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Autore: Aries K    09/08/2013    1 recensioni
Ogni giorno della sua vita John Watson non faceva altro che attendere quel colpo di scena che avrebbe cambiato in tavola tutte le carte...
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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note: buon pomeriggio a tutti! Per prima cosa, approfitto di questo angolino, per scusarmi con chi sta seguendo la mia long ff di "Merlin"; con alcune ragazze ho parlato e purtroppo ho avuto un problema piuttosto importante che mi ha portato a rallentare nella scrittura e mi ha totalmente assorbita. Spero di tornare a riprendere la storia il prima possibile poiché odio lasciare le cose a metà, sono così speranzosa che l'ho lasciata ancora lì. Dopo aver chiesto scusa, passiamo alla mia primissima Johnlock. Non l'ho scritta, l'ho partorita. Che è diverso. E' la prima volta in assoluto che scrivo di loro e mi sono fatta diecimila problemi ma, alla fine, è venuto fuori tutto questo. Spero solo vi piaccia. T.T L'idea parte dal video del trailer -i baffi di John- che mi ha fatto venire in mente "e se John stesse aspettando Sherlock, senza saperlo? Magari Sherlock si è finto qualcun altro ed ecco che John se lo ritrova davanti" ed è nata, nella mia mente, una sorta di prequel di quel momento. Non so nemmeno se abbia senso ma io ce l'ho messa tutta c.c -i baffi di John- che altro dire? Buona lettura e scusate per la nota chilometrica. -I baffi di John.




Il brusio delle chiacchiere frivole in quel pub lo infastidivano, così come le persone che lo urtavano per sbaglio e si giravano verso di lui per chiedergli ‘scusa’, per poi rimanere attoniti dinanzi quel volto che riconoscevano come Dr John Watson, ex coinquilino e collega di Sherlock Holmes, consulente investigativo privato, remoto emblema dello scandalo Reichenbach.
John lasciava scivolare come lenta e viscida glassa quelle occhiate talvolta incalzanti, talvolta compassionevoli o fin troppo giudiziose sul suo corpo ricurvo sul bancone.
-“Desidera altro?”
La voce melliflua della giovane cameriera oltre il ripiano lo scosse da quei pensieri –proprio un attimo prima che la sensazione di fastidio diventasse ricordo e dolore- e ricambiò fiaccamente il sorriso rispondendo che, no, era apposto così.
John s’infilò la giacca con un colpo secco e fu proprio mentre stava per imboccare la via d’uscita da quel locale –il quale il suo amico avrebbe trovato troppo pieno di persone e troppo appestato di fumo per non farlo cadere in tentazione- che una donna gli sbarrò quasi bruscamente la strada, costringendolo ad indietreggiare.
-“Mi scusi”, fece questa scostando una ciocca ramata che le scendeva a coprirle un occhio ceruleo,-“davvero mi scusi se le sembro inopportuna ma è da tutta la sera che lei ricambia il mio sguardo e non ho potuto fare a meno di fermarla adesso che se ne sta per andare. La prego, venga a bere qualcosa con me.”
Al suono di quel fiume di parole John fece schizzare le sopracciglia in alto, congratulandosi mentalmente con se stesso perché, sì, per tutta la sera si era reso conto che quella bellissima donna lo stesse ricoprendo di attenzioni…le stesse attenzione che lui, un tempo, dedicava alle altre donne. Si sorprese, quindi, che la sua distrazione alle più piccole cose della vita dopo quel fatto stesse via via scemando. Sperò di tornare a vivere di nuovo, in qualche modo, e quella forse era la serata giusta per incominciare a farlo.
-“Okay”, disse, tossicchiando per schiarirsi la voce fin troppo bassa –Sherlock si sarebbe reso immediatamente conto che quell’abbassamento non tipico era dovuto all’eccessivo silenzio in cui era solito rifugiarsi da un po’-,-“mi farebbe molto piacere”, mentì.
-“Ne sono lieta.”
Il viso della donna si aprì in un sorriso gioviale, all’angolo sinistro della bocca dipinta di rosso spuntò una profonda fossetta che, se non fosse stato per il brutale rallentamento della sua vita amorosa, John avrebbe trovato attraente ed eccitante.
-“Mi chiamo Margaret Smith, e lei…lei deve essere il Dr Watson.”
-“In persona”, rispose lui, simulando un altro sorriso, non certo se il prurito avvertito appena sotto il mento fosse irritazione per essere stato riconosciuto, o perché, in fin dei conti, non desiderava più essere una misera rimanenza di ciò che un tempo era un duo infallibile.
Ad ogni modo, John strinse la mano che Margaret le aveva educatamente allungato.
-“Piacere di conoscerla, allora.”
-“Il piacere è tutto mio”, replicò lei, lasciando la mano di lui in quella che, al Dr Watson, parve un’inequivocabile carezza.
I due sfilarono nello slalom dei tavolini del piccolo pub accompagnati da una musica soft che era appena contrastata dal chiacchiericcio e dalle risate dei presenti; fu girando presso un privé piuttosto intimo che John, incoraggiato dal fatto che Margaret gli stesse facendo strada, avanti a lui, si concesse di abbassare lo sguardo e osservarla proprio come ogni uomo avrebbe fatto, e come a lui era tipico fare prima di cadere in quella sorta di infinito torpore da cui non riusciva a ridestarsi: la donna aveva un’altezza media che sembrava sposarsi perfettamente con la sua, dei lunghi e molli capelli ramati che le arrivarono appena a sfiorarle il petto, piccolo ma elegante nel vestito a fascia che aveva deciso di indossare; vestito decisamente fuori luogo in un locale simile. Le gambe nude che si muovevano sinuose e veloci erano toniche, pensò, e se avesse avuto anche solo un briciolo della mente dell’amico avrebbe di certo scoperto del perché e del come.
-“Eccoci.”
Margaret fece scivolare la propria borsa lucida sulla poltrona nera del tavolino che occuparono; John si sedette di fronte a lei, sforzandosi di lasciarsi andare e divertirsi.
Cosa che sembrava stesse riuscendo a fare - dopo un quarto d’ora di chiacchiere interrotte e sguardi languidi che ricambiava pur ignorando con quale sguardo lo stesse facendo- ma la serata prese una piega inaspettata e diversa quando Margaret, con aria greve ed empatica, domandò se sentiva la mancanza di Sherlock.
La mano che stava portando alla bocca per inghiottire un po’ di liquore fresco si arrestò, percependo vagamente i suoi occhi ingrandirsi per lo spiazzamento di quella domanda… domanda che, seppure pronunciata con un tale tatto e compatimento, nascondeva un’insidia dolorosa che a John fece offuscare la vista.
Se mi manca!, sbottò dentro di sé, poggiando il bicchierino sulla superficie rettangolare del tavolino, ogni singolo secondo della mia vita.
-“Sì, lui mi manca”, diede voce ai suoi pensieri, stringendo le labbra, -“una volta mi è capito di leggere una frase che recitava più o meno così ‘certe persone, semplicemente, sono troppo interessanti per morire’. Su Sherlock stava a pennello questa citazione, lo guardavo…e lo credevo quasi immortale. Come se vedere la sua fine non fosse nemmeno un’eventualità nonostante il suo lavoro e, beh, la sua particolare insolenza.”, si ritrovò ad abbozzare il primo e vero sorriso della serata,-“sì, mi manca. Molto.”
Margaret era rimasta a fissarlo intensamente, all’improvviso sembrava a disagio per l’impeto e l’affetto con cui John era riuscito a rispondere alla sua domanda.
-“Glielo si legge in fondo agli occhi, Dr Watson. Si vede che è pervaso da una profonda tristezza.”
Profonda tristezza, si ripeté avvertendo un tuffo al cuore, che terribile eufemismo.
Prima che potesse ribattere con la solita frase di circostanza che aveva da tempo propinato anche a Molly, Mrs Hudson, Lestrade e il resto dei loro conoscenti in comune –sto bene, va meglio. Si sopporta.- la donna dai fulvi capelli si alzò dalla poltrona raggiungendo con passo svelto, e con una nuova luce negli occhi, la porta scorrevole della piccola saletta.
-“Dove sta andando?”
In risposta a quella domanda John vide la porta aprirsi e un cameriere, che doveva avere non più di trentacinque anni, fare il suo ingresso con un vassoio argentato in mano. Quest’ultimo richiuse con la mano libera la porta.
-“Ora, Dr Watson, mi lasci dire che dopo tutto questo, se avremo modo di rivederci ancora, mi ringrazierà.” La voce di Margaret era cambiata, John non saprebbe dire cosa notò di diverso, ma quelle nuove sfumature lo fecero allarmare. Tanto che si alzò…proprio nel momento in cui Margaret sollevò il coperchio d’argento che rivelò stesse nascondendo una siringa.
John imprecò.
-“Okay, okay!”, fece alzando le mani, -“che cosa sta succedendo? Chi è lei? Chi siete voi?”
-“Domanda sbagliata”, la risposta fu laconica e il Dr Watson iniziò a sudare freddo,-“dovrebbe chiederci cosa stiamo per fare, non chi siamo. Quello del tutto irrilevante perché non ci sarà un’altra occasione in cui vedrà le nostre facce, John.”
Le mani pallide e affusolate di Margaret sollevarono la siringa che, pressata, schizzò un’invisibile goccia di un liquido non identificabile.
-“Cosa volete da me?”, tentò di nuovo, muovendosi lentamente verso l’uscita, non accorgendosi dello sguardo divertito dell’uomo di fronte a lui.
-“Io non lo farei, Dr Watson.” Questa volta fu proprio il cameriere –se di cameriere si poteva ancora parlare- che si rivolse a John, intento ad allungare la mano per aprire la porta, mentre una pistola lucida, nera e minacciosa lo puntava all’altezza della testa.
-“Oh, mio Dio…”, soffiò, lasciandosi appoggiare alla parete fredda quasi quanto lui, -“ripeto la domanda: cosa volete da me?”
-“Ancora una volta mi sta porgendo la domanda sbagliata, ma questo lei non può saperlo.”
Margaret mosse i primi passi verso di lui, sollevando la siringa.
-“Perché non siamo noi che vogliamo qualcosa da lei, John Watson; noi siamo solo l’unico mezzo per la persona che lo sta attendendo.”
John deglutì, stringendo i pugni lungo i fianchi e riconoscendo l’adrenalina scorrergli impazzita nelle vene. Oh, le era mancata quella sensazione e quasi, pensò, tutto quel pericolo non era poi così male.
-“Quindi la domanda giusta, mi corregga se sbaglio, è: chi mi sta attendendo?”
Margaret sorrise mostrando i denti, avvicinando con distrazione l’ago sulla gola pulsante di John.
-“Lei impara molto in fretta, Dottore.”
-“Risponda alla mia domanda.”
La puntura è solo un’esplosione dei sensi, un caleidoscopio di colori tratti dalla realtà che stava via via abbandonando; John fu solo vagamente cosciente di essere retto dalle braccia forti e possenti del finto cameriere, di allungare le mani al fine di afferrare l’immagine frammentaria di Margaret che riponeva la siringa nella sua borsetta e delle sue labbra rosse come il sangue, quando, a rallentatore, dissero:
-“Sherlock.”


La prima volta che John riperse conoscenza era ancora troppo intontito per ripercorrere con la mente gli ultimi istanti che lo avevano visto lucido. Si accorse di essere sdraiato in un auto e che la sua testa sbatteva ripetutamente contro l’imbottitura del sedile posteriore.
-“S-Sherlock?”
Ripeté il suo nome tre volte –con una fiacchezza che si era concesso solo una volta, quando aveva implorato a Sherlock un solo ultimo miracolo- poi tornò nell’oblio.


La seconda volta che John riprese conoscenza fu cinque secondi prima che qualcuno aprisse lo sportello. Sentì l’aria della notte riversarsi sul suo corpo, l’umidità invadergli le narici e il volto di Sherlock dietro le palpebre abbassate.
-“Sherlock?”, domandò, questa volta con più forza…. ma non ricevette nessuna risposta prima di ricadere nell’incoscienza.


La terza volta che John riprese conoscenza fu anche l’ultima. Più o meno. Egli era stato depositato su di un letto morbido, con il materasso che abbracciava le sue forme, modellandoglisi addosso. C’era qualcosa di assurdamente famigliare in tutto quel buio, a partire dal letto capiente alla finestra che lasciava filtrare attraverso il vetro la luce gialla di un lampione. Con un’occhiata più attenta, John capì di trovarsi nella sua vecchia stanza.
A Baker Street 221.
Si tirò su di slanciò invocando il nome di Sherlock con lo stesso tono di voce che preannuncerebbe un cataclisma.
-“Oh, la mia testa…”, mormorò chinandosi a riccio, ponendo agli angoli delle tempie i polpastrelli.
E all’improvviso!
Una musica armoniosa e sommessa fluì su di lui, promettente come la bellezza di un fiore al primo sboccio. John si voltò verso la porta chiusa e il suo cuore, prima ancora che la sua mente intorpidita, riconobbe l’artefice di quel suono malinconico.
Non è possibile. Non è proprio possibile, lui è…
La musica subì una battuta d’arresto, così, dopo essersi fatta grave e più svelta, cessò del tutto lasciando nell’aria solo un suono vibrante, che sembrava un respiro mozzato.
Il successivo rumore che si poté udire furono una serie di passi che si avvicinavano. Ed è a quel punto che la porta si schiuse, permettendo ad un’ombra di allungarsi sul pavimento lievemente illuminato.
John balzò giù dal letto, ignorando bellamente il violento giramento di testa che rispose a quell’azione del tutto spontanea, e spalancò la porta, trovandosi faccia a faccia con quello che fino a poco prima era stato per lui un ricordo e un desiderio.
Lo shock fu tale che gli distrusse ogni barlume di lucidità.
Sherlock era lì, sulla soglia della porta, emergeva dall’altro mondo con il suo metro e novanta d’altezza e con indosso la vestaglia con cui John l’aveva visto innumerevoli volte. Il volto, etereo e addolorato, era lo stesso che cercava con tutte le sue forze di non perdere…ma proprio come la punta della pagina di un libro che si piega e ripiega quei ricordi iniziavano a stracciarsi, sbiadirsi, destinati a non concorrere con la sua volontà di ricordarlo.
I capelli erano appena poco più lunghi, sempre ricci, sempre così dannatamente tipici di Sherlock.
-“Tu… tu”, John gli puntò un dito contro, annaspava in cerca di accuse e aria,-“tu sei vivo.”
Le labbra schiuse di Sherlock tremarono per un attimo, come quelle d’un bambino sgridato per una marachella.
-“Tu. Sei…okay. Okay, devi parlare, Sherlock.”
-“John.”, iniziò, abbozzando un passo nella stanza.
Ma John arretrò di un passo, osservandolo ancora per un po’, soggetto alle sensazioni più disparate: rabbia, sollievo, collera, felicità, tristezza… ritrovarsi di fronte al fantasma di tutti i suoi giorni, e al miracolo che attendeva ogniqualvolta che apriva gli occhi ad un nuovo giorno.
Sentì il proprio viso umido al passaggio di alcune lacrime incontrollabili, i pugni stretti lungo i fianchi che cercavano di placare inutilmente le scosse quasi convulse a cui il suo corpo era soggetto. -“Era tutta una sceneggiata?!”
-“Non posso parlartene adesso, non abbiamo poi così tanto tempo.”
-“Tempo!”, esclamò John alzando le braccia al cielo, -“per fare cosa? Cielo, sei così vivo!”
Sherlock si lasciò andare ad un sorriso sghembo ed entrò definitivamente nella stanza, permettendo alla punta delle sue scarpe di sfiorare quelle di John.
-“Per salutarci per un’ultima volta, ancora. Ho dovuto servirmi di altre due persone per tutto questo, quindi cerca di non fare troppo il difficile, John, e di collaborare con i tuoi sentimenti. So che adesso vuoi picchiarmi –i tuoi pugni stretti lungo i fianchi indicano che vuoi rompermi l’osso del naso allo stesso tempo sei anche pervaso da una felicità a te inspiegabile perché, che tu lo sappia o meno, i tuoi occhi non smettono di lacrimare- ma cerca di riconciliare tutte queste emozioni violente perché mi servi lucido.”
-“Lucido!”, ripeté l’altro, come inebetito.
-“Non è il momento di farti partecipe di cosa si sta muovendo alle mie spalle, John, sono solo tornato perché non voglio assistere alla tua lenta distruzione mentre io non ci sono; ho ritenuto fondamentale che tu conoscessi prima del tempo la verità: io sono vivo, ho inscenato tutto.”
John si sedette sul letto, senza staccare gli occhi dalla figura di ombre di Sherlock.
Non sapeva cosa dire; solo, gli sembrava che le parole si fossero rintanate per paura di sfigurare in un momento di simile importanza.
Sherlock era lì, sano e salvo, nella casa che aveva abbandonato, e gli stava implorando di non fare domande e che era tornato solo per lui.
Egli si accomodò a pochi centimetri di distanza.
-“Perché non mi guardi, John?”
Istintivamente si voltò a mirarlo e di nuovo si sorprese delle linee immutate del suo volto, che non erano state alterate da chissà quale sofferenza o da quei pochi mesi d’assenza.
-“Ti sto guardando, Sherlock.”
Lui annuì, impacciato come se quella conversazione, in realtà, gli fosse di gran impiccio. -“Credevo di aver perso il mio migliore amico”, e molto di più di questo ma ammetterlo a cosa sarebbe servito?, -“e ho vissuto per tutto questo tempo cercando di non soffermarmi sugli angoli di mondo in cui non c’eri. Non c’eri la mattina a colazione intento a leggere il giornale, non c’eri ad aggredire la parete del salone con quei fottuti proiettili solo perché ti stavi annoiando e non c’eri, non c’eri. Mancavi ovunque guardassi e ora…”
John perse definitivamente le parole, lasciando quelle non dette aleggiare tra loro come insidie invisibili. Camminavano sull’orlo di un baratro a cui sarebbe bastato poco per cadere.
-“E ora sono tornato per te. Solo per te e per nessun altro.”, completò la frase dopo una manciata di minuti, Sherlock.
John fece per ribattere ma le mani affusolate del moro andarono ad afferrargli la testa, costringendo la fronte del Dr Watson a toccare la sua, calda e marmorea.
-“Sto sperimentando un sentimento strano e ho paura, John. John, non potevo sapere che separarmi da un altro essere umano potesse causarmi tanta sofferenza e tanto senso di colpa. Cos’è un senso di colpa, John, l’hai mai provato?”
-“Sì”, il respiro di John si fece accelerato e anche le sue mani andarono a tastare i ricci di Sherlock,-“quando non sono riuscito a salvarti.”
-“Hai fatto molto più di questo.”
I loro sguardi erano incatenati ma nessuno dei due potette prevedere ciò che da lì a poco successe: non ci riuscì l’esperienza di John Watson, non ci arrivò nemmeno la logica di Sherlock Holmens.
Le loro labbra entrarono in contatto, dapprincipio un lieve sfiorarsi, solo in secondo tempo il bacio vero e proprio divenne una necessità, un’urgenza da troppo tempo rinnegata.
John socchiuse gli occhi solo dopo aver constatato l’abbandono di Sherlock – vederlo in preda ad emozioni così devastanti, era per lui, una devastazione stessa- e capì che in un certo senso avrebbe riaffrontato tutte le sue pene per giungere a quel momento.
La sorpresa di vedere uno Sherlock così poco sapiente che cercava di muoversi in un campo a lui vergine, lo fece abbozzare un sorriso al limite del sornione; la bocca del riccio, intanto, si spostava, intenta ad invadere il collo del ritrovato collega.
-“Oh, Dio…questa poi!”
-“Taci, John. Le parole talvolta sono superflue.”
-“Disse l’esperto!”
Le labbra di Sherlock si staccarono dalla pelle di John, sfiorando ogni angolo del suo viso accaldato con i propri occhi azzurri e gelidi, gelidi come l’inverno che si stava manifestando fuori da quelle mura.
-“Una volta credevo che i sentimenti fossero un handicap, che intaccassero le funzioni celebrarli di un individuo e che fosse tremendamente svantaggioso per l’uomo, avercene a che fare.”
John sorrise.
-“E ti sei ricreduto?”
-“No, affatto. E’ solo che bisogna capire per chi ne vale la pena.”
Irene, pensò John con un moto d'insofferenza, la Donna. Lei, lei non ne valeva la pena. John, incoraggiato e cullato da quell’incoraggiamento, tornò a torturare lentamente le labbra dell’amato e pian piano –senza nessuna fretta bensì con una dolcezza tale da sorprendere entrambi- si sdraiarono sul letto e dormirono così, l’uno stretto all’altro; l’uno agganciato all’altro, come se temessero che durante la notte qualcuno o qualcosa avrebbe potuto coglierli di sorpresa e farli separare ancora.


L’alba sorse in modo placido, tranquillo, preannunciando una mattina se non soleggiata almeno senza nubi minacciose all’orizzonte. Benché Sherlock si fosse svegliato già da qualche ora, aspettò che le ultime stelle a puntellare il cielo sparissero per annunciare a John la sua partenza.
-“Cosa? Sherlock, ma cos…?”
-“Te l’avevo detto che ero tornato solo per un ultimo saluto.”
-“Tu non puoi- non puoi- andartene e riapparire come se nulla fosse!”, tuonò John, e non ricordò se c’erano stati attimi, prima, durante la loro convivenza, in cui si era tanto infuocato. -“Infatti non posso, ma devo. Tornerò tra tre anni, a partire da oggi. Tra tre anni farò il mio ritorno, chiamalo, ufficiale.”
Il Dr Watson era rimasto di stucco: la naturalezza con cui sembrava che Sherlock avesse programmato tutto lo destabilizzò e non poco. Era ancora attorcigliato nelle coperte, quando l’ultimo guanto veniva infilato nella mano del moro.
-“Saprò tutto tra tre anni, allora?”
-“Esatto.”
-“Okay. E cosa farò per tutto questo tempo?”
-“Vivi.”
-“Vivi.”, John saggiò a lungo la parola, che voleva dir tutto e niente,-“e poi?”
Sherlock si era già avvicinato alla porta, il corpo per metà fuori dalla stanza; si voltò a guardare John per memorizzare quel viso che gli sarebbe mancato più di tutto il resto, e poi voltò la testa e se ne andò.
Non aveva ricevuto nessuna risposta, John, e solo dopo essersi sbloccato dal suo stato d’impasse –era persino troppo stordito dai residui del sedativo che gli avevano iniettato e da ciò che era accaduto per metabolizzare il tutto- che si accorse di un foglio su cui spiccava la grafia dell’amato:

‘Tra tre anni.
Ristorante Hotel Savoy.

Io credo in John Watson.
SH.’

John si lasciò ricadere sul materasso stringendo tra le mani il suo futuro… il giorno in cui avrebbe respirato di nuovo.
E fu in quell’istante, mentre Londra stava per celebrare un nuovo giorno, che comprese quale lungo processo di accettazione avrebbe dovuto intraprendere, dove avrebbe trovato piaceri meno intensi e speranze più concrete.
   
 
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