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Autore: Sarasvathi    08/08/2013    3 recensioni
Cosa faresti se l'amore della tua vita non avesse mai sentito la tua voce? Come ti sentiresti se sapessi che le cose peggiorano di giorno in giorno? E che nulla è recuperabile? Come ti comporteresti se ti accorgessi che per tutti gli anni che sei stato accanto al ragazzo che ami non hai fatto altro che isolarti dal resto del mondo? Le scelte. Le vie da percorrere. L'amore offre tante vie d'uscita. Cheolyong ha fatto la sua scelta.
POV Mir
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Lee Joon, Mir
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti. Innanzi tutto ringrazio __Iris che mi pubblica questa one shot. (De nada caccona <3 )
E' la prima oneshot che pubblico su efp e la prima volta che scrivo una JooMi <3
spero vi piacerà e mi lascierete qualche commento.
È tutto. <3
 
Gli strinsi la mano, come facevo sempre.
Gli accarezzai con il pollice il dorso della mano che stringevo, come sempre.
Camminavamo uno a fianco dell’altro, gli occhi degli altri puntati su di me.
E su lui.
Camminavamo nelle strette vie del paesello, i suoi vestiti sgualciti, consumati dagli sguardi degli altri; i miei vestiti più ricercati, sembravano principeschi messi a confronto con i suoi.
Ci guardavano sempre, non la smettevano mai di guardarci.
Stava per perdere del tutto anche la vista.
Questione di mesi.
Forse settimane.
O giorni.
Chi l’avrebbe mai detto?
Sindrome di Usher.
 
Da piccolo mi chiedevo come mai mi guardasse senza dirmi nulla.
Apriva semplicemente la bocca, ma non riusciva a dire una sola parola.
Lo odiavo.
Lo odiavo così tanto che appena lo vedevo mi veniva voglia di picchiarlo.
Un po’ come facevano tutti gli altri.
Poi un giorno mamma mi aveva spiegato che era nato sordo.
E allora non avevo più voluto picchiarlo.
Allora avevo capito che avrei dovuto stargli vicino, mentre gli altri lo evitavano.
Lo avrei protetto da tutti gli altri.
Gliel’avevo promesso.
Anche se non lo sapeva.
Ma forse l’aveva capito, visto che aveva cominciato a cercare sempre le mie spalle per difendersi.
Poi le cose erano peggiorate.
Una volta, in una di quelle calde sere d’estate, quando ci sdraiavamo sull’erba vicino al grande castagno mentre le cicale cantavano mi aveva stretto la mano spaventato.
Non avevo capito il perché di quel gesto.
Avevo solo dieci anni.
 
All’età di quindici anni lo portarono via per un anno.
Mamma mi disse che lo avevano portato in città, che si erano trasferiti là perché avrebbero potuto curarlo.
Ma non fu così.
Ritornò di nuovo.
Mi era mancato così tanto.
Forse anche io gli ero mancato.
Non potevo capirlo.
Non potevo più capire niente.
Guardavo i suoi occhi che un tempo brillavano quando era felice, si ritraevano quando aveva paura, mi dicevano se sentiva male, se provava piacere.
 
Volevo che mi parlasse.
Volevo che sentisse la mia voce.
Volevo sentire la sua voce parlarmi.
Non successe.
Non succede tutt’ora.
Non succederà.
 
Sindrome di Usher.
Che cazzo è questa sindrome? La odio.
Perché proprio a Changsun? 
Perché proprio lui era dovuto nascere così?
 
Prima di andare via dal paese mi aveva scritto una lettera.
Non la aprii.
Non volevo piangere.
Lui non ha mai saputo scrivere.
Forse dentro c’è un disegno.
Ha sempre disegnato bene.
È ancora chiusa, dentro un cassetto.
Forse è ora di aprirla.
 
Camminiamo fianco a fianco e ancora i loro occhi ci guardano male.
Qualcuno sussurra qualcosa a qualcun altro.
Li odio tutti.
Nessuno mi capisce e nessuno capisce lui.
Forse neanche io.
Forse ho frainteso tutto.
Forse sono l’unico ad amarlo così tanto.
Forse sta con me solo perché non può dirmi che non mi vuole.
Forse sta con me solo perché sono l’unico al mondo che l’abbia difeso e che ancora gli sta vicino.
La sua mamma non c’è mai stata.
Ha sempre vissuto col padre.
Ora suo padre è malato, non gravemente, ma è costretto a stare inchiodato sul letto.
E piange.
A volte quando io e Changsun entriamo in silenzio nella sua casa lo sento che piange.
Piange sempre, ma appena mi vede la smette di piangere e mi urla di lasciare stare suo figlio.
Stupidi paesani dalla mente grande quanto una nocciolina.
Mi fate schifo tutti.
Ma un giorno scapperemo via, Changsun.
Anche se so che non vuoi.
Lo capisco quando avanzi lentamente verso il letto di tuo padre e gli stai accanto.
Non lo abbandonerai mai, lo so.
 
Quella sera.
Solo quando mi informai sulla sindrome di Usher capii tutto.
Si nasce sordi.
E con gli anni si perde la vista.
Si parte con la cecità notturna.
Pensavo fossi impazzito quella notte quando mi stringesti la mano sotto il castagno.
E invece ero io che stavo impazzendo, che mi stavo innamorando di te.
Avevo solo dieci anni Changsun.
Chissà se ti ricordi ancora come mi chiamo.
Un giorno te lo scrissi su un foglio.
Ma ormai non ci vedi più.
E non sai neanche leggere.
Lo conservi ancora il foglio con il mio nome?
Non lo so.
Non posso chiedertelo.
Voglio sapere cosa c’era in quella lettera.
Forse un disegno.
Non sei mai venuto a scuola.
In quella stupida scuola.
Mi ricordo che ti affacciavi alla finestra aperta a volte.
E mi fissavi.
Mi fissavi così a lungo che quasi mi infastidiva avere i tuoi occhi puntati su di me.
Ora venderei la mia anima al diavolo perché tu possa anche solo riuscire a trovare i miei occhi.
 
Siamo arrivati a casa tua.
Tuo padre oggi non piange.
Ma per te è tutto uguale.
Che pianga.
Che rida.
Che alzi la voce.
Che sussurri.
A cosa pensi?
Come fai a pensare senza mai aver sentito dei suoni?
Forse i tuoi pensieri sono come quei film in bianco e nero senza suono.
Changsun.
Io il tuo nome lo pronuncio quando ti chiamo.
Tu non ti giri mai quando pronuncio il tuo nome.
Ma tu lo sai il tuo nome?
Qualcuno te l’ha mai scritto su un foglio di carta?
Non lo so.
Forse no.
E comunque non sapresti che fartene.
Forse anche il mio nome.
Forse anche di quello non hai mai saputo cosa fartene.
 
Camminiamo e tuo padre non è in casa.
Sarà uscito?
Non lo so.
Ma sembra che tu abbia capito che lui non è in stanza.
Come?
Come puoi?
Mi spingi avanti.
Cos’è?
Un tavolo.
Con un cassetto.
Lo apri.
Dentro ci sono due fogli ingialliti.
Piegati.
Sembra che siano vecchi di cent’anni.
Li prendi in mano e li appoggi sul tavolo.
Me li apri davanti agli occhi.
Changsun.
Piango.
Sto piangendo come un bambino.
Come quel bambino che quando te ne eri andato voleva seguirti e starti vicino perché là in città nessuno ti avrebbe voluto tanto bene quanto te ne volevo io.
 
Quella sera mi ero beccato le botte di papà.
Avevo urlato che ti volevo bene quando te n’eri andato.
Un maschio non può voler bene a un altro maschio, mi aveva detto papà mentre la sua cintura nera schioccava sulla mia pelle.
 
Chissà quando ritornerà tuo padre, sarà preoccupato nel non vederti a casa.
Forse dovrei fregarmene.
Dovrei solo godermi questo momento.
Sembra che tu abbia aspettato un’eternità per tutto questo.
Mi baci come se fossi la tua fonte di vita.
Chiudo gli occhi.
Lo faccio sempre.
Voglio essere come te in questi momenti.
Voglio provare a sentire quello che senti tu.
Mi metto i tappi per le orecchie come faccio sempre.
Voglio essere anche io sordo e sentire solo il tocco delle tue mani.
Sentire la mia pelle che sfrega contro la tua.
Mi fai impazzire.
Chissà se anche tu impazzisci così per me.
Entro dentro il tuo corpo.
Lo faccio ancora.
E ancora.
E ancora.
Ancora.
Lo farei per sempre.
Ogni istante della mia esistenza.
Chissà se la prima volta hai provato dolore.
 
Ricordo che quella volta non avevo i tappi per le orecchie.
Mi guardavi e i tuoi occhi avevano ancora un po’ di luce.
La vedevo.
Brillavano ancora debolmente ma brillavano.
È stata la prima e ultima volta.
Emettesti un suono.
Non era un semplice ansimo.
Sembrava un urlo di dolore.
Mamma bussò alla porta di camera mia chiedendomi cosa fosse successo.
Le dissi che ti eri punto con un ago. 
Lei non chiese nient’altro.
Non avevo aghi in stanza.
Non mi ero mai avvicinato a quegli oggetti appuntiti con cui mia mamma rammendava i miei vestiti.
I tuoi non li ha mai rammendati nessuno.
 
Entro dentro il tuo corpo e oggi sembri volermi più del solito.
Ti arpioni alla mia schiena piena di graffi e segni che mi lasci.
Mi mordi ancora la spalla.
È il tuo modo di farmi capire se ti faccio male.
O se ti piace.
Non l’ho mai capito.
E ancora non lo capisco.
Ma continuo.
I tuoi capelli sono sempre così morbidi.
I miei non lo sono.
Non lo sono mai stati.
La mia mano affonda nella tua folta chioma.
Chissà se tuo padre ti taglierà i capelli.
Sembra non averne più la forza.
 
Mi guardi.
O forse cerchi di ricordarti il mio viso.
Dimmi Changsun, lo vedi ancora un po’ il mio viso? O non vedi più per niente?
La gente ci guarda sempre male quando camminiamo.
Forse hanno capito che passiamo troppo tempo insieme.
Ma questi stronzi senza cervello ci vedono come mostri.
O lui o noi, dicevano i bambini che non avevano capito quanto tu fossi meraviglioso nel tuo silenzio, nel tuo osservare il mondo con occhi totalmente differenti, così puri da rendermi una persona migliore.
Ti amo.
Te l’ho detto.
Te lo dico sempre.
Ma tu non lo sai.
 
Quando hai aperto i due pezzi di carta ho pianto.
Come un bambino.
L’avevi ancora quel foglio.
Il mio nome.
E l’altro foglio era il tuo nome.
Forse tuo padre era riuscito a spiegartelo che quello era il tuo nome.
Forse l’hai intuito da solo.
Perché tu sei sempre stato così.
Hai sempre capito le intenzioni degli altri.
Hai sempre capito tutto.
Nonostante non potessi sentire il mondo.
Tu lo osservavi così bene, ma ormai non puoi più farlo.
Mi ripeto sempre che un giorno mi sveglierò e tu mi chiamerai per nome.
E sentirai la mia voce.
E io potrò sentire la tua.
 
Muovi le labbra.
Mi tolgo i tappi dalle orecchie.
Niente.
È il tuo ennesimo tentativo di provare a dire qualcosa.
Piangi.
Ti sforzi così tanto ma non sai come far vibrare le tue corde vocali.
Sai solo urlare.
Solo quando ti fai male o sei spaventato escono suoni dalla tua bocca.
Piangi.
E non lo sopporto più.
Piangi sempre più forte.
E il tuo pianto si fa rumoroso.
Vuoi dirmi qualcosa.
Ma le mie mani te lo impediscono.
Le senti le mie mani?
Spero che tu non ci veda già più.
Che tu non veda il mio viso.
Non vorrei che i tuoi ultimi pensieri su di me fossero di odio.
Io ti amo.
Sul serio.
Tanto.
Ma non ce la faccio più.
Le mie mani premono ancora.
I miei polpastrelli affondano sempre di più nella tua carne.
Oh, se escono suoni dalla tua bocca ora.
Escono che è una meraviglia.
Chissà se tuo padre si starà preoccupando.
Continuo a farti male.
Mi sento un po’ come allora.
Come quando ero un bambino stupido che non ti sopportava.
Ma ora ti amo.
Lo faccio perché ti amo.
E non voglio che tu continui a soffrire.
Perché tu soffri vero?
Ogni giorno.
Soffri e lo so.
Lo sento mentre facciamo l’amore.
Lo sento sempre.
Anche quando mi stringi la mano.
Anche quando mi guardi e i tuoi occhi sono spenti.
Mi stringi i polsi.
Sembra quasi che tu mi voglia fermare.
Ma è troppo tardi.
Stringi forte i polsi e sento le tue unghia uncinarmi la carne.
Continui ad aprire la bocca.
I tuoi occhi sono un fiume di lacrime.
E sono così grandi ora.
Sembra quasi che tu riesca a vedermi in questo istante.
A sentire i miei pensieri.
Non mi guardi più.
Mi mostri il tuo profilo.
Dio se lo amo il tuo profilo.
Sei così bello.
Ma non mi guardi più.
Le tue lacrime si fondono con la lana del mio cuscino vecchio.
Piangi.
Io stringo più forte.
Ti abbandoni.
Le tue unghie sono sporche di sangue.
Ma io non l’ho mollata la presa.
E tu sei lento a morire.
Apri di nuovo la bocca.
Guardi il cielo fuori dalla finestra.
Apri di nuovo la bocca.
 
Siamo vicini al fiume.
Nella parte più a valle.
Tu e io.
Non ci stringiamo la mano.
Ti tengo in braccio.
Indossi dei bei vestiti.
Sono nuovi.
Li ho comprati apposta per te.
I tuoi occhi sono ancora aperti.
Che senso avrebbe chiuderli? Tanto, aperti o chiusi non ci vedresti comunque.
Ti appoggio sull’acqua.
Galleggi.
Ti ricordi quando ti ho insegnato a nuotare e a fare il morto?
Ora puoi solo fare il morto.
E lo fai così dannatamente bene.
E l’acqua ti trasporta chissà dove.
Non capisco perché mi senta così male.
Mi stai abbandonando.
Ti stai allontanando ancora.
Ti urlo che sono l’unico che ti abbia mai amato.
E ancora.
E ancora non ricevo alcuna risposta.
 
Mentre i tuoi respiri finivano.
L’hai detto.
Hai detto il nome che ti avevo scritto su quel foglio di carta.
L’hai detto con tutto il cuore.
Con i tuoi ultimi respiri.
 
“Cheolyong”
  
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