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Autore: Francine    16/08/2013    4 recensioni
Un azzurro scalzo in cielo,
il cielo matto di Marzo
e di quel nostro incontro al centro,
tu poggiata sui ginocchi
e vento di capelli sui tuoi occhi.
(Claudio Baglioni, Fotografie, 1980)

Prima pubblicazione: 19.03.2007
[ Sfida dell'anno 2010 su Anonima Autori - Premio della Critica ]
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Fotografie


Un azzurro scalzo in cielo,
il cielo matto di Marzo
e di quel nostro incontro al centro,
tu poggiata sui ginocchi
e vento di capelli sui tuoi occhi.
(Claudio Baglioni, Fotografie, 1980)



Ci sono attimi che ognuno di noi si prende per stare da solo a solo con se stesso.
Attimi che impieghiamo, magari, a chiederci se il ragazzo che incontriamo in metropolitana tutte le mattine guarda verso di noi per caso oppure no; se nostra madre la smetterà mai di organizzare cene in casa sua il cui unico scopo è quello di presentarci zitelle disperate e inacidite; se una volta pagate tutte le bollette ci resterà in tasca qualche spicciolo per mangiare o per le sigarette.
Se convenga puntare su una tassa impopolare ma redditizia, oppure scegliere una via populista ma indolore. Pensieri simili, alti o bassi che siano, spesso si ripresentano davanti a noi quando decidiamo di cedere ad essi e ci ritagliamo uno spazio in cui poter staccare la spina.
C’è chi sceglie di pensare e chi, invece, è scelto dai propri pensieri.
La protagonista di questa storia appartiene alla seconda categoria. Il suo nome non è importante, dateglielo voi, se vi garba. Scegliete pure quello che preferite, quello di vostra madre, di vostra sorella, di vostra moglie, lei non se ne avrà a male. Perché lei potrebbe essere una donna qualsiasi, magari quella alla quale dormite accanto ogni santa sera che scende su questa terra, quando voi vi rigirate dall’altra parte perché lei dorme – o finge ma voi non dite niente, né provate ad allungare più la mano – e vi lasciate andare ad un sonno ristoratore.
Ma vi siete mai chiesti perché lei faccia finta di dormire? Non vi vuole più?
Non siate ridicoli. Gli uomini ricercano sempre nel sesso la causa e la cura di tutti i mali della Terra.
Perché?
Non sarebbe più logico ipotizzare altro?
Che so?, che vostra moglie aspetti che voi dormiate per sgattaiolare in bagno, o in cucina, e ritagliarsi un momento tutto per sé, fosse anche per farsi le unghie?
Perché deve esserci sempre e comunque un uomo dietro i muri d’incomunicabilità che nascono nelle coppie collaudate?
Non potrebbe esserci una donna, e non per il motivo che pensate voi? Nel caso della protagonista di questa storia, che chiameremo Misuzu, un nome di fantasia, è proprio così. Ogni sera si corica prima del marito, ed ogni sera, dopo che lui si è voltato dall’altra parte ed è scivolato pigro tra le braccia di Morfeo, lei si alza.
Si alza e va in bagno, dove cede a quei pensieri che la tormentano durante il giorno, quando non può permettersi di correre dietro a dei fantasmi che danzano in cerchio attorno ad un puntolino nero.
La busta di plastica è sempre lì, nel cassone dell’acqua. Buffo come certe abitudini non cambino. Era lo stesso trucco che usava da ragazzina, quando nascondeva le sigarette e svicolava in bagno per fumarle.
Com’erano buone, più soddisfacenti di quelle che s’accendeva, o si faceva accendere, per strada! C’era il gusto del proibito ad accrescere quei tiri di nicotina e tabacco da quattro soldi che fumava con la finestra del bagno aperta, avendo cura di gettare il fumo all’esterno.
Ed era eccitante sentire l’adrenalina sulla pelle quando sua madre la chiamava, lei sobbalzava, si disfaceva del corpo del reato ed occultava le prove. Una spazzolata energica ai denti, un po’ di sapone sulle mani e una spruzzata di deodorante sulle tende e nell’aria e via. Sua madre non ha mai trovato quelle sigarette, anche se, a distanza di anni, lei si chiede se sapesse e non facesse piuttosto finta d’ignorare quelle prolungate sedute in bagno.
La busta di plastica è sempre lì, al riparo dall’acqua, con il puntolino nero che la guarda in due diverse fotografie. È una donna, non un uomo. Una donna che appare in due diversi momenti della sua vita, quand’era un pulcino dalle piumette nere e gli occhi grandi, e adesso, novella Biancaneve punk con gli occhi bistrati, le labbra rosse come il sangue e la pelle candida come la neve.
C’è sempre la neve, nei ricordi legati a sua figlia. Forse avrebbe dovuto chiamarla Yuki, non Nana.
Nevicava quando la mise al mondo, tre chili scarsi di urla a squarciagola e due manine rachitiche che si erano artigliate al suo dito indice con tutta la forza che avevano in corpo.
Nevicava quando lei si accorse, in un attimo di lucidità, che non riusciva ad amare quella creatura.
Nevicava anche quando lui, anni dopo, le disse “Vieni via con me”; l’abitacolo dell’auto era riscaldato, ma lei sentiva il gelo della neve stringerle il cuore in una morsa di ghiaccio.
Tuttavia, l’aveva seguito.
Aveva messo in una borsa capiente i suoi effetti personali indispensabili, qualche vestito, le sigarette e s’era lasciata quella casa alle spalle, il tetto coperto di neve e sua figlia di sette anni che la guardava sulla porta, gialla nella sera, andare via.
Lui non ha mai saputo di lei. Gli ha raccontato che la vita con sua madre, diventata matrigna per stemperare le cose, non è mai andata granché bene. Gli ha detto che aveva avuto altri uomini prima di lui, anche se, a voler essere onesti fino in fondo, l’unico che aveva conosciuto prima di suo marito, era stato il padre di sua figlia.
Ma lei è sempre stata brava a dire le bugie. Ed ecco allora comparire due uomini: il primo fidanzato che l’ha lasciata quando s’è trasferito all’università di Nagano, e il secondo, invece, che ha lasciato lei perché non voleva un uomo impostole dalla matrigna.
Non è poi andata molto lontano dalla verità: sua madre le aveva presentato un uomo da sposare per mettere in regola la sua posizione. E lei l’aveva rifiutato.
“Ma non pensi a tua figlia? Tu sei quella che sei e pazienza, ma vuoi che la bambina cresca come una poco di buono? Come te?” le aveva urlato contro sua madre, stretta nel suo kimono grigio e marrone.
Oh, se aveva rifiutato quell’uomo non l’aveva fatto perché aveva gli occhiali o camminava un po’ gobbo, ma proprio per via di sua figlia. Sposarsi avrebbe significato mettere radici, accettare quello che lei non voleva assolutamente riconoscere, quello che si sforzava di vedere come un problema superabile, prima o poi.
Bastava solo cogliere la palla al balzo e i suoi problemi sarebbero spariti. Si sarebbe lasciata alle spalle quel buco di paese in cui si sentiva soffocare, una figlia non voluta e una madre che non l’aveva mai capita, che non aveva mai compreso che se sua figlia frequentava molti uomini pur non andando a letto con ciascuno di loro, non era per libertà di costumi, ma per fame.
Misuzu era affamata: di vita, di libertà da una madre castrante e sola, e d’amore. Ecco perché quando l’amore era arrivato con l’aspetto atletico di un bel ragazzo di città, lei si era aggrappata alle sue spalle forti con tutta la disperazione di cui era capace. Di lui ricorda solo il cielo stellato oltre le sue spalle e il mare che s’infrangeva freddo contro la sua gamba a pelo dell’acqua.
Non c’erano state né lettere, né telefonate, solo un silenzio eloquente. Una storia estiva, punto. Questo a Giugno. A Luglio, sotto un caldo soffocante, era arrivata a due paesi di distanza con la corriera ed aveva acquistato un test di gravidanza. Ricorda ancora il caldo, la nausea che le dava il continuo traballare del mezzo e il suono delle cicale che le invadeva la testa mentre ritornava a casa, mentre saliva su per il viale alberato che conduceva alla sua pensione.
Sua madre aveva sempre sperato che lei sposasse il figlio dei Terashima: avrebbero unito le due pensioni e non avrebbe più avuto bisogno di spaccarsi la schiena per vivere. Invece, quella donna che vestiva sempre con un kimono dai colori mesti e smorti, e gli orli delle maniche consunti dal tempo aveva trovato il test di gravidanza due giorni dopo. E tutto perché lei non aveva avuto il coraggio di farlo subito.
Perché poi? Come se il solo acquisto di quel dispositivo medico potesse di per sé allontanare l’eventualità che stava arrotondando il suo ventre, che le faceva vomitare anche l’anima se solo sentiva l’odore del cavolo bollito e che non avrebbe potuto mantenere a lungo segreta. Ancora si stava chiedendo se recarsi ad abortire o se dare il bambino in adozione, che sua madre aveva risolto il dilemma. Era entrata come una furia nella stanza e le aveva tirato contro il test.
“Che significa?” aveva urlato isterica, e lei ricorda ancora come si fosse stupita per quella domanda idiota. Che avrebbe mai dovuto significare un test di gravidanza? Un invito ad una festa? “Abortisci! E subito!” le aveva ordinato sua madre, ed era stato allora, solo allora che lei aveva reagito. Dicendo “No.”
Non sa spiegarselo neppure lei il perché di quella ostinazione. Perché, poi? Se avesse abortito, non avrebbe dovuto nascondersi presso una zia e partorire tra facce sconosciute. Non avrebbe dovuto subire tutti i rimproveri, gli insulti e i modi freddi di sua madre, che le ripeteva, giorno dopo giorno, di non aspettarsi nulla di buono dalla bambina. E adesso non tremerebbe sapendo che il suo segreto, quello che ha sotterrato tredici anni avanti, sta per tornare a galla, rovinando la sua vita un’altra volta.
Perché loro sì e io no?, chiederebbe la ragazza una volta saputo di avere due fratellastri. E avrebbe ragione. Ma a Misuzu, adesso, non interessa dare spiegazioni a quella che sì è uscita dal suo utero, ma nei fatti è una sconosciuta. Ora c’è da difendere la sua vita, con tutta la rabbia di cui è capace.
Suo marito non sa, men che meno i suoi due figli. Che direbbe loro? “Salve, questa è la figlia che ho avuto a vent’anni, un errore di gioventù”?
Misuzu pensa che certe cose Nana le sappia da sé, altrimenti, perché non è tornata a prenderla?
Perché non ha detto nulla a suo marito?
Perché in tutti quegli anni non ha mai trovato il coraggio per cercarla, per sapere se fosse viva o morta, se non fosse scappata di casa perché esasperata da sua nonna?
Conoscendo il soggetto, Misuzu sa che sua madre deve aver trattato la nipote con maggiore severità di quella che riservava a sua figlia. Nonostante tutto, nonostante avesse cercato di tenerla a freno perché non finisse sedotta e abbandonata, com’era capitato a lei, Misuzu le aveva scodellato in casa un figlio nato fuori dal matrimonio, frutto di un preservativo bucato, dell’incoscienza di quando si hanno vent’anni, della fretta di una ragazza che voleva vivere una vita che vedeva solo riflessa oltre lo schermo di un televisore.
Fosse per lei, non vorrebbe rivedere sua figlia. Non le interessa. Quello che vuole è solo conservare di lei quella fotografia che la ritrae bambina, i capelli mossi dal vento dispettoso e il kimono dello stesso colore dei petali di ciliegio esplosi sopra la sua testa.
Non sa nemmeno perché l’abbia tenuta per tutti questi anni. Forse come scongiuro, perché la bambina non si ripresentasse? Eppure c’è stato un tempo in cui Misuzu ha pensato a sua figlia, un tempo in cui l’ha usata come scappatoia. Quand’è partita con quello che sarebbe diventato suo marito, non sapeva con esattezza a cosa andasse incontro quel treno partito in una notte in cui la neve danzava sopra la città.
Si sarebbe trovata bene?
Non si sarebbe rivelato uno di quelli che picchiano le donne quando le cose non girano per il verso giusto?
Suo figlio, quello avuto dalla prima moglie morta, avrebbe creato problemi?
E il ristorante… c’era, o si trattava di una bugia, come quelle che gli aveva raccontato lei?
Così, onde evitare sorprese, Misuzu s’era lasciata una porta aperta, e quella porta era Nana. Semmai le cose avessero preso una brutta piega, sarebbe potuta rientrare in casa di sua madre adducendo come scusa la bambina. Non sarebbe tornata perché aveva fallito, ma perché le mancava sua figlia, anche se questa scusa sarebbe suonata subito falsa alle orecchie delle due donne. Perché sia Misuzu che sua madre sapevano che era una bugia.
Dal momento preciso in cui l’ostetrica aveva fatto conoscere madre e figlia, lei aveva visto Nana come un mostro, come un demone mandatole dal Cielo per rovinarle per sempre l’esistenza. E con i mostri ci sono solo due possibilità: ucciderli, ma occorre avere sufficiente coraggio, dote questa che manca a Misuzu; oppure scappare. E lei aveva scelto questa strada, cercando con tutta se stessa qualcuno che l’avrebbe portata via da lì, via da quella vita e dai suoi sbagli passati.
Non aveva avuto il coraggio di rinunciare a quella creatura, di eliminarla con un colpo di spugna come una macchia su un vetro, e per cosa, poi?
L’aveva amata, anche un solo giorno della sua vita?
L’aveva protetta?
Era rimasta con lei, l’aveva vista diventare bambina, poi ragazza e infine donna?
No.
L’aveva scaricata, come una pianta che non s’adatta più con l’arredamento. E allora perché mai era stata così decisa in quella sua scelta irrazionale di tenere il feto nonostante tutto?
Perché?, pensa Misuzu confrontando i due visi, quello della fotografia ingiallita, e quello del ritaglio del giornale che ha sottratto dal diario di sua figlia, Misato, quella nata in una famiglia vera, quella che porta i suoi stessi ideogrammi nel nome di battesimo.
Perché?, sembra chiedergli la bambina della foto, col vento dispettoso che le rovina l’acconciatura e le fa saltar via un fermaglio a forma di farfalla.
Perché?, le domandano gli occhi neri della principessa punk con la cravatta rossa e nera al collo, e un anello di brillanti che sfavilla nella sua mano alzata. Sorride, rossa in viso, ma in quegli occhi scintilla quella domanda cui Misuzu non sa rispondere, quella stessa domanda che, è pronta a scommetterci la testa, vorrebbe tanto farle quell’uomo che da un po’ di giorni si fa vedere nel locale. Lui ha notato la somiglianza tra lei e la vocalist dei Black Stone. Vaga, certo: sua figlia ha dalla sua la giovinezza, una pelle splendida e dei visagisti che le imbrattano il viso con un maquillage così coprente che difficilmente si vedrebbe quanto siano simili, loro due. Stessa forma degli occhi, stessa forma della bocca, stessa passione per i colori forti, anni ’70, senza vie di mezzo, e per le unghie lunghe, laccate di rosso rubino. E per la stessa marca di sigarette.
Si chiede se davvero non avesse preventivato una cosa del genere. Dopo tutto, che ci vuole? Basta andare a scuola e chiedere, controllare nei registri scolastici. Dove sarà nata Nana Ozaki? In che ospedale? Chi sono i suoi genitori?
Quell’uomo è un paparazzo, lo sa. L’ha capito. Puzza di losco lontano un miglio e probabilmente, è a causa sua che sua figlia s’è fidanzata con quel chitarrista coi capelli pieni di gel e un lucchetto al collo.
Se solo Nana non fosse diventata famosa! Se solo non fosse tornata nella sua vita!
Sente le sue mani chiudersi a pugno e pronte a scattare per fare coriandoli di quelle due immagini, ma è solo un attimo.
“Mamma, sei tu in bagno?” e lei sobbalza. È Misato; solo lei la chiama “mamma”, solo lei può. Non quella ragazza che le ha portato solo disgrazie e guai.
“Mamma?! Me la sto facendo sotto!” pigola il suo pulcino e lei si alza.
“Arrivo!” risponde sistemando il suo tesoro segreto al solito posto. Scarica l’acqua, si lava le mani e si sciacqua la faccia. Come quand’era ragazza, solo che adesso c’è in ballo ben più di un paio di scapaccioni e non poter uscire per tre settimane di fila. Adesso c’è la sua vita sul piatto, un’esistenza tranquilla e perfetta che sta per venire distrutta da un paio di fotografie. Spera che in casa di sua madre non ve ne siano più, che non sia stata lei ad indirizzare quel paparazzo sulle sue tracce. Impossibile, non sa dove sono andata e non ho mai dato mie notizie in tutto questo tempo, pensa asciugandosi le mani. Spera che quell’uomo non scatti mai una foto a lei, con qualsiasi scusa, magari tramite un cellulare o di nascosto. Non ci metterebbe molto a paragonare sua figlia e lei.
Carta canta, dice il detto. Nel loro caso, urla.
Apre la porta e vede Misato in pigiama, che saltella da una gamba all’altra. Come si somigliano…
“Hai fatto? Non ne posso più?” si lamenta la ragazza stringendo le gambe.
“Perché non sei andata nel bagno del pianterreno?” le chiede con la sua aria burbera, com’era sua madre con lei, incapace di lasciarsi andare ad un gesto d’affetto. Incapace d’amare.
“Perché quello è freddo!” risponde Misato scartandola ed infilandosi in bagno.
La porta si chiude e lei si ritrova da sola con i suoi pensieri. Non può fare altro che tornarsene a letto. Chissà che ora s’è fatta, magari lui s’è svegliato e non l’ha trovata al suo fianco.
Lui dorme. Russa. E lei si accomoda al suo fianco, voltata dall’altra parte, a pensare.
Adesso come adesso è improponibile l'idea di vuotare il sacco e confessargli di aver avuto una figlia. Non dopo tutti quegli anni. Può solo sperare che la ragazza abbia il buon senso di mettere a tacere la cosa, e che quell’uomo non arrivi mai a mettere le mani sul certificato di nascita di sua figlia. E cancellare ogni traccia che la leghi a lei, prima tra tutte quella fotografia di Nana bambina.
Già, le fotografie…
Perché le tiene ancora, nonostante costituiscano una prova schiacciante?
Perché non se ne disfa?
Perché non le brucia, le riduce in cenere e le sparge nel water, come quando hanno sepolto il pesce rosso di Misato, sei anni prima?
Perché, nonostante tutto, nonostante il modo in cui si è comportata in questi anni, nonostante tutte le sue contraddizioni che cozzano contro quello che sente dentro di sé, Misuzu ama ancora sua figlia, al punto che, con o senza quelle fotografie, sente ogni santo istante quegli occhi neri, piantati nei suoi, che le chiedono “Perché?”.
È questo il suo castigo, il prezzo da pagare per aver abbandonato sua figlia?
È questo il prezzo per aver sbagliato una volta sola… o è forse la punizione per aver considerato una vita come uno sbaglio, per averla voluta e non amata, per non aver pensato a lei come ad una figlia, ma come ad un marchio, ad un tatuaggio che ha cercato di rimuovere?
O forse, si dice Misuzu prima di sprofondare nel sonno ed avere requie dai suoi pensieri, è solo il castigo per non essere capace di amare quella ragazza? Ma che colpa ne ho, io, se non riesco ad amarla?
E arriva il sonno, senza immagini. Un drappo scuro le cala davanti agli occhi della mente, mentre quel puntolino nero, intorno a cui i suoi pensieri danzano in girotondo, cresce, e diventa una bellissima ragazza con un diadema d’argento sulla testa, un collarino di pelle nera e una sola domanda negli occhi. “Perché?”
E Misuzu non riesce a sostenere quello sguardo, fisso nel suo.

Un azzurro scalzo in cielo,
il cielo matto di Marzo
e di quel nostro incontro al centro,
tu poggiata sui ginocchi
e gli occhi tuoi, per sempre nei miei occhi.

   
 
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