, al contrario, quella si faceva sempre più vicina.

Eravamo già seduti nel treno, quando Haruko mi rivolse la parola. Ero rimasto in silenzio da quando l’avevo salutata, e i cinguettii continui di Kana ed Hanamichi non aiutavano di certo.

“Yohei…” mi chiamò leggermente.

Mugugnai qualcosa, sperando che lo interpretasse come il segnale che la stavo ascoltando.

“Quando vanno in vacanza i tuoi?” mi chiese, la mano che stringeva la mia che si era fatta improvvisamente fredda.

La guardai senza capire, sbattendo gli occhi, aveva il viso rosso e gli occhi che scintillavano in maniera strana. Mi occorse qualche secondo per rispondere, era l’ultima cosa a cui stavo pensando. Feci mente locale, poi riuscii a ricordare una data abbastanza precisa.

“Quindi, non ci sono per la fine del mese?” mi chiese ancora lei.

“No, penso proprio di no…”.

“E le tue sorelle?”.

“Le mie sorelle?” chiesi ancora senza capire. Non riuscivo a capire che razza di senso avesse quel discorso, e poi proprio in quel momento. Era ovvio che Haruko non potesse sapere che cosa mi passava per la testa, ma, cazzo, si capiva che non era certamente una cosa a cui stavo pensando. Possibile che lei invece questo non lo capisse? Quando si tratta di lei, mi basta guardare il suo viso ed immediatamente riesco a rendermi conto che è una giornata no. Lei, invece, possibile che non lo capisse per me? Scossi il capo, quanto prima finiva quella giornata, meglio era… stavo arrivando anche a mettere in dubbio Haruko. Magari se ne era accorta e stava cercando di farmi distrarre… sì, doveva essere così… e poi non è mica un’indovina, come cazzo fa a sapere di me e di Anko?

“Reika se ne va la settimana prossima… ha un seminario di ceramica o qualche stronzata del genere… le gemelle invece non so dove diamine vanno… ma per la fine del mese sicuramente non ci sono…” risposi esauriente, cercando di soddisfare interamente la sua curiosità.

Lei sorrise, stringendo più forte la mia mano ed appoggiando la testa sulla mia spalla. Accolsi il dolce peso di lei su di me, lo sguardo fisso sul panorama di cemento ed asfalto che passava fuori dal finestrino. Quanto prima quella storia sarebbe finita, meglio sarebbe stato. Decisamente. Per tutti.

Arrivammo all’aeroporto quasi un’ora prima dell’atterraggio, che comunque si prevedeva in ritardo di una mezz’oretta. Ci dirigemmo immediatamente ad un piccolo bar, dato che sia io che Hanamichi non eravamo riusciti a fare colazione quella mattina. Ci sedemmo attorno ad un tavolino circolare, Kana ed Haruko ordinarono due cappuccini, mentre come era prevedibile, io ed Hanamichi due panini megaimbottiti. Quella mattina, non avevo avuto molta fame, ma paradossalmente adesso il nervosismo si era trasformato in una fame insaziabile. E la stessa cosa doveva essere per Hanamichi, chiaramente. Mangiava troppo quel giorno, persino per uno come lui. Dopo il panino, infatti, entrambi ordinammo due porzioni di patatine fritte a testa, un altro panino ed un’insalata, dopo che Kana aveva iniziato a rompere, perché Hanamichi non stava rispettando la tabella di marcia alimentare pre-campionato, che lei gli aveva scrupolosamente preparato. Hanamichi sollevava gli occhi al cielo, dicendo che non gli interessava, che aveva fame e che lei lo teneva a stecchetto da tre settimane, ma gli sguardi in tralice verso di me mi lasciavano tranquillamente presagire che il motivo era un altro.

Il mio stesso motivo.

Haruko si agitava divertita sulla sedia, ascoltando i continui bisticci tra Hanamichi e Kana, poi quando si accorse che stavano iniziando ad alzare la voce, pensò bene di cambiare discorso. Scegliendone uno che era anche peggiore.

“Hanamichi, come mai tua sorella ha deciso di tornare a casa?” chiese ingenuamente, sporgendosi oltre il tavolo.

Mi sentii il cranio gelare, mentre per qualche minuto non avevo pensato ad Anko. Guardai Hanamichi con la coda dell’occhio, deglutendo con forza il boccone che stavo ingoiando. Hanamichi ricambiò la mia occhiata, facendomi capire che dovevo ascoltare anch’io il suo discorso. Non capivo perché, ma poi intuii che doveva trattarsi del comportamento che voleva tenere con Anko. In fondo, non avevamo parlato per niente di questo nei giorni precedenti, rimandando l’inevitabile, e dalla mattina non eravamo rimasti mai soli.

Poggiò sul piatto il panino che stava divorando, assumendo un’espressione più seria della precedente. Dubitavo che avrebbe detto il vero motivo dell’arrivo di Anko, non l’aveva detto nemmeno a me, figuriamoci a loro ed in quel momento. Per arrivare a quella risposta, pienamente sincera e veritiera, bisognava tornare indietro nel tempo nel racconto di almeno cinque anni. Ed ero sicuro che Hanamichi non l’avrebbe fatto. Ed, ammesso e non concesso che quel coglione l’avesse fatto, mi sarei alzato ed avrei finto un mal di stomaco cronico. Non l’avrei potuta sentire quella storia per l’ennesima volta; era già dalla mattina che mi si riproponeva nel cervello, proiettata a ciclo continuo come una videocassetta scassata.

“Ha litigato con nostra madre…” iniziò lui pacatamente, una piccola smorfia sul viso che solo io riuscii a distinguere. Cazzo, bel passo in avanti… nostra madre… si doveva essere violentato psicologicamente per dirlo…

“Non so su cosa…” proseguì, la faccia che chiaramente testimoniava il contrario “E poi Anko aveva bisogno di tornare a casa per un po’ per rimettere le cose a posto nella sua testa…”, continuò ancora dopo una breve pausa… breve pausa, quindi una riflessione. Sta preparando una scusa… quindi, la prossima è una cazzata. “I ritmi di vita dell’America sono molto più veloci di qui, ed era un po’esaurita, forse. Andava ad una scuola privata e tutto il resto… poi, da quello che so, è morta anche nostra nonna poco tempo fa e le si era affezionata…”, la voce più chiara e netta. L’ultima doveva essere una cosa successa veramente. Hanamichi si fermò ancora, prendendo tempo e chiedendomi di passargli un tovagliolo. Eccola, l’occhiata. Quindi, era quello che anch’io dovevo sentire attentamente.

“Ha bisogno di cose normali…” la sua voce si soffermò sull’ultima parola, calcandola di un accento forte e deciso. Forza e decisione ovviamente rivolte tutte e due a me. Strinsi le mani a pugno sotto il tavolo.

“Di cose normali?” ripetei nervosamente.

“Di cose normali…” ribadì Hanamichi, non guardandomi in viso, mentre Kana ed Haruko cercavano di capire il sottotesto della nostra conversazione.

La voce di Hanamichi non ammetteva repliche. La rabbia iniziò a montarmi nervosamente addosso, aggravata dal silenzio a cui tutte le mie domande erano sottoposte. Non potevo dire niente. Era pieno diritto di Hanamichi di starsene zitto con loro o di dire quello che voleva, tralasciando il resto. Aveva cercato di essere prudente nel parlare, facendo capire solamente a me che cosa voleva davvero dire. Quando Anko sarebbe tornata, lui avrebbe cercato di comportarsi nella maniera più normale possibile. Abbassai gli occhi, soffermando il mio sguardo sul tavolino di metallo, i pugni chiusi violentemente sotto il tavolo. Come cazzo faceva a chiedermi questo? Come cazzo poteva pensare che le cose potessero andare a posto così, all’improvviso, dopo tutto ciò che lei aveva fatto? Come si poteva? Non c’era niente di normale, non c’era mai stato, e adesso dovevamo fare finta che invece fosse tutto bello e tranquillo? Non poteva chiedermelo, non proprio a me. Poteva chiederlo a Kana, poteva chiederlo anche ad Haruko, ma non a me. Cazzo, non a me. Dopo tutto quello che tutti e due mi hanno fatto passare… ero lì, per lui, solamente per aiutarlo, se mai ce ne fosse stato bisogno, per sostenerlo, e il coglione non riusciva a capirlo. Per la prima volta, mi pentii di quella famosa giornata di tanti anni prima che mi aveva portato lì, il giorno che avevo incontrato Anko. Ed Hanamichi. Quanti anni avevo? Sembra incredibile, ma avevo solamente cinque anni. Questa fottuta storia va avanti da dodici anni, non riesco nemmeno a pensarlo. Sono in mezzo alle loro puttanate da dodici anni, e solamente allora ne sentivo il peso con forza assurda su di me. Ne sentivo il peso nel giorno in cui, per la prima volta, quelle cose mi appesantivano dentro, nel giorno in cui si erano fatte talmente gravose ed insopportabili da non tollerarle più. Hanamichi non poteva chiedermi di fare finta di niente. Non poteva chiedermelo oggi. Non poteva chiedermelo mai più.

Stavano continuando a parlare di qualcosa, ma ormai non sopportavo più niente. Mi alzai in piedi, facendo cadere la sedia alle mie spalle, e le mani nelle tasche, mi allontanai lentamente, sordo anche ai richiami di Haruko. Me ne fregavo anche di lei in quel momento. Manco lei stava capendo un cazzo di quello che mi stava succedendo, pensava anche lei ai cazzi suoi. Ed allora ero pienamente giustificato anche io se, per una maledetta volta, pensavo solamente ai cazzi miei. Uscii dal bar, sbattendo la porta alle mie spalle e spaventando una coppia di turisti irlandesi, che mi guardarono male. Fanculo pure a voi… percorsi qualche passo, prima di intravedere in lontananza il parcheggio dell’aeroporto. Mi diressi verso di esso senza motivo, finché non scorsi in prossimità della rete metallica, che separava la parte civile dell’aeroporto da quella militare, una piccola rientranza tra la rete stessa e un’uscita d’emergenza dell’edificio principale dell’aeroporto. Invitanti, anche perché seminascosti, erano due gradini che portavano alla porta stessa. Mi sedetti scomposto su di essi, frugando con foga nelle tasche dei jeans. Nervoso, estrassi un accendino ed una sigaretta, rimasta lì da tempi lontanissimi in cui me ne facevo decine al giorno.

Avevo smesso per Haruko.

Avevo cominciato per Anko.

L’accesi con rabbia, aspirandone una grossa boccata. La gola pizzicò un po’, inducendomi ad un mezzo colpo di tosse, subito represso, non appena la faringe recuperò il ricordo del letale ma piacevole aroma. La prima l’avevo fumata il giorno in cui Anko se ne era andata. Era un giorno di pioggia, un giorno di novembre. Me lo ricordo come fosse ieri e non è tanto per dire, non è come illudersi che una cosa lontanissima sia successa poco tempo fa. No. È veramente così.    

Credo che una parte della mia vita si sia fermata davvero in quel momento. Latte e menta che si mescolavano letali l’uno all’altra, essenze e sapori di mondi diversi che non dovevano esistere assieme.

Lei, per me, era stata latte e menta.

Era stata quella sensazione di pienezza quando senti che la vita ti ha dato tutto quello che volevi, la sensazione di stagliarti contro l’infinito con la forza di pochi anni di vita e dell’incoscienza di chi non ha vissuto quasi per nulla. Latte e miele caldo nella mia gola a dissetarmi di quello che non avevo mai cercato e che mi era capitato per caso, ma che adesso non avrei mai lasciato alle spalle.

Era l’abitudine di giorni eterni e notti inesistenti, e poi di giorni inesistenti e di notti eterne, quando lei se ne era andata.

Perché lei era anche menta. Anko era stata anche menta. 

Fresca nei miei sensi come tramontana d’agosto, piacevole nella mia bocca che respirava il suo sapore e al contempo pungente come solo un primo amore può essere. Risi come un povero coglione… primo amore, che enorme cazzata.

Era Haruko, il mio primo amore. Mi ero sbagliato nel pensare.

Lei, Anko, poteva essere la menta di un’illusione, fugace come una vita umana e bruciante come un incendio dentro. Ma sempre un’illusione era. Perché, poi, se ne era andata. Anko se ne era andata. Andata, come se fosse morta, e cazzo, sulla terra resta solo polvere.

Polvere alla polvere.

Polvere… e ricordo. Ricordo agli altri fottuti ricordi. Uno sopra all’altro, come un castello di carte in equilibrio contro chi cerca di buttarlo giù.

Me, per primo.

Alla fine, però, mi ero rassegnato a vederlo vacillare, ma a vederlo sempre. Le sue carte menzognere… il colore dei suoi occhi, rossi come il sole che affoga nel mare, quello dei suoi occhi, verdi come gli abissi assassini del mare, il suo profumo, amaro come un’arancia colta troppo presto… insomma, che anche cambiassi la mano con nuove carte… Haruko… cazzo, avevo creato solo un altro fottuto castello.

Il primo era sempre là.  

E mille altre carte su quelle, perché da grandissimo mentecatto ogni giorno ne sapevo ammassare di nuove sulle prime, anche se passavano ore, giorni, mesi ed anni.

Per questo, è come se fosse stato ieri quando è partita. Probabilmente fino a ieri, ho aggiunto un altro dannato pezzo al quadretto.

E ora un altro ancora… l’urticare in gola della nicotina, quando bramavo assetato latte e menta. 

Come quel giorno di novembre sotto la pioggia, gocce di mercurio dal cielo.

Ed anche se ora era giugno, anche se erano passati cinque anni, anche se faceva un caldo boia… pestai la sigaretta sotto il piede, alzandomi dal gradino e tornando indietro, le mani che scavavano coraggio nelle tasche dei pantaloni.

Le cose rimangono sempre uguali. Sempre dannatamente le stesse.

Credo perché sono io sempre dannatamente lo stesso.

 

 

Non feci in tempo a fare qualche passo che incontrai Hanamichi.

Doveva avermi seguito. Per forza, cazzo… Haruko e Kana dovevano essersi preoccupate, e la sua copertura rischiava di andarsene a fanculo.

Lo guardai distrattamente, con la freddezza di un killer che ignora chi non vuole nemmeno prendersi la briga di uccidere, e gli passai oltre.

Tre passi prima della sua voce.

“Che cazzo pensi di fare?” mi chiese, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.

“Dimmelo tu… com’era?” sibilai a denti stretti, il veleno delle mie parole che mi bruciava le labbra “Cose normali… cazzo, ne hai dette di puttanate, ma queste le batte tutte…”.

Mi afferrò per la spalla, voltandomi con violenza e affondando le dita nella carne. Lama di impotenza rabbiosa il suo sguardo.

“Che cazzo avrei dovuto fare, eh, razza di coglione?! Che cosa, eh?? È mia sorella, porca puttana!!” mi urlò contro.

Mi liberai con uno strattone della sua presa, riassettandomi i vestiti, poi lo guardai cinico, prima di dire: “Allora me ne sbatto di come la tratterai… è tua sorella, no? Quindi pensaci tu a darle cose normali…”, feci una pausa, respirando a fatica, mi mancava il fiato, maledizione… mi imposi di continuare, tornando a guardarlo con astio: “Ma non è mia sorella… quindi io farò che cazzo mi pare… non sono il tuo fottuto burattino, Hanamichi… e nemmeno il suo… non lo sono mai stato, né mai lo sarò… per me, quella che scende dall’aereo è solamente Anko… Anko, la stronza che se ne è andata cinque anni fa…”. Mi voltai, riprendendo a camminare.

Hanamichi alle mie spalle, lontano, dissi solo, ad alta voce perché lui mi udisse. “… e che non è mai tornata…”.

 

 

“Si può sapere che fine avevi fatto?”.

La voce di Haruko fu così acuta nella mia mente che mi sembrò essere quella di una sirena crudele e maliarda, che solo apparentemente affascinante, ti trascina all’inferno, se la ascolti un pochino meglio.

Scossi il capo con decisione, faceva caldo adesso e non era certamente la giornata più bella della mia vita. Quindi… normale che mi desse tutto fastidio… mi voltai verso di lei e le sorrisi, mentre lei mi guardava con la testa reclinata da un lato.

I suoi occhi sembravano… sconfinati… e mi persi per qualche istante in essi, la coscienza che qualsiasi oceano sarebbe stato buono per annegare. Qualsiasi oceano che non fossero occhi verdi… e, se poi si trattava di Haruko, allora annegare sarebbe stato ancora più dolce.

Anche se implicava morire…

“Hanamichi è venuto a cercarti… non l’hai incontrato?” soggiunse quasi preoccupata, aggrappandosi infantilmente alla manica della mia camicia.

Annuii con il capo, non aggiungendo nessuna parola, e il suo sguardo si spalancò ancora verso orizzonti neri di comprensione, a cui lei per fortuna sua… forse non mia… non arrivava. Sembrò soppesarmi ancora con lo sguardo, le iridi corone di luce che volevano illuminarmi, ma che stavolta non avevano il benché minimo effetto.

Sì, Haruko… non hai effetto su di me… e questo magari è anche un bene, non lo so.. fino a ieri, me lo auguravo… sarebbe stato non darti la giusta importanza che già, nel cuore, ti davo… oggi, invece, è toglierti questa importanza. Di forza, di getto, con la stessa delicatezza che ci metterebbe un orco a stuprare Biancaneve. Toglierti importanza… e gettarla nel cesso… sì, perché la sto dando ad Anko questa importanza. Di nuovo.

E, per la prima volta, qualcuno, dopo me stesso, lo elevo a più importante di te.

Scossi ancora violentemente il capo… cazzo, dovevo aver preso un’insolazione mica da ridere…

Cercando di scacciare i pensieri, mi guardai distrattamente attorno nella piazzola davanti al bar dell’aeroporto e poi sbirciando all’interno, non vedendo né Hanamichi ovviamente né Kaname ovviamente.

“E Kana? Dov’è andata?” chiese senza reale interesse.

L’espressione di Haruko sembrò tornare al presente. Aveva deciso che, per il momento, non era il caso di indagare su di me e sulla mia misteriosa fuga. Sempre la solita… quello che non capisci, lo lasci alle spalle… incurante, distratta come sei… bella come sei… bella della tua purezza distratta, non torni mai indietro… vai solo avanti… e nemmeno ti sembra difficile… perché non sai fare altro…

E io, invece, passo la mia vita, camminando indietro come un gambero rincoglionito…

“E’ andata al check-in… Anko sarà già atterrata ormai… ed Hanamichi non si trova…”.

E’ già qui…

Come cazzo fa caldo, il sudore mi bagna il collo della camicia e mi annebbia la vista… maledetta camicia a maniche lunghe…

Baluginare rosso nei miei occhi, baluginare incerto e sempre più distinto di lei. Lei che sta rientrando in me, come fuoco che brucia carta straccia.

La mia anima di carta.

Chiudo gli occhi e respiro ancora profondamente… non mi fai un cazzo stavolta Anko… niente, c’è Haruko adesso… cadesse il tuo aereo e morisse la terra tutta, bruciasse la città ed annegasse il mondo… tu non mi fai più un cazzo…

Afferro quasi con prepotenza la mano di Haruko, stringendola aggressivo nella mia, dammi la forza, ingiungendole di andare a raggiungere Kana.

Quando ti danno un solo minuto, prima di morire…l’ultimo desiderio… riprenditelo, figlio di puttana…

Perché l’ultimo desiderio è solamente quello di dirsi di aver deciso quando e come morire… e rendersi onnipotenti, bestemmiando Dio e la vita…

Trascinai Haruko dietro di me, secondina del mio supplizio, e mi incamminai velocemente verso l’interno dell’aeroporto. I miei passi erano lunghi, Haruko non riusciva a starmi indietro, mi chiamò un paio di volte. Ma non sapevo ascoltarla. Non volevo ascoltarla.

Perché nemmeno lei sapeva ascoltare quello che le stavo dicendo davvero.

Portami via da qui… portami via da questa strada che mi riporta da lei… da questo sentiero, dove sono stati già impressi al contrario i miei passi…

Ma lei non sapeva ascoltarmi. Forse non voleva nemmeno ascoltarmi.

Non scorgemmo nessuna testa rossa e nemmeno nessuna testa bionda. L’aereo risultava atterrato con straordinaria puntualità una mezz’ora fa. Non sapevo dove potessero essere e nemmeno mi veniva in mente. Poi immaginai che, considerata la folla presente nell’aeroporto in quella giornata, Kana doveva aver portato Anko nel parcheggio dell’aeroporto. Da lì, avevamo precedentemente deciso, avremmo chiamato un taxi per farci portare in centro. Poi, non sapevo più niente, intendo dove sarebbe stata Anko, ma presumevo ovviamente a casa di Hanamichi.

L’avremmo aiutata con i bagagli, io ed Haruko, poi l’avremmo salutata, pronti a sistemare le ultime cose per la partenza per il ritiro dello Shohoku. E tra le ultime cose, si intendeva anche un libro di preghiere per scongiurare le risse giornaliere tra Rukawa e Sendo. E le crisi di Ayako.

Aiutata… salutata… le sole cose che potevo fingere di fare…

All’entrata del parcheggio, vedemmo Hanamichi che, avendoci visti arrivare da lontano, si era fermato ad aspettarci. Non incrociai il suo sguardo e continuai a cercare di afferrare una sola delle mille parole che solcavano le labbra di Haruko, pronte a disperdersi nell’aria come fiocchi di neve sporca.

Tra queste parole vane, c’era anche un allegro e quasi entusiasta: “Allora Hanamichi, sei contento di vedere tua sorella dopo tanti anni? Chissà quante cose avrete da dirvi!”. Sorrideva Haruko e forse Hanamichi non se la sentì di essere sincero. O forse era la sua recita di normalità, notai con rabbia e disappunto. Rispose: “Non puoi immaginare quanta voglia abbia di vederla… dire che sono contento è dire poco…”.

Troppe parole. Nessuno sguardo a me e a lei. Occhi fissi davanti a sé.

Dire che è una cazzata è dire poco.

Pensò di rincarare la dose, simulando impazienza improvvisa di rivedere la sua cara sorellina, coglione, e prese a correre, cercando Kana ed Anko. Fui contento di procedere più lentamente, il passo adesso cadenzato ed annoiato. Fremeva nella mia la mano di Haruko, forse voleva correre anche lei a vedere il prodigio di una sorella di Hanamichi. Sta tranquilla, che adesso la vedi… sta sempre là… dammi solo un altro minuto… prima, non lo volevo? D’accordo, giusta obiezione, Vostro fottuto Onore. Ora ho cambiato idea. Anche questo è un reato passabile delle pena di morte? Allora, processate mezzo mondo. E l’altra metà sparatela a vista.

Ma i miei passi, prima o poi, mi portarono da lei, di nuovo.

Come era sempre avvenuto.

Non serviva litigare con Anko.

Il giorno dopo, ripercorrevo la strada all’indietro, il terrore di perdere nella gola quel sapore acerbo e vitale di latte e menta. Lei che era bellissima, e non lo sapeva ancora, lei che era potente come una regina negli occhi di me bambino, lei che aveva il potere di rendere tutto possibile… perché avrei fatto tutto il possibile per lei… tutto il possibile per vedere il sole dei suoi capelli sorgere, tutto il possibile per vedere gli abissi dei suoi occhi calmarsi, tutto il possibile per sentire l’arancia del suo profumo espandersi. E quindi anche il mio orgoglio rientrava nella categoria, quando litigavamo.

Non l’ho avuta, mai.

Mai, ho avuto Anko.

Non era farsela. Era averla in un altro senso. Ho Haruko, per esempio. Ho la certezza che faccio parte di lei, tocco i suoi pensieri, sfioro il suo cuore. Con Anko, non era così.

Lei si dava a te, ti prendeva un secondo e poi ti mollava. Ed in lei non lasciavi traccia. Andava avanti, sempre, con l’infinita coscienza e consapevolezza che era la sola cosa che poteva fare.

Haruko va avanti perché non sa fare altro. Non ha la forza di tornare indietro.

Semplicemente perché non potrebbe leggere il suo passato, troppo pieno di cose che non capisce e lascia indietro.

Anko andava avanti, perché non sapeva fare altro. Non aveva la forza di tornare indietro.

Semplicemente perché avrebbe potuto leggere il suo passato, troppo pieno di cose che avrebbe capito e voleva lasciare indietro.

Portava un enigma nel volto, piccola donna dalle forme di bambina, e questo sempre, quando giocava, quando parlava, quando rideva, quando piangeva, quando pregava, quando picchiava, quando comandava, quando dormiva.

Un Sacro Graal, fatto di carne e sangue incandescente. Cercare di afferrare il filo rosso della sua anima era tutto il senso della mia vita.

Piccola, Anko, piccola e grande assieme. Come Dio, immenso calore che sta nelle mani di un bambino.

Fragile come uno specchio dalle mille facce, perché piena di paure. Le nascondeva sotto l’abito svolazzante dei suoi colori accesi, le nascondeva come piaghe orribili sparse sul corpo.

E allora tu come lei, invulnerabile, perché non avrebbe tollerato in te altre paure che facessero ombra alla sua luce.

Argentea Anko, come mille campanelli quando rideva. L’eco delle porte del paradiso. Il miracolo di renderla contenta, e tu artista e messia. Ossessione ripetere il miracolo, nonostante sia un miracolo e non puoi chiederlo sempre. Fantasia di empireo immaginarla ridere nelle notti insonni in cui il sudore si attacca come una seconda pelle.

Piena di sogni e progetti, Anko. Sogni e progetti che erano solamente suoi, mai anche tuoi. Mai anche i tuoi.

Semplicemente non le interessava conoscerti. Se lo faceva, era solamente un caso. Desiderava solamente mille immagini riflesse della sua.

E, mentre il mondo le desiderava fare corona attorno, lei si ritirava in sé stessa sempre di più.

Espansiva, rideva e scherzava, ma era estremamente gelosa di lei stessa. Concedeva solamente qualche briciola della sua anima a me e ad Hanamichi, i servi privilegiati della sua multiforme corte. 

Fino a quando, un giorno, tacque il più grande dei suoi segreti.

Un segreto divenuto improvvisamente spaventoso, da affascinante come era sempre stato.

Il segreto che era un’evidentissima verità, ma che nessuno aveva mai guardato più attentamente.

La madre.

Quel segreto fu la madre di tutte le sue bugie. La madre della sua fuga, alla vigilia della morte del padre.

La madre del suo tradimento. Del tradimento di tutti noi.

Ma se gli altri piansero mezza giornata, pronti ad incoronare un’altra regina, io ed Hanamichi, i preferiti, piangemmo tutta la vita.

Se muore un re, il buffone è il solo a piangere.

Abbiamo riempito il vuoto di lei, alla fine. Con gli amici. Con le risse. Con il fumare. Con il bere. Con il cazzeggiare.

Con Kaname.

Con Haruko.

Ma riempire un vuoto non è sanarlo.

È solamente dimenticarlo, giocando ad essere diversi.

Mentre siamo sempre gli stessi.

Sempre dannatamente gli stessi. Come questi passi che ritornano da lei. Solo un po’ più incerti di quelli di me bambino. Ma che ritornano sempre…

Indietro…

Indietro dalle cose che restano sempre dannatamente le stesse.

 

 

Delitto.

Non averla mai dimenticata.

Castigo.

Ritrovarla donna.

Bella, come non avrei mai pensato sarebbe stata.

Bella, come non avrei immaginato. Vedi l’alba. Puoi immaginare il tramonto, ma mai vederti davanti agli occhi il fulgore corallo di quel momento.

Bella come la speranza. Il verde della speranza che indossa con disinvoltura. La speranza che sia tutto uguale. O tutto diverso, non lo so.

Ritrovarla donna che mi parla di promesse di bambini.

Ritrovarla che ricorda di me.

Ritrovarla che, possessiva, parla di quando promettevo davanti al cielo qualsiasi cosa chiedessero le sue labbra.

Ritrovarla che rivendica il suo trono.

Ritrovarla che, dietro le lenti scure, cela ancora la sua anima. Di carta come la mia. Brucia in questo inferno che ci circonda adesso.

Ritrovarla con l’anima di carta scritta a caratteri neri nel mio cuore. Che sa ancora leggere quei caratteri.

Ritrovarla, la sua anima. Ritrovarla, quella promessa. Non starò con nessuna, fin quando non tornerai tu.

E sentirmi fariseo.

Castigo.

Semplicemente… ritrovarla.

Espiazione.

“Ci sono promesse… e promesse… e, per alcune, è chiaro che non saranno rispettate… non lo sai, Anko?”.

 

 

 

Se chiudo gli occhi, forse sei

Tutti gli errori, quelli miei.

Almeno tu fossi poesia,

saprei cantarti e così sia.

Chiudessi gli occhi, affogherei.

E’ un fiume in piena di vorrei,

se almeno tu lasciassi scia,

saprei seguirti e andare via.

(Negramaro- Almeno una volta)

 

 

 

Premetto che questo capitolo doveva arrivare molto prima… e questo chiaramente penso che lo abbiate capito tutti. Ma questo capitolo doveva essere anche diverso, molto diverso… ci sarebbe dovuta essere anche Haruko, per questo parlavo di tre punti di vista. Ma poi ho preferito fare in questa maniera!!!! Che cosa posso dire in mia discolpa??? Una cosa semplicissima… mi sono innamorata. E quindi per mesi non riuscivo a seguire nessuna delle mie storie, perché ero troppo presa dalla mia vita in costante evoluzione. Ritengo di essere cambiata, di essere diversa, e non so se questo si capisca da quello che scrivo. Non riuscivo a scrivere, e questo per me era grave… ma poi alla fine ce l’ho fatta. Sarà stato egoista, considerando che questo racconto non è solamente mio, ma di tutte le persone che lo leggono e lo commentano, ma preferivo darvi qualcosa che fosse pienamente corrispondente a quello che volevo dirvi. Insomma, non sono una che si accontenta di scrivere quattro cose pur di andare avanti. Non so se seguirete ancora questa storia, considerando l’enorme ritardo, ma, se continuerete a farlo, vi ringrazio enormemente. Sono state le vostre recensioni a spingermi a continuare, non lo dico tanto per dire, probabilmente avrei smesso tanto di quel tempo fa se non avessi avuto voi!!!! Quindi grazie, grazie ancora… non vi nomino tutti, altrimenti probabilmente non ce la farei nemmeno oggi ad aggiornare!!! Ma prometto ringraziamenti più approfonditi nel prossimo capitolo!!!! Cassie !!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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