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Autore: Francine    17/08/2013    1 recensioni
"Show me show me show me how you do that trick
The one that makes me scream" she said
"The one that makes me laugh" she said
And threw her arms around my neck
"Show me how you do it
And I promise you I promise that
I'll run away with you
I'll run away with you"

(Just like heaven- The Cure, 1987)
Prima pubblicazione: 06.05.2011
Genere: Commedia, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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"Show me show me show me how you do that trick 
The one that makes me scream" she said 
"The one that makes me laugh" she said 
And threw her arms around my neck 
"Show me how you do it 
And I promise you I promise that 
I'll run away with you 
I'll run away with you"

 

La sua voce è per lei qualcosa di sublime. Qualcosa che le scalda il cuore quando lo sente canticchiare sotto la doccia – storpia tutte le parole, ma chi se ne importa – qualcosa che le fa toccare il cielo con un dito quando le sussurra all’orecchio il suo nome con quel tono così basso e roco che le increspa la pelle; qualcosa che le piace sentire sempre, sempre, sempre, come un gioco di prestigio ben riuscito da rivedere ancora e ancora e ancora, ma non per capire dove sia il trucco, ma soltanto per vederlo. Ancora e ancora e ancora. Anche quando litigano. E il suo accento marcato e forte, che sa di vento e sale e mare, salta fuori. E lei si diverte un mondo a provocarlo.

«Non capisco un’acca di quello che dici» è la sua battuta d’attacco, quella che da il Là all’azzuffatina, alla schermaglia verbal-amorosa in cui lui cade come un pesce nella rete e che lei dirige da maestra pronunciando ogni singola parola con quel tono freddo e distaccato che le viene così naturale e che lo manda così in bestia.

«Ah sì? Vediamo se questo lo capisci!», ribatte lui ed inanella una serie di parolacce ed insulti che lei finge di non capire quando invece conosce a menadito: significato; ordine; intonazione; pause del discorso. E finisce sempre con lui che esce, sbattendosi la porta della cucina alle spalle un attimo prima di arrivare alle bestemmie vere e proprie, e scende in spiaggia a grandi passi nervosi, le mani sprofondate nelle tasche per non cadere in tentazione e tirarle il collo.

Lei si affaccia dalla finestra della cucina, si siede sul davanzale e si gusta la scena con un bicchiere di tè freddo alla menta o un ouzo bello ghiacciato. Lui raggiunge la riva, entra in acqua fino ai polpacci e respira forte, a fondo, riempiendo i polmoni come il portabagagli di un’automobile diretta in vacanza. E la rabbia sbollisce, pian piano, fino a che lui non rammenta più perché abbia alzato la voce. O meglio, lo rammenta, ma spesso e volentieri si tratta di sciocchezze che riguardano entrambi: i calzini piegati in un modo invece che un altro; il caffè finito; lo zucchero in zollette invece che sciolto; la tavoletta del wc perennemente alzata; la carne di manzo troppo cotta; tutte cose, insomma, per cui non vale la pena farsi il sangue amaro. E si sente uno sciocco per aver perso le staffe, lui, che nella sua visione un po’ paternalistica e vecchio stampo, è perennemente convinto di doverle dare il buon esempio.

Per questo lei sorride osservando la sua schiena ampia ferma a pochi passi dalla riva, perché sa che adesso viene il bello. Adesso lui uscirà dall’acqua, la testa bassa perché immerso in profondissime elucubrazioni, e prenderà a fare avanti e indietro, come uno di quei padri da commedia americana anni Cinquanta, così smaniosi di conoscere il proprio primogenito da consumare il pavimento del corridoio davanti alla sala parto. E penserà a come trovare un modo che gli consenta di rientrare in casa senza svilire il suo orgoglio, profondo quanto i suoi occhi.

Quando lei decide che può bastare – o quando la cena è pronta senza che lui pretenda di assaggiare il sale ogni tre minuti – si affaccia da quella stessa porta per cui lui è uscito infoscato e gli grida: «A tavola, agapê mou!», dandogli una scusa per rientrare. Perché nella sua mente contorta non è lui a tornare sui suoi passi, nossignore; è lei ad averlo chiamato e ad aver sotterrato l’ascia di guerra, è lei ad aver bisogno di lui. E che razza di uomo è quello che lascia una fanciulla in ambasce?

Lo stesso uomo che da cinque giorni sembra aver perso l’uso della parola. E che coabita con lei trattandola come se fosse un fantasma.

Cos’è successo?

È successo che i nostri piccioncini stanno affrontando un litigio. Uno serio, ma non di quelli in cui ci si vomita addosso parole e grida e ci si rinfaccia a vicenda momenti poco piacevoli e uscite infelici – che spesso risalgono all’alba dei tempi, ma sono freschi come fiori d’arancio al mattino – no, no, no. Fosse così saremmo a cavallo. Fosse così si sarebbero tirati dietro tutto il possibile rivoltando la casa dall’interno ma poi avrebbero fatto pace nel solito modo, trovandosi dentro l’acqua del mare o rotolandosi sotto le lenzuola.

Invece tutto tace. Da cinque lunghi giorni. E stavolta se l’è cercata. Stavolta è lei ad essere caduta nella rete come un pesce attirato dalla lampara. Perché quando ha lanciato il sasso per la solita azzuffatina – «Non capisco un’acca di quello che dici» - ha aggiunto un po’ troppo veleno dicendo: «Potresti sforzarti di parlare un linguaggio umano?!».

«Strano», ha ribattuto lui, nel perfetto greco che si parla tra le mura del Santuario, «perché sto parlando lo stesso dialetto di Stephanos. Lui però lo capisci, vero?»

E dopo quest’affondo mortale, pronunciato con una calma olimpica che le ha regalato lunghi brividi di paura sulla schiena, si è seduto in poltrona, ha preso il giornale ed è sprofondato nella lettura senza più aprire bocca se non per: mangiare; bere; sbadigliare; lavarsi i denti. Cinque giorni così, passati ad ignorare la sua presenza. Ribaltando la situazione. Adesso è lei a lambiccarsi il cervello per trovare un modo in cui salvare capra e cavoli. Lui non le lancia alcun segnale. Resta indifferente ai suoi sguardi languidi puntati addosso, ai manicaretti golosi che gli serve in tavola e che mangia distrattamente – Se pesco l’imbecille che ha detto che la strada per il cuore di un uomo passa per il suo stomaco, lo strozzo con le sue stesse budella!, pensa lei lavando i piatti e spignattando in cucina – al suo corpo steso accanto al proprio, schiena contro schiena ma distante meno di un braccio. Braccio che lui non si decide ad allungare – e che lo faccia lei è fantascienza, anche con la luce spenta – lasciandola a fissare al buio quella parete dove le aveva promesso di montare delle mensole per i dischi. Mensole che ormai non monterà più, visto l’andazzo.

Così passano inesorabili e lentissime le ore, in un mutismo snervante; lui legge il giornale – sempre lo stesso da cinque giorni – e lei si occupa delle faccende di casa per non mettergli le mani attorno al collo e stringere, stringere, stringere… quando ricevono visite. C’è un messo del Santuario alla porta. Un ragazzetto di sedici anni, ad essere generosi, che cerca di lui. Che lo saluta con un inchino e gli porge una pergamena chiusa da una ceralacca rosso scuro.

Sento puzza di missione, pensa lei piegando un asciugamano mentre lui rompe il sigillo, legge veloce gli ordini e mormora un: «Ho capito». Restituisce la pergamena al ragazzo, indossa l’Armatura dello Scorpione con uno schiocco delle dita e gli intima: «Fai strada», uscendo di casa. E lasciando il messo nell’imbarazzo e nella confusione più genuina e lei a bocca aperta, tale e quale ad un pesce appena pescato che si chiede che fine abbia fatto tutta l’acqua in cui stava nuotando sino ad un istante prima.

Il ragazzo guarda lei, poi la porta azzurro carico, poi di nuovo lei, quindi abbozza un inchino frettoloso ed un «’giorno» a mezza bocca e lo segue fuori, lasciando la porta aperta. Porta che lei non si cura di richiudere e da cui, meno di tre minuti dopo, iniziano a sbucare bizzarri oggetti – piatti, pentole, padelle, coperchi, vasi, libri – con una traiettoria da dischi volanti sbronzi.

Stronzo!, pensa tirando fuori la valigia da sotto il letto. Avrebbe dovuto – e anche potuto, visto che muto non è – salutare. E se morisse? Se perisse in battaglia contro un nemico più potente ed abile di lui? Stava per soccombere contro Cefeo, Cefeo ricordiamolo, pensa lei ficcando in valigia le sue cose alla rinfusa: dischi, libri, la spazzola, sandali, vestiti; sì, le probabilità che sia lui ad avere la peggio sono molto basse, ma ragioniamo per assurdo anche solo un attimo ed ammettiamo che accada: sarebbe davvero disposto a morire senza averla salutata un’ultima volta, senza averle detto un ultimo «S’agapò»?

Accomodati, pensa lanciando dentro la borsa altre cose. Ma se pensi che io ti venga a salvare dalla Bocca dell’Ade, hai fatto male i tuoi conti, caro. Ti spingo di sotto a calci, piuttosto!

Ma quando appare sulla soglia di casa con i bagagli in mano, un cappello calcato in testa e ben decisa a chiudersi quella porta alle spalle per non tornare mai più, neppure se lui dovesse venirla a stanare in capo al mondo e pregarla in ginocchio di tornare da lui, sui ceci e sui cocci, i suoi occhi le mostrano un cielo nero quasi quanto il suo umore. Sta per piovere. Per piovere nel vero senso della parola, e se raggiungere Pira a piedi è difficile con i bagagli, farlo sotto l’acquazzone con le valige che minacciano di esplodere è un suicidio. Aspetterà domattina. E se lui dovesse tornare nottetempo, tanto meglio. Gli vomiterà addosso tutto ciò che pensa di lui. Litigheranno. Si azzufferanno. Si tireranno i capelli e caveranno gli occhi. Come ai bei vecchi tempi. E romperanno un silenzio assordante che rischia di farla impazzire.

Ma lui non torna. E lei scopre che quel letto, così soffice ed invitante da cui è così difficile alzarsi al mattino quando si è in due, può diventare la peggiore delle graticole ardenti se è da sola. C’è un posto ghiacciato accanto a lei, lì dove il suo peso ha scavato un impercettibile solco nel materasso. Le manca il suo calore, lui simile ad una fornace anche d’inverno, e le lenzuola le ricordano il profumo della sua pelle con studiata crudeltà. Crudele com’è lui, con il suo ostinato silenzio. E il sonno non viene a prenderla e a portarsela via, in un mondo più facile, dove lui le parla ancora, l’abbraccia e insieme contano le stelle sparse a pioggia nel cielo.



Si alza presto e aspetta l’alba, sperando che spiova. Ha la testa pesante e gli occhi gonfi. Spioverà. Non può piovere per sempre, no?, ma mentre scende la pioggia non è così facile pensare all’arcobaleno. Specialmente se continua a piovere e piovere e piovere per tutto il giorno, che lei passa ciondolando per casa, ora incollando le sedie, ora raccogliendo i cocci, ora rubacchiando qualche ora di sonno sul tavolo, le braccia a cuscino. 

Scende la notte e lei decide di fermarsi ancora fino al mattino, ma non dormirà su quel letto, nossignore. Si accoccola sulla sedia a dondolo, il suo cuscino cui aggrapparsi come un cucciolo di koala e la speranza che al mattino la musica cambi. Starà scomoda, sì, ma sempre meglio che su di un letto da fachiro, troppo grande e troppo freddo per lei da sola. E la pioggia che rimbalza sul tetto di tegole azzurre assomiglia un po’ troppo ad un basso che mette enfasi eccessiva sulla corda del MI. Sì, la musica cambierà. In un modo o nell’altro. Anche a costo di rompere tutte e quattro le corde e costringere il basso a fermarsi.



Al mattino splende il sole in un cielo azzurro e struggente e terso. Senza una nuvola. Il meltemi soffia dolce attraverso la finestra aperta e sul suo viso, ma il suo umore è sempre deciso ad impiccarsi ad un ramo di bonsai. Lui non si è fatto vivo. Silenzio radio ad oltranza. La valigia la guarda dalla soglia, accanto alla porta azzurra, a chiederle che diamine stia ancora aspettando. E lei sa che ha ragione. Ma prima vuole farsi una nuotata nel cuore dell’Egeo, nel cuore del Mediterraneo, dove l’acqua è di un blu così intenso da fare male al cuore. Non approfittarne sarebbe un vero delitto.

Ed è mentre galleggia in tutto quel blu che le si schiariscono le idee. Sì, è stato bello, ma niente dura per sempre. E pensare che loro due, insieme, potessero durare è stata una pazzia. Sarebbe sciocco insistere. Per quanto le spezzi il cuore la sola idea di andarsene, deve farlo. Avrebbe dovuto già farlo da un pezzo, non appena intuito che aria tirasse, ma può ancora eclissarsi e conservare la dignità prima che lui torni e la trovi in casa sua e le indichi la porta. Ma è così difficile staccarsi da quel piccolo microcosmo di tranquillità. Così dura che le costa davvero molto immergersi per l’ultima volta e tornare a riva, uscire dall’acqua e asciugarsi in fretta e furia. Non c’è tempo per una doccia o per fare le cose con calma. Meglio sbrigarsi, prima che ci ripensi e torni sui suoi passi, rischiando una figura assolutamente patetica.

Così risale verso casa, il pareo annodato su una spalla, dicendosi che stavolta neppure suo fratello avrebbe reagito in maniera diversa, lui che le raccomandava di pensare prima di agire e non dopo. Prima è pensare. Dopo è rimpiangere, le diceva sempre, ma anche lui, così freddo e compassato, tirava fuori un caratterino niente male quando aveva le tasche piene di qualcosa. E lei ne ha le tasche stracciate di quel suo modo assurdo di comportarsi, di quel silenzio ostinato e crudele. Avrebbe dovuto farle sentire che era vivo. Che stava bene. Che non era schiattato da qualche parte con la testa fracassata contro le rocce o caduto in mare sfracellandosi contro gli scogli.

Troppa grazia, pensa alzando per caso lo sguardo, ed è allora che lo vede. All’orizzonte, come un miraggio da deserto. Non ci sono dubbi su chi sia la figura che sta avanzando verso di lei, il sole che brilla sugli spallacci dell’armatura ed il vento che gioca coi suoi capelli e gli gonfia il mantello candido. Massì, un bello show down da film western, pensa aspettandolo sulla soglia di casa, le braccia incrociate e il pareo incollato alla pelle bagnata. Gliene canterà quattro prima di sparire per sempre dalla sua vita. L’ha voluto lui, nessun altro, pensa ben decisa a togliersi ogni sassolino dalle scarpe, anche il più piccino… ma quando i suoi occhi incontrano il suo sguardo, azzurro e profondo come il mare da cui è appena uscita, tutto il livore, la preoccupazione e la sua vena battagliera si liquefanno sotto di lei, sparendo nella sabbia assieme alle gocce d’acqua che cadono dai suoi capelli bagnati.

Non serve parlare. Un attimo prima è davanti a lei, un passo tra di loro, e l’attimo dopo la stringe fra le braccia, sussurrandole: «Quanto mi sei mancata», mentre lei gli tempesta naso, mento e mascella di baci.

«Guai a te… guai a te se mi togli di nuovo la parola », gli sussurra tra un bacio e l’altro. Nel suo dialetto che sa di sabbia e vento e mare.

Il suo sorriso si allarga da un orecchio all’altro mentre allenta un poco l’abbraccio per guardarla dritto negli occhi. « Senti, senti» le dice, lo sguardo illuminato dalla gioia di essere lì con lei e dalla soddisfazione di vederla capitolare, una volta tanto. «Non era un dialetto incomprensibile?»

«Te la stai spassando, vero?», gli domanda lei giocando con una ciocca dei suoi capelli, ma il tono è dolce. Complice. Come prima.Sì, mi arrendo. Mi arrendo. Hai vinto tu. Su tutta la linea.

«Da morire», ammette lui. Stuzzicandola. Sorridendole. Stringendola. « Ma hai bisogno di un po’ di ripetizioni…»

«Chiedo a Stephanos? O mi aiuti tu?», ribatte lei. 

«Non se ne parla nemmeno», risponde. Geloso, forse? «Ci penso io a te. Anzi, iniziamo subito. Con un corso intensivo», aggiunge mentre le sue braccia la sollevano da terra. 

Ed è così che rientrano, occhi negli occhi, con lui che richiude la porta alle loro spalle prima di planare su quel letto che no, adesso non è più troppo grande, freddo e scomodo.

 

You 
Soft and only 
You 
Lost and lonely 
You 
Just like heaven

   
 
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