Prologo
La campagna odorava di sangue e di morte. L’oscurità della notte lavava i colori ma non poteva cancellare i bagliori e i crepitii dei fuochi, né poteva soffiare via il vento che sapeva di gelo e cenere. Esplosioni e rombi di tuoni alternati a gemiti umani nutrivano l’aria, corpi disfatti giacevano tra la polvere, mani imploranti s’alzavano, invocanti un aiuto che non sarebbe giunto.
Un uomo dal mantello lacero e una fiera spada al fianco vagava tra le nere macerie, ultime vestigia di una sanguinosa tirannide. Stringeva tra le mani un piccolo scrigno, in volto dipinta la disperazione.
A un boato più forte degli altri, il cielo color della pece sembrò squarciarsi e mostrare il rosso del sangue. Dalle ferite piovvero massi di fuoco, una cappa di polvere gelata piombò sulla martoriata terra, fulmini saettarono senza sosta. Ma nulla di ciò angosciava l’uomo, se non la morte che oramai soggiogava il suo cuore. Arrancò fino al centro di ciò che fu una tetra costruzione e lì, oramai privo di forze, crollò in ginocchio. Lo scrigno cadde con lui, schiudendosi.
Gli occhi stanchi videro ciò che mostrava. Fu allora che ricordò e comprese. Non rimase che l’ultima domanda, urlata al vento.
Cadde. Gocce di sangue bagnarono la nuda terra dove, per fato o prodigio, germogliò un fiore.
Era una rosa.