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Autore: radioactive    09/08/2013    10 recensioni
CAP. 6 Il cigolio del legno si mischiava al battito del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i suoi piedi.
Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo, che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva derubati.
«Ciao, otto»
[...] Stavano per morire, stavano per morire!
CAP. 10 Caesar Flickerman trattava tutti i tributi come validi concorrenti, Lyosha invece, agli occhi del presentatore, era già morto.
| 72esimi Hunger Games ● Lyosha e Ariel Isaacs ● DISTRETTO 8 |
EDIT - testo in via di revisione e betaggio (01 capitoli su 14) + cambio grafica [in data 11/11/2013]
→ I capitoli 15, 16 e 17 sono degli SPINOFF di Die on the front page, just like the stars.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO I

Run fast for your sisters and brothers.

 

 

 

 

 

Immerse le mani nella bacinella d’acqua – tiepida, che nella scala della temperatura dell’acqua a casa loro era come dire bollente – e se le passò tra i capelli corti, scuri come le piume di un corvo. Riportò le dita dentro il catino, stavolta messe a conca, e si gettò l’acqua sul viso sfregandosi gli occhi con i polpastrelli. Alzò lo sguardo verso quello che chiamavano ottimisticamente specchio e si guardò la faccia: era esattamente come tutte le altre mattine. Pallida con due occhi blu e una zazzera nera sulla nuca.

«Thahn…» sentì chiamare una voce. Era sua sorella, che gli aveva dato quel nome speciale che significava sia “cielo azzurro” che “suono” in una qualche vecchia, vecchissima lingua; non sapeva, lui, come lei lo conoscesse. In realtà lui si chiama Lyosha, Lyosha Isaacs. E quello era il giorno della Mietitura per i settantaduesimi Hunger Games.

 

 

«Lyosha… dannazione, ti sto parlando!» borbottò Vilette, la sua stilista. Si era già affezionato a lei ma non ne capiva il motivo, probabilmente perché era l’ultima figura realmente umana che avrebbe visto, considerando che, una volta entrati nell’Arena, sarebbero stati tutti e ventiquattro delle bestie pronte per il macello.

Scosse la testa, scacciando il ricordo della mattina in cui era stato condannato alla morte e la guardò fisso negli occhi, ne aveva uno verde e l’altro ambra e si chiese se fosse nata così o se fosse il risultato di una qualche operazione fatta a Capitol City, in definitiva, però, le donavano parecchio considerando la sua carnagione abbronzata.

«Grazie per la tua attenzione, Lyosha» commentò stizzita, o almeno fingeva di esserlo, «volevo solo augurarti buona fortuna, okay? Guarderò gli Hunger Games solo per te, e voglio confezionarti il vestito per quando sarai Vincitore, un bel completo sui toni del grigio e dell’azzurro per evidenziare i tuoi occhi» gli sorrise, un sorriso che sapeva di addio ma anche di flebile speranza.

Non aveva motivo di farlo, si disse, perché alla fin fine lui era risultato tra i peggiori nella classifica dopo gli allenamenti. Se fosse stato fortunato sarebbe vissuto abbastanza per vedere morire i primi tributi nella carneficina della Cornucopia, ammesso e non concesso che lui non fosse tra quei tributi – anche se era abbastanza convinto che l’opzione migliore fosse quella di seguire il consiglio della sua Mentore: correre. Qualcosa gli diceva che era un suggerimento dato spesso ai tributi dei distretti poveri, e puntualmente solo in pochi lo prendevano in considerazione – chissà se anche lui avrebbe fatto lo stesso.

Tuttavia le sorrise di rimando, agitando la mano in segno di saluto. La guardò mentre gli aggiustava la giacca della tuta e poi entrò dentro il cilindro che lo avrebbe catapultato in un mondo sconosciuto, dove i fiumi erano sangue e l’aria le anime dei morti che vagavano senza meta, semplicemente.

D’altronde, non c’era altro che potesse fare.

 

 

Era un viaggio lento e silenzioso, quella salita verso l’Arena. Sembrava durare un’eternità eppure prima che potesse accorgersene le pareti trasparenti che lo accompagnarono fino alla fine del percorso – cosa strana, si diceva, non succedeva spesso che ci fossero delle mura – erano già calate verso il basso e dell’acqua gli aveva inondato i piedi; Lyosha era dentro un altro mondo, probabilmente antico e sconosciuto.

Attorno ai tributi vi era una fitta vegetazione sui toni del verde scuro, i fasci di luce di un sole artificiale erano ben visibili mentre calavano tra le foglie come i fari di un palcoscenico dove loro erano gli attori, eppure la fonte primaria di quei raggi non era visibile: il cielo era completamente azzurro, neanche una nuvola. In lontananza si vedevano delle cascate tutte attorno delimitando una circonferenza, rumori di svariati insetti coprivano il suono del suo respiro e il battito del suo cuore nelle orecchie.

Il sudore gli colava ovunque sul corpo per il caldo e l’umidità del posto. Guardò in basso: aveva i polpacci immersi nell’acqua e una circonferenza luminosa che attraversava la sporcizia del liquido segnava la sua postazione, come per ricordare che, attraversata quella linea prima del conto alla rovescia, sarebbe tutto finito ancora prima di iniziare.

Pensò che forse era una buona soluzione, saltare fuori dal cerchio e lasciare che le bombe lo mangiassero vivo. Magari qualcuno lo aveva già fatto, suicidarsi prima dello scadere dei sessanta secondi – gli pareva di ricordare di sì. Anzi, era sicuramente successo in settant’uno edizioni dei Giochi.

Il timer era partito prima che lui potesse accorgersene, ormai erano a meno quarant’uno secondi, e lui usò i rimanenti per scrutare gli altri ventitré tributi.

Ricordava Fraser, del Distretto 1, bello e impossibile come tutti quelli del suo luogo – aveva avuto modo di constatare che era un ragazzo abbastanza superbo, come se avesse già in mano la vittoria. Sean, del terzo distretto, aveva sedici anni e si era offerto volontario, Lyosha ne rimase abbastanza sorpreso considerando che sapeva di certo non era un favorito e – soprattutto – non aveva diciotto anni, forse era stupido, o forse avrebbe vinto lui. C’erano i due del Distretto 12, il maschio Gijs di sedici anni e la ragazza Yara, di dodici. Lei aveva la dolcezza negli occhi scuri e quel sorriso che gli ricordava le bambine più povere del Distretto 8 – quello a cui Lyosha apparteneva: sempre sereno anche se pieno di dolore; Gijs, invece, gli incuteva abbastanza terrore considerando gli occhi con cui fissava gli altri, di un orribile color verde-marrone, simile all’acqua delle fognature, sembrava sicuro di poter uccidere tutti quanti con la sola forza del pensiero; era rimasto sorpreso anche di lui: non pensava che i distretti più bassi avessero tributi così… cattivi, Lyosha non era cattivo, per esempio. C’era la ragazza del quarto distretto, Ines di diciassette anni con lunghi capelli ramati, il pubblico la amava molto perché consideravano la sua presenza una sorta di possibilità di vendetta per la sua tragica storia: sua madre rimase gravida di lei a diciotto anni, prima della Mietitura, nella quale fu sorteggiato come tributo il padre della ragazza che non tornò mai a casa.

…E poi Lexi. Lexi era il tributo femmina che accompagnava Fraser, diciottenne. Lyosha dovette essere sincero con sé stesso (cosa che non desiderava affatto, in quel momento): lei era bella, molto bella, e il soprannome che le avevano dato nell’intervista - «la Principessa» - era molto azzeccato, non tanto per la coroncina che faceva parte del suo costume durante la sfilata, quanto per i suoi modi di fare, per il suo modo di parlare, per il suo sorriso e la maniera in cui guardava gli altri, come se si fosse innamorata della persona che fissava in quello stesso istante – per qualsiasi cosa facesse: neanche l’atto di uccidere avrebbe potuto strapparle di dosso quel soprannome.

Venti secondi. Avrebbe volentieri speso gli ultimi venti secondi della sua vita a guardare Lexi, assaporare da lontano la sua bellezza – chiaro che, durante quei pensieri, Lyosha si stava odiando per il solo averli fatti – eppure non poteva, perché con gli occhi stava cercando ancora la ragazzina di tredici anni che vestiva il ruolo del tributo femmina del Distretto 8. Si chiamava Ariel, aveva i capelli come le spighe di grano al sole e gli occhi chiari.

L’aveva vista, era lì, appena nascosta dalla Cornucopia.

Diciassette secondi. Nei suoi occhi c’era la forma più pura del terrore, l’acqua le arrivava a metà coscia e si chiese come avrebbe fatto a correre, e se Cecelia l’avesse rassicurata, se le avesse detto di scappare invece di buttarsi sulla Cornucopia.

Dodici secondi. Ariel sembrava quasi tremare e Lyosha se ne dispiacque, avrebbe voluto attraversare tutta quella palude e stringersela contro. Perché se c’era una cosa che li legava veramente, era l’essere fratelli di sangue.

Otto secondi. Lyosha alzò le braccia e le incrociò sul petto, guardandola fisso negli occhi, «ti proteggo io», significava nella loro speciale lingua di cui necessitavano assolutamente, infatti il ragazzo era muto – o meglio, qualcosa nella sua gola non funzionava, nelle sue corde vocali – era come se non ci fossero. E lui non poteva fare nulla che comportava il loro uso: non poteva parlare, ridere, gridare, addirittura la tosse era priva di suono, non poteva fare rumore mentre piangeva. Niente che c’entrasse con il voto di silenzio o roba del genere. Non poteva e basta.

Tre secondi. Erano tutti pronti: un piede avanti ed uno dietro. Anche lui si posizionò e vide sua sorella fare lo stesso. Tutti i rumori erano cessati, gli insetti rimasero in silenzio per vedere l’inizio dei settantatreesimi Hunger Games.

Un rumore a cui Lyosha non prestò attenzione – forse un gong – indicò l’inizio dei Giochi, mosse un piede davanti all’altro con frenesia, come tutti gli altri ventitré concorrenti. Come sua sorella, come Lexi, come quelli di cui non sapeva nome, età e volto.

Si ricordò l’unico consiglio veramente utile che aveva dato loro la Mentore che si occupava di lui, Lloyd, e decise che quella sarebbe stata la sua nuova filosofia di sopravivenza: «correte per vostra madre, per vostro padre, per i figli che avrete, per fratello e sorella. Correte, dannazione, non posso passare il resto della mia vita pensando che un’altra volta dei dannati ragazzini si sono ammazzati ai Giochi perché non si sono messi a correre».

E poi se n’era andata in terrazza a fumarsi una sigaretta lasciando addirittura Cecelia, l’altra Mentore, senza parole.

 

 

 

 

 

 

 



«Ritorna con il tuo scudo, o su di esso.»

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE «viviamo e respiriamo parole»

 

Nonostante tutto, sono ancora qui.

Avevo già pubblicato il prologo di questa fanfic, ma in preda di un attacco di isteria (o qualcosa del genere), l’ho cancellato per riscriverlo in una luce migliore, forse. Tuttavia la trama è rimasta invariata, o almeno così pare.

Quindi sì, parliamo ancora dei fratelli Lyosha e Ariel, diciassette e tredici anni, lui muto e lei terrorizzata ma anche coraggiosissima.

Ho voluto tenta un approccio diverso, quindi iniziando in medias res, tuttavia non vi priverò di nessun momento degli Hunger Games – i giorni precedenti saranno mostrati attraverso flashbacks o semplici racconti, come degli spin-off.

Devo dire che la parte più complicata dell’organizzazione degli Hunger Games è stata l’Arena, perché non avevo assolutamente idea di come farla! Infatti avrò cambiato molte volte idea e me ne sarò fatte venire in mente altre cento, ma alla fine ho tenuto la prima che mi è balenata nel cervellino: la foresta amazzonica con tutto quello che ne comporta. Non so se avete mai visto Bear Grills nelle suddette foreste, ma sarà una cosa del genere, con boa di piume e tutto il resto.

Ora, per non deludere(?) coloro che amano avere una faccia ben precisa sotto gli occhi per immaginarsi i personaggi citati, di seguito ci sono i volti dei tributi citati più quelli di Lyosha e della sorellina.

Distretto 1: Fraser (M) e Lexi (F). Distretto 3: Sean (M). Distretto 4: Ines (F).

Distretto 8: Lyosha (M) e Ariel (F). Distretto 12: Gijs (M) e Yara (F).

Concludendo: il titolo della fan fiction è una frase tratta da una canzone dei One Night Only, intitolata “Say You Don't Want It”, quello del capitolo è una quasi frase di “Dogs day are Over” di Florence + the Machine. Infine, la canzone che fa un po’ da “soundtrack” a questa fan fiction è “Start a Riot” di Jetta, di cui voglio lasciarvi il link: click!

 

Ringrazio ovviamente la cara e vecchia e buona Iysse che, se non mi avesse sopportato, non avrebbe visto tutto questo su EFP. E almeno lei ci tiene(?).

Un grazie anticipato a tutte quelle care e vecchie e buone(…) persone che avranno voglia di lasciare un piccolo parere per sostenere la causa degli OC che, a mio parere, sono sempre un po’ snobbati – in tutti i fandom. Io lo trovo così stimolante inserire personaggi nuovi in un bel contesto! *probabilmente è l’unica, eww*
→ la citazione finale è di 300.

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

 

EDITs;

03/11 – cambio grafica e revisionato il testo non betato, aggiunta presenza di Cecelia nella scena finale  e cambiato stile di scrittura dei distretti, ora segue quello del libro (non più Distretto uno/due/tre ecc., ma Distretto 1/2/3 ecc.).

13/11 – testo betato.

29/11 – cambio ulteriore della grafica.

 

   
 
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