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Autore: suni    22/02/2008    9 recensioni
E’ passato molto tempo, eppure non li ho mai dimenticati. [...] Anche se i miei ricordi e i loro visi sono pallide figure sfumate e imprecise, tranne pochissime immagini straordinariamente nitide che mi accompagnano da sempre, ricordo ancora. Perché ai tempi di Hogwarts io e loro due, anche se non avevamo niente in comune, condividevamo un segreto.
Solo che loro non lo sapevano.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: I Malandrini, Nuovo personaggio | Coppie: Remus/Sirius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi premuro di informare la gentile clientela che gli aggiornamenti saranno discontinui (come se non lo sapeste già…). A chi interessasse saperlo, annuncio inoltre che sì, lo so, sto trascurando George. Non temete, Egli è nel mio cuore e presto tornerà sui vostri schermi. Ma quando questi due qui si impossessano di me, non posso far altro che assecondarli.

suni

 

 

 

 

 

 

Primo brano

 

Il mondo è cambiato, ormai.

La guerra è conclusa e questa volta definitivamente. La gente è di nuovo felice, anche se tanti non hanno veduto questi giorni di gioia e troppe lapidi si sono aggiunte a quelle già esistenti. Molti sono caduti, come molte sono le lacrime che li hanno accompagnati. Ma è finita, per davvero. I miei figli potranno andare a scuola sicuri come tutti i bambini e forse nessuno darà più loro dei sanguesporco.

Ho sepolto degli amici, tuttavia.

E anche loro, loro sono morti. Tutti e due.

E’ passato molto tempo, eppure non li ho mai dimenticati. Non avrei potuto cancellare dalla mia memoria le reminescenze di quei giorni di silenziosa osservazione, la meraviglia per quegli sguardi rapiti e privati, staccati dal mondo in un modo tale che persino io, romantica come un Avvincino, li trovavo incantevoli. Anche se i miei ricordi e i loro visi sono pallide figure sfumate e imprecise, tranne pochissime immagini straordinariamente nitide che mi accompagnano da sempre, ricordo ancora. Perché ai tempi di Hogwarts io e loro due, anche se non avevamo niente in comune, condividevamo un segreto.

Solo che loro non lo sapevano.

E quella storia strana e anormale, che a me sembrò tanto delicata e meritevole, mi ha accompagnata per tutta la vita, lungo la mia strada così diversa dalla loro. Io, che non ho mai avuto lo stesso spirito temerario o il gusto del protagonismo, che mi sono nascosta per paura di una guerra che pure mi riguardava in prima persona, ho incontrato il loro sentiero per solo pochi attimi, nei quali forse ho fatto l’unica cosa davvero ammirevole della mia vita. Tutto ciò che ne conservo sono le pagine del mio diario e questo ciondolo che tormento tra le dita nelle pause della scrittura, ancora allacciato al mio collo dopo tutto questo tempo.

Adesso se ne sono andati, tutti e due, troppo presto. E chissà cosa ne era stato, del resto, di quell’amore che alberga nei miei ricordi. Chissà cosa l’usura del tempo e delle vicende drammatiche che li hanno visti coinvolti aveva apportato al loro affetto.

 Non lo so, e non lo saprò mai, perché tutto ciò che so è quel che vidi e sentii, e trascrissi nei miei diari a frammenti, che poi erano frammenti di altri frammenti. Ho raccolto piccole immagini scollegate e le ho conservate, accuratamente, perché per tutta la vita, nei miei sogni, ho desiderato trovare l’uomo che mi guardasse nel modo in cui Sirius Black, al tavolo della colazione, spostava gli occhi grigi e profondi e li posava con muta adorazione sul profilo armonico e composto di Remus Lupin e sulle sottili cicatrici bianche che gli segnavano il lato del viso, senza che lui quasi se ne avvedesse. E ho sognato che qualcuno mi accarezzasse nella maniera in cui le dita leggere e sicure di Remus scivolavano nella china dei capelli di Sirius come su un tesoro d’inestimabile valore, senza più riuscire a districarsene se non quando vi erano costrette dal sopraggiungere di un intruso.

Un intruso che non fossi io.

E adesso che ci penso mi sembra quasi che non sia stato solo un caso, un’imperscrutabile coincidenza, se proprio quel preciso pomeriggio capitai in quell’esatta aula e li vidi, ma forse – forse – è perché quella storia meritava un testimone, qualcuno che potesse ricordare e mantenere in vita le loro immagini, dopo che il filo sottile, e già allora teso troppo spasmodicamente sul baratro dell’avvenire, sul quale camminavano ad occhi chiusi li facesse precipitare prima del tempo.

Tutto iniziò per via del Ballo di Corvonero.

Nel 1978 ricorrevano mille anni esatti dalla nascita di Priscilla Corvonero, fondatrice di una delle quattro Case della scuola di Hogwarts. Per questo il Preside Silente decise che ci sarebbe stato un Ballo per commemorare il felice evento, esattamente una settimana dopo il rientro dalla vacanze natalizie, un ballo per tutti gli studenti della scuola che avessero già superato il terzo anno di frequenza, o le ragazze più giovani qualora invitate da uno studente che fosse già almeno al quarto.

Io frequentavo il sesto anno a Tassorosso e del Ballo m’importava poco o nulla, per una serie di ragioni strettamente dipendenti dalla mia personalità ma anche in un certo senso esterne. Mi spiego: è vero che con quei miei capelli color spago, sempre arruffati, il mio piatto decolleté e i miei fianchi dritti come quelli di una bimba non avrei potuto aspettarmi grandi attenzioni, a quel ballo, ma è altrettanto vero che non mi interessava riceverne. Avrei presenziato alla serata per evitare che le malelingue infierissero su di me (non amavo attirare l’attenzione, né positivamente né tanto meno negativamente) ma non mi facevo affatto un problema del doverci andare da sola. Sapevo che, se non fosse riuscito a strappare un sì alla fanciulla dei suoi sogni, il mio migliore amico, Seb Deval, avrebbe invitato me, perché potessimo darci reciproco sostegno e tenerci compagnia. In caso contrario mi sarei arrangiata e avrei cercato di passare inosservata. Una cosa era certa: Maude Lawson era una ragazza che sapeva rendersi invisibile.

Ciò era sempre stato più che evidente: ero un’adolescente piuttosto introversa e amavo stare per conto mio; da buona Tassorosso facevo il mio dovere di studentessa ed ero seria e posata, con la testa sulle spalle. Avevo la mia piccola cerchia di amici con cui facevo i compiti e trascorrevo semplicemente il tempo libero, amavo leggere e non m’interessava primeggiare. Preferivo trattenermi ai margini e condurre la mia placida esistenza senza scossoni, immaginando un avvenire stabile e tranquillo, senza aspirazioni di grandezza. La mia vita mi stava bene così com’era, e rimango tutt’oggi del medesimo avviso.

Tutto sommato ero una ragazzina serena e abbastanza soddisfatta.

Ma quella prima settimana di scuola del 1978 per me si stava rivelando un autentico incubo.

La scuola era precipitata in una frenesia senza precedenti e tutti non facevano che parlare del Ballo, di chi avrebbero voluto invitare o di chi speravano porgesse loro un invito, di come si sarebbero vestiti, dell’acconciatura in cui avrebbero accomodati i capelli. Quando anche Julia, la mia più cara amica, prese a intontirmi a proposito della scelta del trucco adatto all’occorrenza mi resi conto che la mia pace atavica era in pericolo. Per giunta dovevo preparare una breve relazione per il corso di Incantesimi della settimana seguente, ma studiare, ad Hogwarts, era diventato impossibile. In Sala Comune non si sentivano altro che chiacchiere eccitate e frenetiche sulle prospettive per la serata, le aule erano immerse in bisbigli concitati e persino in biblioteca si udiva un costante chiacchiericcio, nonostante i tentativi di Madama Pince di mantenere un rispettoso silenzio.

Non riuscivo in nessun modo a mantenere la concentrazione. Era frustrante.

Naturalmente non ero un’aliena: sapevo che con ogni probabilità il Ballo sarebbe stato molto divertente ed ero contenta che coincidesse con la mia presenza a scuola, ma non intendevo dedicare all’evento più di un pomeriggio di preparazione. Un’intera settimana spesa ad occuparmene mi pareva sinceramente uno spreco di tempo.

Avevo altro da fare.

Fu per questo motivo che il pomeriggio del giovedì decisi che avevo assolutamente bisogno di trovarmi un angolino tranquillo in cui dedicarmi alla mia relazione, ma l’impresa si rivelava decisamente ardua: gli entusiasti della festa erano ovunque, assiepati in aule vuote a discutere degli inviti, radunati in corridoio a commentare le coppie già sicure. Dovetti proseguire le mie ricerche fino a trascinarmi nei remoti corridoi intorno alla torre di Astronomia e per sicurezza mi rifugiai all’estremità più lontana del castello. Lì c’erano alcune aule in cui probabilmente nessuno andava mai, e ciò era reso evidente dal sottile strato di polvere sui banchi e gli scaffali.

Quando aprii quella porta non presentivo in alcun modo ciò che sarebbe avvenuto.

L’aula era deserta, ma sembrava fosse stata pulita abbastanza recentemente. La sua posizione permetteva al sole pomeridiano di penetrare dalla finestra, illuminandola gentilmente. Era un vano ampio, ordinato e spoglio.

Posai i miei libri su un banco con un sospiro di sollievo, pensando di potermi ritenere tutto sommato soddisfatta, e mi guardai intorno criticamente. La stanza era fin troppo grande per i miei gusti, ma vista la situazione in cui versava la scuola non mi potevo certo lamentare.

La cattedra era larga e scheggiata su un lato, l’armadio completamente vuoto ad eccezione di un inspiegabile libro di Trasfigurazioni e c’era un disegno scarabocchiato sulla lavagna, nell’angolo in basso. Due animali, avrei detto due cani, tratteggiati da una mano non troppo portata per il disegno.

In fondo all’aula c’era una seconda porta.

Non ero decisamente una ficcanaso, ma mi dissi che non ci poteva essere nulla di male a dare un’occhiata, in fondo si trattava solo di un’aula di scuola: non mi trovavo in un posto proibito o privato.

Difatti oltre quell’uscio c’era solo un’altra stanza, più piccola e ancor più spoglia. Doveva trattarsi dello studio di un professore ormai in disuso, perché al centro troneggiava un largo scrittoio con una comoda sedia. Decisi che quell’ambiente più raccolto era maggiormente consono a me e trasferii i miei volumi nella stanzetta, lasciando la porta socchiusa alle mie spalle. Quindi mi immersi finalmente nel tanto agognato apprendimento dell’argomento su cui stavo lavorando.

Non so quando tempo trascorse prima che venissi disturbata: ero completamente assorbita dalla concentrazione, come mi accadeva sempre quando avevo davanti delle pagine scritte; non mi avvidi nemmeno dei passi che si avvicinavano in corridoio o delle voci in lento accostamento, ma suppongo debbano esserci stati.

Mi resi conto soltanto, con un sussulto di sorpresa, della porta della stanza adiacente che si apriva sulle parole di un misterioso intruso.

“… Nemmeno chiesto scusa.”

“Se ne sarà dimenticato.”

“Si dimentica un sacco di cose, ultimamente.”

Rimasi immobile, col cuore in gola. Non avevo fatto niente di male e se mi avessero trovata lì non ci sarebbe stato nessun problema, eppure quell’improvvisa intrusione inaspettata mi aveva spaventata, forse perché era stata brusca e in quel silenzio di tomba mi ero quasi dimenticata di non essere sola al castello.

C’erano due ragazzi, nell’aula. Erano voci maschili e non sapevo se le conoscevo o no. Sperai che quei due se ne andassero, perché sarebbe stato imbarazzante dover uscire di lì e palesare loro il fatto che non fossero soli; d’altra parte, non potevo rimanere lì di nascosto. Se erano venuti fin lassù, come me, non era certo perché desiderassero avere intorno occhi e orecchie indiscreti. Forse dovevano parlare di qualcosa di strettamente personale, qualcosa che evidentemente non mi riguardava affatto. Ero una persona onesta e corretta ed ero certa che non mi sarei mai permessa di origliare, sarebbe stato vergognoso; ma detestavo l’idea di dovermi presentare loro con un cenno di scuse e osservare che, ecco, lì c’ero prima io.

“Non dovresti prendertela tanto per una sciocchezza del genere.”

“E’ una questione di principio, non è per la cosa in sé.”

“Di principio…”

Le due voci continuavano a parlare e io mi alzai in assoluto silenzio, decisa a non prolungare oltre la mia involontaria spiata, a costo di dover affrontare la mia timidezza.

Erano voci confidenziali, assorte. La prima profonda e vivace, la seconda pacata ed ironica.

“Di principio, guarda che ne ho anche io.”

“Sarà… Voglio dire, certo, lo so.”

“Stronzo.”

Mi stavo avvicinando alla soglia quando scoppiarono a ridere, e in quel momento l’identità di almeno uno dei due intrusi mi fu chiara all’istante.

Tutta la scuola conosceva quella risata squillante. Non avevo affatto bisogno di spingere lo sguardo nella fessura della porta socchiusa per dare un nome a quel suono uggiolante, ma lo feci ugualmente.

E naturalmente la mia ipotesi trovò un’immediata conferma nella figura del ragazzo seduto scompostamente sul banco.

Il cravattino rosso e oro slacciato, la camicia sbottonata e la divisa in disordine, i capelli scompigliati con incuria e il sorriso smagliante; naturalmente sapevo benissimo chi era quello, il fatto che fossi di natali babbani non significava che provenissi da un altro pianeta. Come la stragrande maggioranza delle ragazze presenti ad Hogwarts, ero fermamente convinta che Sirius Black fosse l’essere umano più attraente che avesse mai messo piede sul territorio inglese, forse sull’intera superficie terrestre.

E finiva lì. Per quanto potesse risultare superbo da parte mia – io, scialba e insignificante, e lui, bellissimo e affascinante – non lo consideravo affatto il genere di ragazzo per cui avrei mai potuto perdere la testa, sempre posto che un simile individuo esistesse. Era un tipo troppo esagitato, si cacciava continuamente nei guai e attirava l’attenzione in qualunque modo gli passasse per la testa. Ma bisognava ammettere che averlo a pochi metri di distanza, ignaro e senza pose da duro, faceva un certo effetto.

Conoscevo anche l’altro ragazzo, di vista ovviamente, perché nessuno dei due mi aveva mai rivolto la parola nemmeno di striscio: erano membri del clan più in vista del castello, un gruppo di ragazzi il cui passaggio era seguito da silenziosa ammirazione e sempiterno rispetto (tralasciando l’odio loro tributato dai Serpeverde, ovviamente). Io, ai loro occhi, dovevo essere invisibile ancor più che per tutti gli altri.

Quel secondo ragazzo era stato Prefetto di Grifondoro nei due anni precedenti, era il membro più posato della piccola banda e se non fosse stato per i suoi chiassosi amici probabilmente non avrebbe mai conquistato tanta popolarità; sempre che ci avesse tenuto davvero ad ottenerla, eventualità su cui nutrivo qualche serio dubbio. Era un ragazzo studioso e coscienzioso, piuttosto tranquillo. Non gli avevo mai dedicato molta attenzione – Sirius Black era una calamita naturale per gli sguardi e in sua presenza qualunque essere vivente nel raggio di sei metri sembrava evaporare – ma avevo notato le piccole cicatrici chiare che gli sciupavano il viso e gli occhi ambrati, calmi. Si chiamava Remus Lupin ed era un tipo un po’ strano. Lo si sarebbe detto timido e chiuso, ma in quei suoi occhi riluceva sempre una sicurezza quasi invisibile, sfrontata. Era il genere di ragazzo da cui ti potevi aspettare sorprese inaspettate e lati ambigui.

Una volta Severus Snape l’aveva insultato in corridoio. Me l’aveva raccontato Julia, che aveva assistito per caso alla scena. Snape stava litigando con Potter, lo facevano in continuazione, e Lupin era intervenuto cercando di farli calmare, col suo fare posato.

Snape l’aveva scrutato con disgusto.

“Sei davvero bravo a fingerti un bravo ragazzo, sudicio…”

Snivellus,” era intervenuto Black, con la sua voce tonante.

Si erano guardati negli occhi per qualche istante – quei due si odiavano a morte, lo sapevano anche le piante nelle serre - e poi Snape aveva sbuffato sprezzante e se n’era tornato da Avery e l’altro Black, che lo aspettavano lì accanto. E Julia e gli altri avevano ripreso a camminare verso l’aula interrogandosi su quale sarebbe stato il tremendo epiteto che il Serpeverde avrebbe rivolto a Lupin, se l’altro Grifondoro non l’avesse interrotto. Non per altro, ma gli insulti di Snape erano sempre d’effetto, e se non eri il malcapitato cui erano destinati ti trovavi costretto ad ammettere che nella loro forbitezza erano piuttosto divertenti, anche se orribili. Ci sapeva fare con le parole, e non solo con quelle.

E Lupin non era un Purosangue, come me. Anche se lui aveva almeno un genitore mago.

Non sapevo molto altro su di lui. Non mi ero mai interessata troppo a loro, erano semplicemente persone al di fuori della mia portata.

Tutto questo, ad ogni modo, in quel momento non aveva importanza. Quei due ragazzi erano l’ostacolo tra me e la libertà e io li stavo osservando con una certa stizza dalla porta accostata.

Avevano smesso di ridere. Poteva essere il mio momento. Poggiai la mano sulla maniglia.

“Comunque James non aveva di certo intenzione di ferirti o che so io…”

Esitai, mio malgrado.

James Potter era il Caposcuola, quell’anno, ed era il terzo membro della squadra. Ce n’era un quarto, un ragazzo grassoccio di nome Peter Minus che lo seguiva dappertutto. James era un ragazzo vanitoso e casinista, il cui principale talento scolastico consisteva in una straordinaria abilità nel Quidditch. Era capitano e Cacciatore della squadra di Grifondoro e giocava divinamente. Un paio di settimane prima di Natale aveva cominciato a uscire con l’altra Caposcuola, Lily Evans. Lei mi era molto simpatica. Anche lui, in realtà, per quanto potesse essermi simpatica una persona tanto diversa da me.

Inoltre, come tutti ben sapevano, era il migliore amico di Sirius. Avevano anche trascorso quell’estate insieme a casa di Potter, dopo che Black aveva lasciato la famiglia all’inizio di luglio. A quanto pareva non andava d’accordo con i genitori e rifiutava di seguire il credo Purosangue, ma non avevo informazioni precise in merito. Non le avevo mai chieste. Quel che sapevo erano le voci che mi arrivavano alle orecchie mio malgrado, dal momento che quei ragazzi erano un argomento molto in voga ad Hogwarts. Ed ora erano lì, nell’aula accanto alla mia, e non potevo uscire senza che loro mi vedessero. Ero in trappola.

“E’ un imbecille.”

Sembrava che Black ce l’avesse con l’amico, e questo era piuttosto strano.

“Ma dai…”

Lupin pareva decisamente più moderato.

E io continuavo a tenere la mano sulla maniglia e dirmi che dovevo premerla ed uscire, ora, prima che iniziasse a passare troppo tempo e che la situazione mi facesse poi apparire come se li stessi spiando, cosa che effettivamente stava accadendo, ma non perché lo desiderassi.

Da lì dov’ero, vedevo il bel viso corrucciato di Sirius Black adornato da una smorfia cupa e quasi triste, e Lupin che lo guardava quasi desolato. Presi fiato per l’ennesima volta e decisi che davvero non potevo più rimandare. La mia presa sulla maniglia si rinserrò, con decisione.

“Pad…” iniziò Lupin, bonario. “Non è la fine del mondo. E’ Jamie, voglio dire, lo sai com’è fatto.”

Adesso. Adesso, mentre Black annuiva senza convinzione.

Con un sospiro, mi accinsi a muovermi.

E in quel momento accadde.

Remus Lupin sporse il busto e chinò leggermente la testa, quando bastava perché il suo viso andasse ad affossarsi nel collo chiaro di Sirius Black. Questi, da parte sua, sollevò le spalle e gli appoggiò contro la tempia mentre l’altro ragazzo gli mordicchiava un tendine.

Mollai la maniglia di scatto come se fosse stata incandescente e incespicai indietro senza fiato, mancando per puro caso la gamba del tavolo. Dovevo essere completamente viola e mi tremavano le mani, mi sentivo raggelata e al tempo stesso mi pareva che mi avessero dato fuoco. Il cuore mi batteva furiosamente perfino nella fronte e non riuscivo a respirare.

Cosa stava succedendo in quella stanza?

Com’era possibile? Quelli erano due ragazzi, due maschi, in atteggiamento assolutamente ambiguo. Dovevo aver visto male, ma piuttosto che gettare una sola altra occhiata mi sarei cavata gli occhi. Doveva essere un maledetto brutto sogno.

Mi guardai intorno spaurita, direi quasi terrorizzata. Forse potevo calarmi dalla finestra e scappare di lì, oppure abbattere il muro della stanza adiacente, qualunque cosa tranne farmi scorgere dai due Grifondoro dopo quel che avevo appena visto. Ancora faticavo a respirare, ero sconvolta.

Due ragazzi. Due maschi.

E se avessero cominciato a…mi tappai la bocca con la mano, trattenendo un gemito di terrore. Dovevo andarmene da lì. Subito.

Sentii la risatina di Lupin e un leggero tramestio.

“Il tuo capolavoro è ancora intatto,” osservò, divertito.

“Chi vuoi che lo cancelli… Non ci viene un’anima, qui.”

E fanno bene, pensai istericamente.

“Quale dei due è il cane?”

La voce di Lupin sembrava estremamente divertita.

“Non me lo ricordo… Credo quello a destra.”

Black pareva quasi imbarazzato.

Il disegno, mi resi conto, stanno parlando del disegno. Ma quelli erano due cani, l’avevo notato poco prima.

“E’ più grosso del lupo, non ti pare un po’ strano?”

“D’altra parte quello più piccolo ha le zanne più grosse.”

“Zanne! Ecco cosa sono. Pensavo si trattasse di baffi.”

“Molto divertente, Moony.”

Non avevo idea di cosa stessero parlando, ma avevano voci assolutamente normali. Forse, dopotutto, avevo davvero preso un abbaglio. Dovevo essere stanca per lo studio ininterrotto e la luce bianca del sole pomeridiano mi aveva fatto un brutto scherzo: non era una grande spiegazione ma era decisamente quella che preferivo.

Decisi di osare una nuova occhiata attraverso la porta. In fondo se stavano tranquillamente chiacchierando non potevano essere immersi in altre attività.

E non lo erano. In compenso il braccio di Black era poggiato sulle spalle dell’altro ragazzo, ma potevo anche decidere di interpretarlo come un gesto affettuoso. Lo feci.

“Però, Pad, scusami, ma la tua coda è più corta… Quella è la coda, vero?”

Black scoppiò di nuovo a ridere di gusto.

“Purtroppo sì.”

Non capivo – non ho mai capito – cosa stessero dicendo, ma il riferimento alla “coda” con annesso doppio senso mi fece arrossire, in quella situazione.

Ed era una brutta situazione. Ormai era trascorso troppo tempo e non potevo più uscire senza creare un momento decisamente troppo imbarazzante. Mi maledissi per non essermi fatta vedere subito, quando avrei dovuto.

Poi la mano di Lupin si sollevò. Era una mano ferma e elegante, e si andò a posare tra le ciocche nere di Black con una delicatezza che mi lasciò a  bocca aperta. Per un istante dimenticai il contesto in cui mi trovavo e la stranezza di quella circostanza, osservando le sue dita che si muovevano ipnoticamente tra i capelli dell’altro. Non avevo mai visto compiere un gesto simile con tanto riguardo, quasi come se lui avesse avuto per le mani un oggetto fragilissimo.

Scossi la testa con un improvviso ritorno alla realtà.

E continuavo a non sapere come andarmene di lì.

“Non avercela con Jamie. Sul serio, non ha senso.”

Black sbuffò.

“E’ che mi dà fastidio questo modo di fare. E’ fidanzato, bene. Anche io, ma questo non significa che lo trascuri.”

Lupin ridacchiò.

“Per forza, visto che non gliel’abbiamo detto.”

Non so come riuscii a trattenere un’esclamazione di sorpresa.

Quei due ragazzi stavano insieme davvero. Non me l’ero immaginato.

E apparentemente, se non lo sapeva nemmeno James Potter, io ero l’unica persona al mondo ad esserne a conoscenza.

Non li conoscevo, ma sapevo qualcosa di loro di cui nessun altro aveva consapevolezza.

Era strano.

“Ben gli sta. Non se lo merita.”

“Tanto lo sa. Voglio dire, l’avrà intuito.”

“Non sopravvalutarlo, Moony.”

Moony. Black lo chiamava Moony, e prima avevo sentito Lupin apostrofarlo come Pad. Dovevano essere i loro soprannomi o qualcosa del genere. Certo erano piuttosto strani.

“Lungi da me fare una cosa simile, ma lo sa. Fidati. O almeno sa che sta succedendo qualcosa di strano.”

“Ce l’avrebbe detto.”

“No, se si aspetta che glielo diciamo noi.”

“Allora sarà bene che si prepari ad una lunga attesa. Eterna.”

Lupin sbuffò, rassegnato. La sua mano esitava tra i capelli di Black, leggera.

“Forse dovrei essere geloso di James,” buttò lì, vago.

Black sollevò le sopracciglia in un lungo sguardo perplesso.

“Per quale motivo?”

“Perché no? Sto ascoltando le tue lamentele a suo proposito da ore, e non è decisamente la prima volta che occupa prepotentemente le nostre conversazioni.”

“Non essere idiota.”

“Io non sono mai idiota, Pad. Questa è una tua prerogativa.”

“Sei molto più idiota di me per averlo pensato anche solo per scherzo.”

“Ho la faccia di uno che scherza?”

Quasi come se l’avesse chiesto a me, sollevai uno sguardo attento sul viso di Remus Lupin. La sua espressione era seria e austera, ma negli occhi dorati aleggiava un inconfondibile divertimento, quasi una risata silenziosa.

“Buffone...” borbottò Black, sogghignando.

Ero d’accordo. Senza volere, sorrisi.

E poi Sirius Black allungò la testa verso di lui, e prima ancora che lo avessi capito – e meno male, perché avrei potuto urlare – stava baciando l’altro ragazzo. Sgranai gli occhi e la faccia mi andò in fiamme di nuovo, ma non potei distogliere lo sguardo.

Quella è una delle immagini indelebili e nettissime che mi sono rimaste di quei mesi strani, a distanza di anni la rivedo tale e quale, come se avessi ancora il viso accostato alla porta e la mano appoggiata al muro freddo e slavato. Il viso di Sirius Black che incontra quello di Remus Lupin e le loro labbra che si allacciano, lentamente, con un’ombra di sorriso a distenderle. Si sfiorano e poi si distanziano di pochi millimetri, si cercano di nuovo e nuovamente si sfuggono, e così via, finché non si congiungono in contatto più profondo, ma sempre in punta di fiato. Gli occhi sono chiusi e le dita della mano di Sirius – aveva dita lunghe da pianista – rasentano il contorno dello zigomo di Remus, senza quasi toccarlo, raggiungendolo solo con i polpastrelli tesi.

E quello che ho pensato in quel momento, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati, senza la minima malizia, è stato che erano incantevoli. Sarà banale, ma mi sembravano la cosa più bella che avessi mai visto. E non perché Sirius fosse effettivamente un ragazzo da urlo e Lupin, in fondo, non fosse da buttare via, ma perché insieme, lì seduti su quel banco scalcagnato, erano un’altra cosa, e dubitavo che il ragazzo sguaiato e piantagrane che tutti chiamavano Sirius Black c’entrasse minimamente con quella scena, o che Remus Lupin, il Prefetto, avesse a che fare con quel momento. Erano qualcos’altro, tutto lì. E, qualunque cosa fosse, era straordinaria.

Yoo-hoo!”

La voce proveniva dall’esterno, dal corridoio. Li fece sussultare e scattare a terra, mentre si avvicinava, e Lupin si gettò sulla sedia e aprì il libro, tra l’altro al contrario, ma non se ne accorse nemmeno.

“Siete qua?”

La testa che poi fece capolino era quella di James Potter. Mi ritrassi per un istante, temendo che potesse avvertire la mia presenza o cogliere il brillio delle mie pupille.

“Ciao, Jamie.”

Lupin gli sorrideva cordiale. Black si era avvicinato alla lavagna e dava quasi le spalle alla porta, ma dalla mia posizione potevo scorgere la piega rigida delle sue labbra.

“Buongiorno, signori. Si studia?”

“A volte capita,” rispose Sirius, distaccato.

James voltò uno sguardo quasi intimidito su di lui, poi lo avvicinò di qualche passo.

“Oh, Pad…volevo dirti… Mi dispiace per stamattina. Avevo chiesto a Peter di farti sapere che non avrei fatto in tempo, ma se n’è dimenticato. Toh, t’ho preso del cioccolato per rabbonirti.”

Gli porgeva una tavoletta ancora incartata con un sorriso mezzo scherzoso, mezzo colpevole. Non aveva nulla dello spaccone che io, come tutti, ero abituata a veder spadroneggiare in giro per i corridoi. Era straordinariamente limpido e trasparente.

Sirius voltò la testa verso di lui, prima di prendere il dolce con una breve esitazione. Si voltò di nuovo leggermente, dandomi il profilo, e fece per parlare, ma James si era già spostato verso la lavagna e stava disegnando qualcosa accanto ai due animali già tracciati. Un cavallo. No, un asino. Un alce. No, era un cervo. Sì, quelle corna ramificate erano decisamente da cervo.

Che strani, quei tre, che disegnavano lo zoo sulla lavagna.

“Ecco. Così va meglio,” commentò Potter soddisfatto, contemplando la sua opera.

Una cosa la posso dire con certezza: saranno anche stati gli idoli della scuola, ma decisamente non erano dei portenti in campo artistico.

Sirius sorrideva di sbieco, senza potersi trattenere. James lo guardò per qualche secondo, speranzoso. Alla fine lui sbuffò e scrollò la testa, poggiandogli una mano sulla spalla.

“Bene, adesso che la pace è ristabilita possiamo andare a cena.”

Lupin si era alzato, aveva chiuso il libro e lo teneva tra le braccia. Ancora capovolto. Sorrideva.

Se ne andarono tutti e tre, riprendendo a parlottare.

Aspettai che i loro passi fossero svaniti in lontananza, quindi sgusciai fuori dalla porta e mi avvicinai al banco sul quale i due ragazzi erano seduti fino a pochi minuti prima. Ci passai sopra una mano, quasi come se volessi verificare di non essermeli immaginati. Era ancora tiepido.

Mi lasciai cadere sulla sedia con un lunghissimo sospiro, lo sguardo perso nel vuoto. Avevo ancora il cuore in gola e la testa mi vorticava.

Impiegai almeno dieci minuti a tornare nella stanzetta accanto e recuperare i miei libri, per raggiungere a mia volta la tavola per la cena.

Ma ero sicura di una cosa.

Sarei tornata lì.

 

   
 
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