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Autore: Nausicaa212    17/02/2008    2 recensioni
Piccola fic su una notte d'estate in California, dove due ragazzi totalmente diversi passeranno delle ore quasi indimenticabili...
"Il tempo di una sigaretta, insomma.
Il tempo di rovinarsi ancora una volta i polmoni, la circolazione, le corde vocali, la bocca e la pelle."
Genere: Malinconico, Song-fic, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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KC si accese una sigaretta, sedendosi sotto la pensilina del bus con lo zaino tra le gambe. Alcune signore vicino a lei storsero il naso, schifate, ma la ragazza sembrò non farci caso più di tanto. Dopotutto, c’era abbastanza abituata.

KC aveva diciassette anni, i capelli a caschetto color verde acido, due piercing alle labbra che le spuntavano come i denti di un vampiro, ed altrettante catenelle che li collegavano alle orecchie tutte sforacchiate; un piercing al naso ed uno alla lingua, e delle ali da pipistrello tatuate sulle scapole. Ed in quel momento stava aspettando il bus numero 164, che l’avrebbe portata via di lì al più presto. Stava aspettando la sua via d’uscita.

Right to escape.

Guardò la sua sigaretta come ipnotizzata, con la mano che le tremava leggermente. Quelle fottutissime asticelle di tabacco e carta facevano assai male, dannazione.

Diede un tiro alla sigaretta e ne aspirò profondamente il fumo. Come si suol dire, un respiro in più vicino alla morte, e se ne rendeva conto perfettamente.

E allora perché continuava a fumare?

Non si sa. Non riusciva a smettere e non sapeva perché.

Come non riusciva a smettere con quel suo brutto vizio di spegnersi le sigarette sulle braccia, che ormai sembravano delle facce lunari, con tutti i loro crateri.

KC sospirò e, vedendo il 164 avvicinarsi, si premette il mozzicone sull’avambraccio e lo buttò a terra. Il tondino bruciato iniziò subito a pulsare, ma ormai era un dolore abituale e non ci faceva quasi più caso. Prese lo zaino da terra ed entrò nel bus, cercando posti liberi. Introvabili, ovviamente. Si appollaiò su una delle sbarre orizzontali che servivano come appigli per le mani, guardando fuori.

Sotto i suoi occhi, la tranquilla cittadina di Campbell, nella South Bay della California, scorreva nel suo tran tran tardo-pomeridiano. Muscolosi surfisti biondi con ragazze liofilizzate bionde tinte passeggiavano sul lungomare, uomini d’affari con le loro ventiquattrore chiamavano taxi gialli per andare chissà dove, donne in tailleur camminavano spedite su tacchi altissimi, per andare a riunioni di qualche consiglio d’amministrazione, e donne truccate fino alla volgarità scendevano in spiaggia per abbronzarsi come le canguro giapponesi. Insomma, tutta scena.

Tutti quei surfisti con le loro ragazze carine, quegli uomini d’affari e quelle donne in carriera non erano altro che persone di facciata.

Null’altro, seriamente.

KC sospirò ed alzò gli occhi verso il tettuccio del bus. Sarebbe stata anche lei come loro? Con le ventiquattrore, le borsette dell’ultima collezione di Vuitton, la pancia-piatta-supersexy ed i capelli piastrati biondo tinto? Così finta da non credere nemmeno a lei stessa?

Ne dubitava altamente.

Non aveva mai creduto a quelle persone.

Mai.

Neanche da piccolina, quando veniva presentata a tutte le persone di Campbell come “l’orgoglio della famiglia”.

Lei aveva sempre odiato quelle persone.

Beh, odiato era una parola grossa… diciamo che le disprezzava. L’odio era una cosa troppo grossa per poterla sprecare con persone del genere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il bus si fermò per far salire alcune persone, i cui occhi si fermavano immediatamente sulla ragazza, per poi ritrarsi e guardare da un’altra parte come se avessero visto una lebbrosa. Lei, dal canto suo, si limitava a fissarli apatica. Aveva voglia di un’altra fottutissima sigaretta. Ma era proibito fumare là sopra, perciò nisba.

Si stavano quasi chiudendo le porte, quando arrivò trafelato un tipico skater californiano, moro, che KC riconobbe come uno degli amici del fratello. Doveva avere circa due anni in più di lei, ed era un fighetto assurdo. Si chiamava Jesse, a quanto la punk ricordava.

Il ragazzo diede segni di riconoscerla ed andò vicino a lei, salutandola come si usava fare tra gli skater fighetti; KC non aveva mai sopportato quei “bella bro” borbottati, e lo face notare subito a Jesse, che sorrise e, con un’alzata di spalle, iniziò a parlare.

C’era affinità con lo skater, per quanto fosse un fighetto assurdo sapeva formulare dei pensieri più profondi del “so fare tutti i trick di Tony Hawk”. Si ritrovarono a fare una conversazione decente senza quasi rendersene conto.

 

Jesse, dal canto suo, si stava stupendo per le parole che diceva la sorellina del suo amico. Beh, non propriamente amico; diciamo che passavano molto tempo insieme, e si conoscevano bene. Aveva visto KC solo di sfuggita, quando usciva con i suoi amici; oggettivamente non era molto bella; aveva il viso smunto, era secca come un chiodo e piatta come una tavola, con la pancia un po’ gonfia per l’alcol che ingurgitava. Senza contare i capelli stopposi, i vestiti trasandati e il modo di fare truce e sboccato.

Però nel complesso aveva un nonsochè che attirava le persone. Fosse per gli occhi resi giganteschi dall’eccessiva magrezza del viso, fosse per la sua eccentricità, fosse per la reputazione di tossica che si portava dietro senza averne effettivamente alcuna ‘colpa’, forse perché dava l’impressione di una persona perennemente in fuga, alla quale l’avvicinarsi avrebbe fatto solo male: comunque aveva uno strano effetto sulla gente.

Non sapeva dove stava andando, e quando glie lo chiese lei sbuffò come per una scocciatura, facendogli intendere che non lo poteva considerare suo amico solo per una chiacchierata sul 164. Le chiese lo stesso se poteva andare con lei, ed un’alzata di spalle gli fece capire che andava bene, per quel che le importava.

Scesero dal bus insieme, e appena scesi lei si mise lo zaino in spalla, gli fece un cenno ed iniziò a correre. Era veloce, e lui faticava un po’ a starle dietro. E d’altronde era anche tramontato il sole, perciò doveva affidarsi alla massa di capelli verdi arruffati che si muovevano qualche metro davanti a lui, ed ai rumori dei suoi anfibi chiodati quando sbattevano sull’asfalto reso caldo da quella giornata di metà luglio.

 

KC non sapeva perchè se lo portava dietro, non aveva la benché minima idea del perché stesse correndo invece che camminando tranquillamente con la sua fottutissima sigaretta, magari a beccarsi i rimproveri dell’amico di suo fratello. Avrebbe potuto anche fargli portare lo zaino, con la scusa di essere una donna eccetera.

Ma, semplicemente, non le andava.

Voleva solo arrivare nel “suo” posto speciale, null’altro.

Voleva di nuovo vedere quella luna che si sarebbe vista solo quella notte, così strana e così vicina e così lontana allo stesso tempo…

Si sentì tirare per una bretella della canotta che indossava. Era Jesse allo stremo delle forze, che la implorava di fermarsi boccheggiando.

Chissà se quando il ragazzo avrebbe dovuto fare un inseguimento con la pula si sarebbe stancato così presto; dopotutto erano solo venti minuti che correvano… Ad ogni buon conto decise di fermarsi lo stesso; erano quasi arrivati, ed avrebbe potuto godersi la sua fottuta asticella di tabacco in pace. Commenti di Jesse a parte, immaginava. Non c’era nessun modo per evitarli, come non c’era un modo per evitare le sue domande sulla loro destinazione, in effetti.

Destinazione che non voleva rivelare.

Aveva scelto di venire con lei? Beh non si mettesse a rompere le palle.

E poi, erano arrivati. KC si sistemò e controllò l’ora; appena in tempo, fra cinque minuti sarebbe iniziata l’eclisse.

Il tempo di una mezza sigaretta, insomma.

Il tempo di rovinarsi ancora una volta i polmoni, la circolazione, le corde vocali, la bocca e la pelle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jesse osservò la sabbia e le palme della spiaggetta in cui erano arrivati, dopo un po’ di slalom tra rocce e scogli. Era un posto totalmente riparato ed al buio; piacevole, immaginava.

Si sedette sulla sabbia ancora tiepida per la calura estiva del giorno appena passato e guardò la ragazza perdere dieci minuti per stendere un asciugamano e sistemarsi in modo tale da essere comoda ma di faccia alla luna, e poi controllare l’orologio.

All’inizio non capì, poi la classica lampadina all’Archimede Pitagorico gli si accese in testa: ma certo, l’eclisse totale di luna questa sera! Sarebbe iniziata di lì a poco! Ecco perché KC correva!

La puzza di fumo interruppe le sue riflessioni. Si voltò bruscamente verso la punk, e la vide con gli occhi semichiusi, mentre aspirava un’altra boccata di fumo dalla sua Seven Star.

Si era fatta fottere anche lei dal tabacco, allora.

-         So a cosa stai pensando.-

-         Co…Cosa KC?-

-         Che sono stata una stupida ad iniziare a fumare.-

-         No, dai, va beh, ci sono tante persone che lo fanno…-

-         Certo, come no.-

-         KC!-

-         Sì?-

-         La pianti? Ok, penso che non dovevi farti fregare anche tu, ma ora basta!-

-         Check me out I’m in a concrete jungle, I’m an individual and you’re stuck in my waste…-

-         Cosa?-

-         Niente, lascia perdere.-

-         …-

-         Non mi faro intrappolare in un fottuto labirinto come tutti I fottutissimi abitanti di Campbell.-

-         Lo spero per te…-

Jesse sorrise dopo la sua ultima affermazione e pensò alla conversazione, quell’unica conversazione che aveva avuto con Paul sulla sorella.

Paul gli aveva raccontato ridendo che la sorellina non voleva ammettere di essere californiana perché odiava gli stati uniti, e che chiunque osasse avvicinarsi a lei veniva allontanato a suon di calci e pugni. Poi era tornato serio; Paul era convinto che lei poteva essere quella che sarebbe riuscita ad andarsene da Campbell e a farsi una vita da sola, lontano da tutti gli USA.

Doveva essere stato allora che lui aveva capito che la punk non era roba sua, o forse quando…

Una gomitata lo distolse dalle sue considerazioni, e lo fece voltare verso il cielo; l’eclisse era cominciata, e la luna… perdio, la luna era rossa!

 

KC tirò fuori dallo zaino la macchina fotografica che aveva chiesto in prestito al suo prof di astronomia apposta per quell’occasione, e la puntò contro la luna, che iniziava a prendere un pallido colore rosa.

Notò che il suo poco probabile compagno d’avventura stava fissando la sabbia, dimentico del fatto che erano venuti lì per osservare l’eclisse e non la spiaggia, così gli diede una gomitata nelle costole, in piena KCmaniera. Lui si riscosse con un sobbalzo e guadò la luna. La punk lo vide spalancare gli occhi (probabilmente per il colore) e sorrise, riprendendo a fare le sue foto. Downtown, la zona del cimitero, era l’unico posto da dove si poteva ammirare la luna rosso sangue per la costante umidità nell’aria, ma nessuno faceva caso a queste cose. Anche per questo la ragazza odiava così tanto gli USA; in qualsiasi posto andasse nessuno faceva caso a dov’era, slavo che ci fosse di mezzo un vip. Nessuno nella sua ormai ex scuola sapeva che nel negozietto davanti all’edificio vendevano degli incensi che ti facevano girare la testa, e delle stoffe strane ed insolite, con cui lei in genere confezionava i suoi vestiti.

Nessuno si accorgeva di nulla.

Probabilmente uno su mille abitanti avrebbero saputo dell’eclisse di luna quella sera, e lo stesso Jesse non l’avrebbe guardata se non fosse stato con lei.

Ops, rullino finito.

Aveva imparato a cambiarli in tempo record, e riprese a fare foto dopo una decina di secondi, con il ragazzo che la guardava stupito per la rapidità.

Le piaceva fotografare la luna, e le eclissi. Erano belle, e le facevano pensare al cosiddetto “lato oscuro della forza” che si impossessava dell’ipocrita luce.

Già. La luce era ipocrita secondo lei.

Sotto la luce tutto tendeva ad essere più allegro e rassicurante, tutto tendeva al buono, al perfetto, fregiandosi di definizioni che non gli appartenevano.

Sotto la luce erano tutti gentleman ed il galateo faceva invidia a quello delle famiglie reali europee.

Sotto la luce tutti facevano finta di essere quello che non erano, per fare bella figura o qualcosa di simile.

Che ipocrisia.

Altro rullino pieno.

Ed allora forza, sollevare il coperchietto, togliere il vecchio, infilare il nuovo badando che l’inizio sia infilato nella fessura.

E di nuovo a scattare foto sotto lo sguardo sempre più stupito di Jesse.

Non aveva mai visto qualcuno fotografare un’eclissi?

Va beh che era quasi finita, ormai, e probabilmente il rullino le sarebbe avanzato. Un peccato, considerato il fatto che ormai costavano un occhio della testa; magari li avrebbe rivenduti, o riportati al negozio con lo scontrino, o magari li avrebbe fatti portare a Jesse, chissà…

Jesse dopotutto era un bel ragazzo, del genere che faceva abbastanza colpo su tutte. Essere un fighetto muscoloso e sportivo aveva i suoi lati positivi, dopotutto.

E se poi, oltre ad essere fighetto, eri anche intelligente, facevi colpo anche sulle madri. Nel caso ti fossi voluto accasare.

Se.

Lei non voleva accasarsi. Almeno, non ora. Magari più tardi, quando sarebbe stata in una capitale europea, stregata da un bel ragazzo con la pelle chiara ed i ricciolini castani.

Magari se lui le avesse chiesto di sposarlo lei gli avrebbe anche risposto di sì, e si sarebbe messa un vestito con lo strascico…

Beh, non bianco però.

Lo voleva nero con i pizzi.

Non per altro, ma il nero era un colore che l’attraeva di più, era molto ricettivo, e perciò più adatto ad una cerimonia in cui dovevi… ehm… ricevere il partner.

KC sorrise a quest’ultimo pensiero e  mise al suo posto la macchina fotografica. L’eclisse era finita, ma stranamente la luna rimaneva rosso sangue.

Si voltò verso Jesse, che si era messo sull’asciugamano vicino a lei. Doveva avere intuito che avrebbero dormito lì quella notte, perché non chiedeva quando se ne sarebbero andati. Sorrise nel buio e posò lo zaino vicino all’asciugamano.

Jesse doveva aver intravisto, o intuito, quel suo sorriso, perché mise una mano sul suo fianco e l’attirò a sé, guardandola negli occhi.

La punk stette per una manciata di secondi a fissarlo, poi decise che si poteva fare, così alzò appena un po’ il viso per andare a posare le labbra sopra quelle di lui, per poi sdraiarsi tirandoselo sopra.

L’aveva detto prima no? I fighetti dopotutto fanno colpo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jesse avrebbe poi ricordato quella notte come una delle più belle notti della sua vita.

Un caso isolato, certo, ma pur sempre una delle più belle notti della sua vita.

Lui adesso era un avvocato e lavorava a New York, mica cazzi, per usare una delle espressioni di KC.

Assurdo come dopo quella volta la ragazza gli fosse entrata sottopelle.

Era passata da ragazza a sensazione che aveva costantemente invaso le sue giornate.

Avrebbe volentieri voluto perdersi dentro di lei come quella notte, ma sapeva che non glie l’avrebbe mai più permesso. Dopotutto, lo salutava a malapena, anche quando erano da soli. In parte dipendeva dal suo modo di fare, ma il suo sguardo diceva che non voleva più avere a che fare con lui in quel modo.

Voleva solo la parte della “sorella del mio amico”. Questo le sarebbe bastato per tutta la vita.

Ogni volta che pensava alla vita che poi aveva avuto la punk, l’uomo che un tempo era stato uno skater leggermente fighetto non poteva fare a meno di sorridere mestamente.

Circa sei mesi dopo l’eclisse l’aveva ritrovata in uno dei rifugi sotterranei del League Park, nel centro di Campbell.

Era pallida e più smunta del solito, e sembrava dormisse.

Solo che, a differenza di una persona addormentata, lei non si voleva svegliare.

Jesse si ricordava perfettamente il casino dopo il ritrovamento (casuale; lui stava solo facendo una passeggiata); i genitori in lacrime, la polizia, l’autopsia che aveva stabilito che era morta per una massiccia dose di eroina, e poi i segni di lotta ed il colpo alla nuca…

Jesse sorrise nel suo studio legale, tra i più quotati d’America.

In un certo senso, lui era riuscito ad uscire dal labirinto dei “ratti di Campbell”.

E non era ancora entrato in quello dei ratti di New York.

Si poteva dire fosse fuori controllo?

Sì, forse sì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio Autrice

Beh, fa un certo effetto scrivere queste due paroline *_* mi sento potente XD

Ok, parte gli scherzi diamo le informazioni necessarie ^.^

Come vi avranno detto gli avvertimenti, questa è una song-fic, anche se non ho messo il testo della canzone (ma allora si può chiamare così?); per la precisione, ho preso spunto da Red Hot Moon dei Rancid. Ho semplicemente provato a narrare in prosa ciò che nella canzone era scritto in versi… o meglio, nella canzone si racconta una ragazza, ma senza spiegare nulla dei “fatti” (?) che hanno portato alla conoscenza della stessa. E dato che nel mio cervellino bacato si era iniziata a formare una storia, ho deciso di metterla nero su bianco ù.ù

Le sigarette che fuma KC, le Seven Stars, sono una specie d’omaggio a Nana dell’omonimo manga della Yazawa, che fuma le stesse sigarette. In effetti, non so se esistano veramente, ma è la mia fanfa perciò le ho messe a piacimento ^.^

Infine, la storiella è divisa in mini-capitoli, che si notano perché ho cambiato font XD dato che non sapevo come fare °__°

Commentino ino ino?

 

Nausicaa212

  
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