Mi premuro di informare la gentile clientela
che gli aggiornamenti saranno discontinui (come se non lo sapeste già…).
A chi interessasse saperlo, annuncio inoltre che sì, lo so, sto
trascurando George. Non temete, Egli è nel mio cuore e presto
tornerà sui vostri schermi. Ma quando questi due qui si impossessano di
me, non posso far altro che assecondarli.
suni
Primo brano
Il mondo
è cambiato, ormai.
La
guerra è conclusa e questa volta definitivamente. La gente è di
nuovo felice, anche se tanti non hanno veduto questi giorni di gioia e troppe
lapidi si sono aggiunte a quelle già esistenti. Molti sono caduti, come
molte sono le lacrime che li hanno accompagnati. Ma è finita, per
davvero. I miei figli potranno andare a scuola sicuri come tutti i bambini e
forse nessuno darà più loro dei sanguesporco.
Ho
sepolto degli amici, tuttavia.
E anche
loro, loro sono morti. Tutti e due.
E’
passato molto tempo, eppure non li ho mai dimenticati. Non avrei potuto
cancellare dalla mia memoria le reminescenze di quei giorni di silenziosa
osservazione, la meraviglia per quegli sguardi rapiti e privati, staccati dal
mondo in un modo tale che persino io, romantica come un Avvincino,
li trovavo incantevoli. Anche se i miei ricordi e i loro visi sono pallide
figure sfumate e imprecise, tranne pochissime immagini straordinariamente
nitide che mi accompagnano da sempre, ricordo ancora. Perché ai tempi di
Hogwarts io e loro due, anche se non avevamo niente in comune, condividevamo un
segreto.
Solo che
loro non lo sapevano.
E quella
storia strana e anormale, che a me sembrò tanto delicata e meritevole,
mi ha accompagnata per tutta la vita, lungo la mia strada così diversa
dalla loro. Io, che non ho mai avuto lo stesso spirito temerario o il gusto del
protagonismo, che mi sono nascosta per paura di una guerra che pure mi riguardava
in prima persona, ho incontrato il loro sentiero per solo pochi attimi, nei
quali forse ho fatto l’unica cosa davvero ammirevole della mia vita.
Tutto ciò che ne conservo sono le pagine del mio diario e questo
ciondolo che tormento tra le dita nelle pause della scrittura, ancora
allacciato al mio collo dopo tutto questo tempo.
Adesso
se ne sono andati, tutti e due, troppo presto. E chissà cosa ne era
stato, del resto, di quell’amore che alberga nei miei ricordi.
Chissà cosa l’usura del tempo e delle vicende drammatiche che li
hanno visti coinvolti aveva apportato al loro affetto.
Non lo so, e non lo saprò mai,
perché tutto ciò che so è quel che vidi e sentii, e
trascrissi nei miei diari a frammenti, che poi erano frammenti di altri
frammenti. Ho raccolto piccole immagini scollegate e le ho conservate,
accuratamente, perché per tutta la vita, nei miei sogni, ho desiderato
trovare l’uomo che mi guardasse nel modo in cui Sirius Black, al tavolo
della colazione, spostava gli occhi grigi e profondi e li posava con muta
adorazione sul profilo armonico e composto di Remus Lupin e sulle sottili
cicatrici bianche che gli segnavano il lato del viso, senza che lui quasi se ne
avvedesse. E ho sognato che qualcuno mi accarezzasse nella maniera in cui le
dita leggere e sicure di Remus scivolavano nella china dei capelli di Sirius
come su un tesoro d’inestimabile valore, senza più riuscire a
districarsene se non quando vi erano costrette dal sopraggiungere di un
intruso.
Un
intruso che non fossi io.
E adesso
che ci penso mi sembra quasi che non sia stato solo un caso,
un’imperscrutabile coincidenza, se proprio quel preciso pomeriggio
capitai in quell’esatta aula e li vidi, ma forse – forse –
è perché quella storia meritava un testimone, qualcuno che
potesse ricordare e mantenere in vita le loro immagini, dopo che il filo
sottile, e già allora teso troppo spasmodicamente sul baratro
dell’avvenire, sul quale camminavano ad occhi chiusi li facesse
precipitare prima del tempo.
Tutto
iniziò per via del Ballo di Corvonero.
Nel 1978
ricorrevano mille anni esatti dalla nascita di Priscilla Corvonero,
fondatrice di una delle quattro Case della scuola di Hogwarts. Per questo il
Preside Silente decise che ci sarebbe stato un Ballo per commemorare il felice
evento, esattamente una settimana dopo il rientro dalla vacanze natalizie, un
ballo per tutti gli studenti della scuola che avessero già superato il
terzo anno di frequenza, o le ragazze più giovani qualora invitate da
uno studente che fosse già almeno al quarto.
Io
frequentavo il sesto anno a Tassorosso e del Ballo
m’importava poco o nulla, per una serie di ragioni strettamente
dipendenti dalla mia personalità ma anche in un certo senso esterne. Mi
spiego: è vero che con quei miei capelli color spago, sempre arruffati,
il mio piatto decolleté e i miei fianchi dritti come quelli di una bimba
non avrei potuto aspettarmi grandi attenzioni, a quel ballo, ma è
altrettanto vero che non mi interessava riceverne. Avrei presenziato alla
serata per evitare che le malelingue infierissero su di me (non amavo attirare
l’attenzione, né positivamente né tanto meno negativamente)
ma non mi facevo affatto un problema del doverci andare da sola. Sapevo che, se
non fosse riuscito a strappare un sì alla fanciulla dei suoi sogni, il
mio migliore amico, Seb Deval,
avrebbe invitato me, perché potessimo darci reciproco sostegno e tenerci
compagnia. In caso contrario mi sarei arrangiata e avrei cercato di passare
inosservata. Una cosa era certa: Maude Lawson era una ragazza che sapeva rendersi invisibile.
Ciò
era sempre stato più che evidente: ero un’adolescente piuttosto
introversa e amavo stare per conto mio; da buona Tassorosso
facevo il mio dovere di studentessa ed ero seria e posata, con la testa sulle
spalle. Avevo la mia piccola cerchia di amici con cui facevo i compiti e
trascorrevo semplicemente il tempo libero, amavo leggere e non
m’interessava primeggiare. Preferivo trattenermi ai margini e condurre la
mia placida esistenza senza scossoni, immaginando un avvenire stabile e
tranquillo, senza aspirazioni di grandezza. La mia vita mi stava bene
così com’era, e rimango tutt’oggi
del medesimo avviso.
Tutto
sommato ero una ragazzina serena e abbastanza soddisfatta.
Ma
quella prima settimana di scuola del 1978 per me si stava rivelando un
autentico incubo.
La
scuola era precipitata in una frenesia senza precedenti e tutti non facevano
che parlare del Ballo, di chi avrebbero voluto invitare o di chi speravano
porgesse loro un invito, di come si sarebbero vestiti, dell’acconciatura
in cui avrebbero accomodati i capelli. Quando anche Julia,
la mia più cara amica, prese a intontirmi a proposito della scelta del
trucco adatto all’occorrenza mi resi conto che la mia pace atavica era in
pericolo. Per giunta dovevo preparare una breve relazione per il corso di Incantesimi
della settimana seguente, ma studiare, ad Hogwarts, era diventato impossibile.
In Sala Comune non si sentivano altro che chiacchiere eccitate e frenetiche
sulle prospettive per la serata, le aule erano immerse in bisbigli concitati e
persino in biblioteca si udiva un costante chiacchiericcio, nonostante i
tentativi di Madama Pince di mantenere un rispettoso silenzio.
Non
riuscivo in nessun modo a mantenere la concentrazione. Era frustrante.
Naturalmente
non ero un’aliena: sapevo che con ogni probabilità il Ballo
sarebbe stato molto divertente ed ero contenta che coincidesse con la mia
presenza a scuola, ma non intendevo dedicare all’evento più di un
pomeriggio di preparazione. Un’intera settimana spesa ad occuparmene mi
pareva sinceramente uno spreco di tempo.
Avevo
altro da fare.
Fu per
questo motivo che il pomeriggio del giovedì decisi che avevo
assolutamente bisogno di trovarmi un angolino tranquillo in cui dedicarmi alla
mia relazione, ma l’impresa si rivelava decisamente ardua: gli entusiasti
della festa erano ovunque, assiepati in aule vuote a discutere degli inviti,
radunati in corridoio a commentare le coppie già sicure. Dovetti
proseguire le mie ricerche fino a trascinarmi nei remoti corridoi intorno alla
torre di Astronomia e per sicurezza mi rifugiai all’estremità
più lontana del castello. Lì c’erano alcune aule in cui
probabilmente nessuno andava mai, e ciò era reso evidente dal sottile
strato di polvere sui banchi e gli scaffali.
Quando
aprii quella porta non presentivo in alcun modo ciò che sarebbe
avvenuto.
L’aula
era deserta, ma sembrava fosse stata pulita abbastanza recentemente. La sua
posizione permetteva al sole pomeridiano di penetrare dalla finestra,
illuminandola gentilmente. Era un vano ampio, ordinato e spoglio.
Posai i
miei libri su un banco con un sospiro di sollievo, pensando di potermi ritenere
tutto sommato soddisfatta, e mi guardai intorno criticamente. La stanza era fin
troppo grande per i miei gusti, ma vista la situazione in cui versava la scuola
non mi potevo certo lamentare.
La
cattedra era larga e scheggiata su un lato, l’armadio completamente vuoto
ad eccezione di un inspiegabile libro di Trasfigurazioni e c’era un
disegno scarabocchiato sulla lavagna, nell’angolo in basso. Due animali, avrei
detto due cani, tratteggiati da una mano non troppo portata per il disegno.
In fondo
all’aula c’era una seconda porta.
Non ero
decisamente una ficcanaso, ma mi dissi che non ci poteva essere nulla di male a
dare un’occhiata, in fondo si trattava solo di un’aula di scuola:
non mi trovavo in un posto proibito o privato.
Difatti
oltre quell’uscio c’era solo un’altra stanza, più
piccola e ancor più spoglia. Doveva trattarsi dello studio di un
professore ormai in disuso, perché al centro troneggiava un largo
scrittoio con una comoda sedia. Decisi che quell’ambiente più
raccolto era maggiormente consono a me e trasferii i miei volumi nella
stanzetta, lasciando la porta socchiusa alle mie spalle. Quindi mi immersi
finalmente nel tanto agognato apprendimento dell’argomento su cui stavo
lavorando.
Non so
quando tempo trascorse prima che venissi disturbata: ero completamente
assorbita dalla concentrazione, come mi accadeva sempre quando avevo davanti
delle pagine scritte; non mi avvidi nemmeno dei passi che si avvicinavano in
corridoio o delle voci in lento accostamento, ma suppongo debbano esserci
stati.
Mi resi
conto soltanto, con un sussulto di sorpresa, della porta della stanza adiacente
che si apriva sulle parole di un misterioso intruso.
“…
Nemmeno chiesto scusa.”
“Se
ne sarà dimenticato.”
“Si
dimentica un sacco di cose, ultimamente.”
Rimasi
immobile, col cuore in gola. Non avevo fatto niente di male e se mi avessero
trovata lì non ci sarebbe stato nessun problema, eppure
quell’improvvisa intrusione inaspettata mi aveva spaventata, forse
perché era stata brusca e in quel silenzio di tomba mi ero quasi
dimenticata di non essere sola al castello.
C’erano
due ragazzi, nell’aula. Erano voci maschili e non sapevo se le conoscevo
o no. Sperai che quei due se ne andassero,
perché sarebbe stato imbarazzante dover uscire di lì e palesare
loro il fatto che non fossero soli; d’altra parte, non potevo rimanere
lì di nascosto. Se erano venuti fin lassù, come me, non era certo
perché desiderassero avere intorno occhi e orecchie indiscreti. Forse
dovevano parlare di qualcosa di strettamente personale, qualcosa che
evidentemente non mi riguardava affatto. Ero una persona onesta e corretta ed
ero certa che non mi sarei mai permessa di origliare, sarebbe stato vergognoso;
ma detestavo l’idea di dovermi presentare loro con un cenno di scuse e
osservare che, ecco, lì c’ero prima io.
“Non
dovresti prendertela tanto per una sciocchezza del genere.”
“E’
una questione di principio, non è per la cosa in sé.”
“Di
principio…”
Le due
voci continuavano a parlare e io mi alzai in assoluto silenzio, decisa a non
prolungare oltre la mia involontaria spiata, a costo di dover affrontare la mia
timidezza.
Erano
voci confidenziali, assorte. La prima profonda e vivace, la seconda pacata ed
ironica.
“Di
principio, guarda che ne ho anche io.”
“Sarà…
Voglio dire, certo, lo so.”
“Stronzo.”
Mi stavo
avvicinando alla soglia quando scoppiarono a ridere, e in quel momento
l’identità di almeno uno dei due intrusi mi fu chiara
all’istante.
Tutta la
scuola conosceva quella risata squillante. Non avevo affatto bisogno di
spingere lo sguardo nella fessura della porta socchiusa per dare un nome a quel
suono uggiolante, ma lo feci ugualmente.
E
naturalmente la mia ipotesi trovò un’immediata conferma nella
figura del ragazzo seduto scompostamente sul banco.
Il
cravattino rosso e oro slacciato, la camicia sbottonata e la divisa in
disordine, i capelli scompigliati con incuria e il sorriso smagliante;
naturalmente sapevo benissimo chi era quello, il fatto che fossi di natali babbani non significava che provenissi da un altro pianeta.
Come la stragrande maggioranza delle ragazze presenti ad Hogwarts, ero
fermamente convinta che Sirius Black fosse l’essere umano più
attraente che avesse mai messo piede sul territorio inglese, forse sull’intera
superficie terrestre.
E finiva
lì. Per quanto potesse risultare superbo da parte mia – io,
scialba e insignificante, e lui, bellissimo e affascinante – non lo
consideravo affatto il genere di ragazzo per cui avrei mai potuto perdere la
testa, sempre posto che un simile individuo esistesse. Era un tipo troppo
esagitato, si cacciava continuamente nei guai e attirava l’attenzione in
qualunque modo gli passasse per la testa. Ma bisognava ammettere che averlo a
pochi metri di distanza, ignaro e senza pose da duro, faceva un certo effetto.
Conoscevo
anche l’altro ragazzo, di vista ovviamente, perché nessuno dei due
mi aveva mai rivolto la parola nemmeno di striscio: erano membri del clan
più in vista del castello, un gruppo di ragazzi il cui passaggio era
seguito da silenziosa ammirazione e sempiterno rispetto (tralasciando
l’odio loro tributato dai Serpeverde, ovviamente). Io, ai loro occhi,
dovevo essere invisibile ancor più che per tutti gli altri.
Quel
secondo ragazzo era stato Prefetto di Grifondoro nei due anni precedenti, era
il membro più posato della piccola banda e se non fosse stato per i suoi
chiassosi amici probabilmente non avrebbe mai conquistato tanta
popolarità; sempre che ci avesse tenuto davvero ad ottenerla,
eventualità su cui nutrivo qualche serio dubbio. Era un ragazzo studioso
e coscienzioso, piuttosto tranquillo. Non gli avevo mai dedicato molta
attenzione – Sirius Black era una calamita naturale per gli sguardi e in
sua presenza qualunque essere vivente nel raggio di sei metri sembrava evaporare
– ma avevo notato le piccole cicatrici chiare che gli sciupavano il viso
e gli occhi ambrati, calmi. Si chiamava Remus Lupin ed era un tipo un po’
strano. Lo si sarebbe detto timido e chiuso, ma in quei suoi occhi riluceva
sempre una sicurezza quasi invisibile, sfrontata. Era il genere di ragazzo da
cui ti potevi aspettare sorprese inaspettate e lati ambigui.
Una
volta Severus Snape
l’aveva insultato in corridoio. Me l’aveva raccontato Julia, che aveva assistito per caso alla scena. Snape stava litigando con Potter, lo facevano in
continuazione, e Lupin era intervenuto cercando di farli calmare, col suo fare
posato.
Snape l’aveva
scrutato con disgusto.
“Sei
davvero bravo a fingerti un bravo ragazzo, sudicio…”
“Snivellus,” era intervenuto Black, con la sua voce tonante.
Si erano
guardati negli occhi per qualche istante – quei due si odiavano a morte,
lo sapevano anche le piante nelle serre - e poi Snape
aveva sbuffato sprezzante e se n’era tornato da Avery
e l’altro Black, che lo aspettavano lì accanto. E Julia e gli altri avevano ripreso a camminare verso
l’aula interrogandosi su quale sarebbe stato il tremendo epiteto che il
Serpeverde avrebbe rivolto a Lupin, se l’altro Grifondoro non
l’avesse interrotto. Non per altro, ma gli insulti di Snape
erano sempre d’effetto, e se non eri il malcapitato cui erano destinati
ti trovavi costretto ad ammettere che nella loro forbitezza erano piuttosto
divertenti, anche se orribili. Ci sapeva fare con le parole, e non solo con
quelle.
E Lupin
non era un Purosangue, come me. Anche se lui aveva almeno un genitore mago.
Non
sapevo molto altro su di lui. Non mi ero mai interessata troppo a loro, erano
semplicemente persone al di fuori della mia portata.
Tutto
questo, ad ogni modo, in quel momento non aveva importanza. Quei due ragazzi
erano l’ostacolo tra me e la libertà e io li stavo osservando con
una certa stizza dalla porta accostata.
Avevano
smesso di ridere. Poteva essere il mio momento. Poggiai la mano sulla maniglia.
“Comunque
James non aveva di certo intenzione di ferirti o che so io…”
Esitai,
mio malgrado.
James
Potter era il Caposcuola, quell’anno, ed era il terzo membro della
squadra. Ce n’era un quarto, un ragazzo grassoccio di nome Peter Minus che lo seguiva dappertutto. James era un ragazzo
vanitoso e casinista, il cui principale talento scolastico consisteva in una
straordinaria abilità nel Quidditch. Era
capitano e Cacciatore della squadra di Grifondoro e giocava divinamente. Un
paio di settimane prima di Natale aveva cominciato a uscire con l’altra
Caposcuola, Lily Evans. Lei mi era molto simpatica.
Anche lui, in realtà, per quanto potesse essermi simpatica una persona
tanto diversa da me.
Inoltre,
come tutti ben sapevano, era il migliore amico di Sirius. Avevano anche
trascorso quell’estate insieme a casa di Potter, dopo che Black aveva
lasciato la famiglia all’inizio di luglio. A quanto pareva non andava
d’accordo con i genitori e rifiutava di seguire il credo Purosangue, ma
non avevo informazioni precise in merito. Non le avevo mai chieste. Quel che sapevo
erano le voci che mi arrivavano alle orecchie mio malgrado, dal momento che
quei ragazzi erano un argomento molto in voga ad Hogwarts. Ed ora erano
lì, nell’aula accanto alla mia, e non potevo uscire senza che loro
mi vedessero. Ero in trappola.
“E’
un imbecille.”
Sembrava
che Black ce l’avesse con l’amico, e questo era piuttosto strano.
“Ma
dai…”
Lupin
pareva decisamente più moderato.
E io
continuavo a tenere la mano sulla maniglia e dirmi che dovevo premerla ed
uscire, ora, prima che iniziasse a passare troppo tempo e che la situazione mi
facesse poi apparire come se li stessi spiando, cosa che effettivamente stava
accadendo, ma non perché lo desiderassi.
Da
lì dov’ero, vedevo il bel viso corrucciato di Sirius Black
adornato da una smorfia cupa e quasi triste, e Lupin che lo guardava quasi
desolato. Presi fiato per l’ennesima volta e decisi che davvero non
potevo più rimandare. La mia presa sulla maniglia si rinserrò,
con decisione.
“Pad…”
iniziò Lupin, bonario. “Non è la fine del mondo. E’ Jamie, voglio dire, lo sai com’è fatto.”
Adesso.
Adesso, mentre Black annuiva senza convinzione.
Con un
sospiro, mi accinsi a muovermi.
E in
quel momento accadde.
Remus
Lupin sporse il busto e chinò leggermente la testa, quando bastava
perché il suo viso andasse ad affossarsi nel collo chiaro di Sirius
Black. Questi, da parte sua, sollevò le spalle e gli appoggiò
contro la tempia mentre l’altro ragazzo gli mordicchiava un tendine.
Mollai
la maniglia di scatto come se fosse stata incandescente e incespicai indietro
senza fiato, mancando per puro caso la gamba del tavolo. Dovevo essere
completamente viola e mi tremavano le mani, mi sentivo raggelata e al tempo
stesso mi pareva che mi avessero dato fuoco. Il cuore mi batteva furiosamente
perfino nella fronte e non riuscivo a respirare.
Cosa
stava succedendo in quella stanza?
Com’era
possibile? Quelli erano due ragazzi, due maschi, in atteggiamento assolutamente
ambiguo. Dovevo aver visto male, ma piuttosto che gettare una sola altra
occhiata mi sarei cavata gli occhi. Doveva essere un maledetto brutto sogno.
Mi
guardai intorno spaurita, direi quasi terrorizzata. Forse potevo calarmi dalla
finestra e scappare di lì, oppure abbattere il muro della stanza
adiacente, qualunque cosa tranne farmi scorgere dai due Grifondoro dopo quel
che avevo appena visto. Ancora faticavo a respirare, ero sconvolta.
Due
ragazzi. Due maschi.
E se
avessero cominciato a…mi tappai la bocca con la mano, trattenendo un
gemito di terrore. Dovevo andarmene da lì. Subito.
Sentii
la risatina di Lupin e un leggero tramestio.
“Il
tuo capolavoro è ancora intatto,” osservò, divertito.
“Chi
vuoi che lo cancelli… Non ci viene un’anima, qui.”
E fanno
bene, pensai istericamente.
“Quale
dei due è il cane?”
La voce
di Lupin sembrava estremamente divertita.
“Non
me lo ricordo… Credo quello a destra.”
Black
pareva quasi imbarazzato.
Il
disegno, mi resi conto, stanno parlando del disegno. Ma quelli erano due cani,
l’avevo notato poco prima.
“E’
più grosso del lupo, non ti pare un po’ strano?”
“D’altra
parte quello più piccolo ha le zanne più grosse.”
“Zanne!
Ecco cosa sono. Pensavo si trattasse di baffi.”
“Molto
divertente, Moony.”
Non
avevo idea di cosa stessero parlando, ma avevano voci assolutamente normali.
Forse, dopotutto, avevo davvero preso un abbaglio. Dovevo essere stanca per lo
studio ininterrotto e la luce bianca del sole pomeridiano mi aveva fatto un
brutto scherzo: non era una grande spiegazione ma era decisamente quella che
preferivo.
Decisi
di osare una nuova occhiata attraverso la porta. In fondo se stavano
tranquillamente chiacchierando non potevano essere immersi in altre
attività.
E non lo
erano. In compenso il braccio di Black era poggiato sulle spalle
dell’altro ragazzo, ma potevo anche decidere di interpretarlo come un
gesto affettuoso. Lo feci.
“Però,
Pad, scusami, ma la tua coda è più corta… Quella è
la coda, vero?”
Black
scoppiò di nuovo a ridere di gusto.
“Purtroppo
sì.”
Non
capivo – non ho mai capito – cosa stessero dicendo, ma il
riferimento alla “coda” con annesso doppio senso mi fece arrossire,
in quella situazione.
Ed era una
brutta situazione. Ormai era trascorso troppo tempo e non potevo più
uscire senza creare un momento decisamente troppo imbarazzante. Mi maledissi
per non essermi fatta vedere subito, quando avrei dovuto.
Poi la
mano di Lupin si sollevò. Era una mano ferma e elegante, e si
andò a posare tra le ciocche nere di Black con una delicatezza che mi
lasciò a bocca aperta. Per
un istante dimenticai il contesto in cui mi trovavo e la stranezza di quella
circostanza, osservando le sue dita che si muovevano ipnoticamente tra i
capelli dell’altro. Non avevo mai visto compiere un gesto simile con
tanto riguardo, quasi come se lui avesse avuto per le mani un oggetto
fragilissimo.
Scossi
la testa con un improvviso ritorno alla realtà.
E
continuavo a non sapere come andarmene di lì.
“Non
avercela con Jamie. Sul serio, non ha senso.”
Black
sbuffò.
“E’
che mi dà fastidio questo modo di fare. E’ fidanzato, bene. Anche
io, ma questo non significa che lo trascuri.”
Lupin
ridacchiò.
“Per
forza, visto che non gliel’abbiamo detto.”
Non so
come riuscii a trattenere un’esclamazione di sorpresa.
Quei due
ragazzi stavano insieme davvero. Non me l’ero immaginato.
E
apparentemente, se non lo sapeva nemmeno James Potter, io ero l’unica
persona al mondo ad esserne a conoscenza.
Non li
conoscevo, ma sapevo qualcosa di loro di cui nessun altro aveva consapevolezza.
Era
strano.
“Ben
gli sta. Non se lo merita.”
“Tanto
lo sa. Voglio dire, l’avrà intuito.”
“Non
sopravvalutarlo, Moony.”
Moony.
Black lo chiamava Moony, e prima avevo sentito Lupin apostrofarlo come Pad.
Dovevano essere i loro soprannomi o qualcosa del genere. Certo erano piuttosto
strani.
“Lungi
da me fare una cosa simile, ma lo sa. Fidati. O almeno sa che sta succedendo
qualcosa di strano.”
“Ce
l’avrebbe detto.”
“No,
se si aspetta che glielo diciamo noi.”
“Allora
sarà bene che si prepari ad una lunga attesa. Eterna.”
Lupin
sbuffò, rassegnato. La sua mano esitava tra i capelli di Black, leggera.
“Forse
dovrei essere geloso di James,” buttò lì, vago.
Black
sollevò le sopracciglia in un lungo sguardo perplesso.
“Per
quale motivo?”
“Perché
no? Sto ascoltando le tue lamentele a suo proposito da ore, e non è
decisamente la prima volta che occupa prepotentemente le nostre
conversazioni.”
“Non
essere idiota.”
“Io
non sono mai idiota, Pad. Questa è una tua prerogativa.”
“Sei
molto più idiota di me per averlo pensato anche solo per scherzo.”
“Ho
la faccia di uno che scherza?”
Quasi
come se l’avesse chiesto a me, sollevai uno sguardo attento sul viso di
Remus Lupin. La sua espressione era seria e austera, ma negli occhi dorati
aleggiava un inconfondibile divertimento, quasi una risata silenziosa.
“Buffone...”
borbottò Black, sogghignando.
Ero
d’accordo. Senza volere, sorrisi.
E poi
Sirius Black allungò la testa verso di lui, e prima ancora che lo avessi
capito – e meno male, perché avrei potuto urlare – stava
baciando l’altro ragazzo. Sgranai gli occhi e la faccia mi andò in
fiamme di nuovo, ma non potei distogliere lo sguardo.
Quella
è una delle immagini indelebili e nettissime che mi sono rimaste di quei
mesi strani, a distanza di anni la rivedo tale e quale, come se avessi ancora
il viso accostato alla porta e la mano appoggiata al muro freddo e slavato. Il
viso di Sirius Black che incontra quello di Remus Lupin e le loro labbra che si
allacciano, lentamente, con un’ombra di sorriso a distenderle. Si
sfiorano e poi si distanziano di pochi millimetri, si cercano di nuovo e
nuovamente si sfuggono, e così via, finché non si congiungono in
contatto più profondo, ma sempre in punta di fiato. Gli occhi sono
chiusi e le dita della mano di Sirius – aveva dita lunghe da pianista
– rasentano il contorno dello zigomo di Remus, senza quasi toccarlo,
raggiungendolo solo con i polpastrelli tesi.
E quello
che ho pensato in quel momento, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati,
senza la minima malizia, è stato che erano incantevoli. Sarà
banale, ma mi sembravano la cosa più bella che avessi mai visto. E non
perché Sirius fosse effettivamente un ragazzo da urlo e Lupin, in fondo,
non fosse da buttare via, ma perché insieme, lì seduti su quel
banco scalcagnato, erano un’altra cosa, e
dubitavo che il ragazzo sguaiato e piantagrane che tutti chiamavano Sirius
Black c’entrasse minimamente con quella scena, o che Remus Lupin, il
Prefetto, avesse a che fare con quel momento. Erano qualcos’altro, tutto
lì. E, qualunque cosa fosse, era straordinaria.
“Yoo-hoo!”
La voce
proveniva dall’esterno, dal corridoio. Li fece sussultare e scattare a
terra, mentre si avvicinava, e Lupin si gettò sulla sedia e aprì
il libro, tra l’altro al contrario, ma non se ne accorse nemmeno.
“Siete
qua?”
La testa
che poi fece capolino era quella di James Potter. Mi ritrassi per un istante,
temendo che potesse avvertire la mia presenza o cogliere il brillio delle mie
pupille.
“Ciao,
Jamie.”
Lupin
gli sorrideva cordiale. Black si era avvicinato alla lavagna e dava quasi le
spalle alla porta, ma dalla mia posizione potevo scorgere la piega rigida delle
sue labbra.
“Buongiorno,
signori. Si studia?”
“A
volte capita,” rispose Sirius, distaccato.
James
voltò uno sguardo quasi intimidito su di lui, poi lo avvicinò di
qualche passo.
“Oh,
Pad…volevo dirti… Mi dispiace per stamattina. Avevo chiesto a Peter
di farti sapere che non avrei fatto in tempo, ma se n’è
dimenticato. Toh, t’ho preso del cioccolato per rabbonirti.”
Gli porgeva
una tavoletta ancora incartata con un sorriso mezzo scherzoso, mezzo colpevole.
Non aveva nulla dello spaccone che io, come tutti, ero abituata a veder
spadroneggiare in giro per i corridoi. Era straordinariamente limpido e
trasparente.
Sirius
voltò la testa verso di lui, prima di prendere il dolce con una breve
esitazione. Si voltò di nuovo leggermente, dandomi il profilo, e fece
per parlare, ma James si era già spostato verso la lavagna e stava
disegnando qualcosa accanto ai due animali già tracciati. Un cavallo.
No, un asino. Un alce. No, era un cervo. Sì, quelle corna ramificate
erano decisamente da cervo.
Che
strani, quei tre, che disegnavano lo zoo sulla lavagna.
“Ecco.
Così va meglio,” commentò Potter soddisfatto, contemplando
la sua opera.
Una cosa
la posso dire con certezza: saranno anche stati gli idoli della scuola, ma
decisamente non erano dei portenti in campo artistico.
Sirius
sorrideva di sbieco, senza potersi trattenere. James lo guardò per
qualche secondo, speranzoso. Alla fine lui sbuffò e scrollò la
testa, poggiandogli una mano sulla spalla.
“Bene,
adesso che la pace è ristabilita possiamo andare a cena.”
Lupin si
era alzato, aveva chiuso il libro e lo teneva tra le braccia. Ancora capovolto.
Sorrideva.
Se ne
andarono tutti e tre, riprendendo a parlottare.
Aspettai
che i loro passi fossero svaniti in lontananza, quindi sgusciai fuori dalla
porta e mi avvicinai al banco sul quale i due ragazzi erano seduti fino a pochi
minuti prima. Ci passai sopra una mano, quasi come se volessi verificare di non
essermeli immaginati. Era ancora tiepido.
Mi
lasciai cadere sulla sedia con un lunghissimo sospiro, lo sguardo perso nel
vuoto. Avevo ancora il cuore in gola e la testa mi vorticava.
Impiegai
almeno dieci minuti a tornare nella stanzetta accanto e recuperare i miei
libri, per raggiungere a mia volta la tavola per la cena.
Ma ero
sicura di una cosa.
Sarei
tornata lì.