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Autore: _eco    08/08/2013    6 recensioni
[Katniss Everdeen/Peeta Mellark]
Non posso sussurrargli in un orecchio cosa è vero e cosa è falso.
[Partecipa alla Challenge Multifandom e Originali con il prompt #131 Incubo]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve, miei cari! (:
Questa Everlak devo averla scritta e riscritta in almeno tre modi diversi. Forse quattro. Io non lo so... è un periodo in cui l'angst mi perseguita. E non è che vengano fuori lavori di chissà quale qualità, devo dire.
L'originalità non è dalla mia parte, perché stavolta ho deciso di affrontare una notte post-mockingjay, in cui è Peeta ad avere degli incubi.
Non lo so... vabbé, leggete e fatemi sapere, per favore (:
Che le recensioni non mangiano mica, eh.
S.

You're not alone.

Gli incubi sono tornati. A dire il vero, non se ne sono mai andati del tutto. Ma c’è stato un periodo – quasi una settimana – in cui ci è stato concessa qualche ora di riposo.
Peeta ne soffre almeno quanto me. La differenza sta nel fatto che, malgrado io tenti di trattenere i gemiti o gli spasmi, riesco sempre a farlo svegliare, allontanandolo anche da quei preziosi attimi di sonno che si guadagna dopo ore di lotte contro se stesso, mentre Peeta, che dorme come suo solito su un fianco, non si lascia sopraffare da bruschi movimenti e urla improvvise.
Scivola giù dal letto e ciabatta verso il suo studio, dove trasforma in carta e carboncino le orride visioni che gli popolano la notte. Ed è allora che mi sveglio, perché Peeta è silenzioso e discreto quanto un elefante potrebbe esserlo in un negozio di cristalli. E perché, modestia a parte, tutti gli anni trascorsi nei boschi a cacciare mi hanno donato un udito sviluppato oltre il normale.
La mattina, quando entrambi siamo svegli, capita che ci mettiamo a giocare con quel trucchetto che la Jackson ha inventato per lui, tempo fa. Lui mi racconta nei particolari i suoi sogni, con una voce che sembra sempre sul punto di essere assorbita da rumori più forti – il fischio del vento, il cigolio di una sedia, l’acqua che scorre, il cinguettio di un uccello – e io mi prendo il mio tempo per analizzare il tutto. Gli spiego cosa è vero e cosa non lo è.
E lo rimprovero, anche, perché dovrebbe svegliarmi più spesso.
Lui, ogni volta, promette che lo farà, ma, nel momento stesso in cui lo dice, io so già che non manterrà la parola data.
I riscaldamenti, pur essendo accesi e ben funzionanti, alla lunga non sono riusciti a contrastare il gelo che penetra dalla finestra. Dev’essersi aperta nel corso della notte.
È per questo che mi sono svegliata: per il freddo.
Peeta dorme ancora, sempre su un fianco, la guancia affondata nel cuscino, la bocca dischiusa, che emette flebili soffi caldi. Qualche ricciolo biondo ricade scompigliato sulla fronte larga e corrugata. Il viso è accartocciato in una smorfia confusa, e ogni ruga, ogni piega della pelle mi suggerisce che Peeta è continuamente in conflitto con se stesso, con le orride visioni partorite dalla sua mente. Ma – è triste dirlo – questo non mi preoccupa molto, perché è già tanto che stia riposando: un’espressione serena sul suo - nostro - volto sarebbe una pretesa eccessiva, almeno per il momento.
Se mi fossi esibita in uno dei miei incontrollabili e chiassosi spettacoli notturni – grida, movimenti bruschi e roba varia -, di certo sarebbe già vigile, pronto ad offrirmi un rifugio tra le sue braccia, con le palpebre che lottano per non cedere al desiderio di abbassarsi. Non prima che lo faccia io, che mi sia tranquillizzata.
Ma, almeno quando sono sveglia, ho il pieno controllo dei miei arti e della mia voce, perciò ogni mio movimento è silenzioso e studiato, per non guastargli il sonno.
Poggio i piedi per terra e muovo passi muti verso la finestra. Chiudo le imposte.
Sto per tornare a letto, quando i miei occhi si fissano sui polsi di Peeta. Compiono movimenti insoliti, affondano nel materasso con violenza e decisione. Da qualche parte, tra le palpebre e le pupille, si riproduce qualcosa di ancor più atroce dei soliti incubi. La pelle di Peeta, sottile intorno ai minuscoli ossicini dei polsi, squarciata e segnata da ferite più o meno vecchie. Rivoletti di sangue che incrostano il metallo delle manette. E Peeta che vi affonda la carne. Ancora, ancora e ancora.
Per ancorarsi alla realtà, per mantenere il controllo di se stesso.
Dev’esserci qualcosa di insostenibile e soffocante, nella sua testa, per spingerlo a mugugnare nel sonno. Di certo, questi gemiti soffocati non hanno niente a che vedere con le urla stridule con cui squarcio il silenzio delle notti più tranquille, ma Peeta non si lascia mai sfuggire nemmeno un mormorio, nel sonno. Ed è questo a mettermi in allarme.
Schiude appena la bocca, poi la serra in una morsa d’acciaio. Emette un mugolio che non riesco a decifrare.
Mi siedo sul bordo del letto, e mi chiedo se farei meglio a svegliarlo. Con cautela, però, perché chissà cosa gli sta divorando il cervello, chissà come potrebbe reagire ad una scrollata troppo brusca e improvvisa.
Gli accarezzo i capelli, impregnati di sudore, e mi stupisco di come un incubo possa averlo sconvolto tanto, nel giro di pochi secondi.
- Andate via! – biascica, agitando la testa e sferzando l'aria con un braccio, come per cacciare un mostro invisibile. Che, a ben pensarci, invisibile lo è. Almeno ai miei occhi.
Chi? Chi, deve andar via, Peeta?
All’improvviso, inizio a passare in rassegna tutto ciò che di più terribile potrebbe sognare. Aghi inseguitori che gli penetrano nella carne, tutti insieme, mozzandogli il respiro. Scosse elettriche che gli fanno vibrare il corpo, che assorbono la vita dai suoi occhi. Frustate che si abbattono senza pietà contro la sua schiena. Come è successo a Gale. La consapevolezza di non essere stata lì, accanto a lui, mentre lo torturavano, appesantisce i miei sensi di colpa nei suoi confronti.
Non si dimena, non come faccio io. Continua ad affondare i polsi in invisibili manette, emette gemiti sempre più frequenti, mi implora di mandarli via.
Io non smetto di carezzargli i capelli, districare i nodi che li aggrovigliano, scostarli dalla fronte imperlata di sudore. È come se avessi della segatura lungo tutta la gola, come se affogassi nel mio stesso respiro.
E il mio viso prende fuoco. E si inumidisce, ogni tanto. Ma l’acqua non è fresca, non placa il calore, anzi, lo intensifica.
Solo quando qualcosa di salato e tiepido mi bagna le labbra, capisco. Lacrime.
Vederlo in questo stato è opprimente. Vorrei bloccare quel raccapricciante movimento che fa con i polsi, ma so che non posso. So che, in questo momento, è la sua unica via di fuga. L’unico modo che ha di tenersi ancorato alla realtà.
Non so cosa stia sognando, non so cosa lo spinga a tremare così, a sudare freddo. Ad ansimare, adesso. Non posso sussurrargli in un orecchio cosa è vero e cosa è falso.
- Peeta? – lo chiamo.
Lui mugugna, ma so che non si riferisce a me. C’è sofferenza, nella sua voce appena udibile. È in trappola, in una gabbia dalle grate strette, circondata dalla nebbia. Dove la mia voce non è che un soffio impercettibile.
- Loro non ti faranno più del male. – sussurro, chinandomi su di lui e placando un poco gli spasmi che gli scuotono il petto. – Mi hai sentita? – gli dico, e ad un tratto il mio lato egoista prende il sopravvento.
Voglio che mi risponda. Lo pretendo, perché se non lo fa, se non mi dà segno di avermi sentita, io non riuscirò ad alzarmi da questo letto finché non avrà smesso di tremare. Non riuscirò a perdonarmi per tutte quelle volte che l’ho svegliato a causa di un incubo, per tutte le volte in cui mi ha offerto un riparo tra le sue braccia, e io non sono stata in grado di fare altrettanto con lui.
Voglio che mi ascolti. Che alleggerisca le mie colpe. Perché mi sento sempre in difetto con lui, sempre uno, due, dieci passi indietro.
Non voglio che si senta solo o dimenticato o abbandonato. Non più.
- Mai più. Te lo prometto. –
Lo cullo – o forse è solo una mia impressione, perché Peeta è ancora scosso da movimenti involontari, spasmi e gemiti. E io singhiozzo.
E all’improvviso mi sento come in una barca, e stiamo andando a fondo, perché il mare è in burrasca. In balia alle onde, sbalzati da una parte all’altra, sul punto di andare giù e rischiare di non emergere più…
Poi succede.
Qualcosa di inaspettato, imprevisto e piacevole.
No, Peeta non si sveglia, né dà cenno di avermi sentita.
In compenso, smette di martoriarsi i polsi con manette che non esistono. Attorciglia le dita nella mia camicia da notte – che è reale, esiste per davvero.
Mi piace immaginare che abbia deciso di appigliarsi a questo, piuttosto che al dolore di tagli e squarci sulla pelle.
È come se leggessi nel caos che adesso permea la sua testa, è come se vedessi chiaramente la domanda che troneggia nella sua mente.
Non sono solo. Vero o falso?
- Vero. –


  
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