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Autore: Greyheart    18/08/2013    0 recensioni
Bianca Glowfable è una bibliotecaria di vent'anni, che dopo la morte dei genitori ha dovuto imparare a gestire una casa e a crescere i due fratelli più piccoli, Leonard e James. Una la sua grande passione: raccontare storie, e dare vita alle avventure racchiuse nella sua mente. Ma quando Leonard è vittima di un tragico incidente e cade in coma, la vita sembra voler schiacciare la tranquillità della famiglia di Bianca: fino a quando uno strano uomo le offrirà un immenso patrimonio, riservato a lei proprio per il suo strano dono. Ad una sola, bizzarra condizione: che prenda in mano e riporti allo splendore il Gilded Corner, il negozio di giocattoli del suo defunto benefattore. Sarà in grado di portare a termine questo compito? E che cosa si nasconde dietro quest'inspiegabile offerta? Una storia di amore e di sofferenza, di lacrime e scoperte, ma soprattutto della più luminosa e difficile delle capacità umane: l'immaginazione.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spero davvero che questa storia vi scaldi un poco il cuore, in quest'Agosto di lenti tramonti e ultime vacanze. Sono curiosa di sapere cosa penserete della mia creatura: fatemi sapere se vale la pena di continuare.

Grazie, Greyheart


Once Upon a time


Capitolo Primo -The Storyteller



Corro. Mi sembra di star correndo da ore, il respiro mi brucia la gola, ma non mi posso fermare. Alle mie spalle, sento vagamente lo scalpiccio affrettato di James.

Ho appena visto Leonard precipitare dal tetto della nostra casa; è caduto leggero, come una bambola di pezza; quando ha colpito il marciapiede, non ha neanche fatto rumore. È solo rimasto lì, con la testa nascosta dai capelli, le braccia piegate ad un'angolazione sbagliata.

E ora non mi rimane che correre, per scoprire se la bambola di pezza si è rotta.

Resisti, fratello, penso, ti prego, resisti. Sto venendo a prenderti.

Arrivo allo spiazzo; un grappolo di passanti si è già raccolto, ed è una foresta di sussurri, grida, volti contratti dalla pietà o dalla fascinazione.

Rallento piano, senza quasi accorgermene, però nel mio volto deve esserci qualcosa di terribile e profondo, perché le persone schiudono un sentiero di fronte a me, fino al silenzio freddo in cui giace mio fratello.

Ma quello non può essere Leonard: non questa piccola cosa spezzata, questo grumo di sangue ed abiti. La testa è immobile, un lato del volto bianco e ricamato di squarci. Sento un pianto, un singhiozzare disperato che sale dalle profondità oscure dell'uomo, e mi rendo conto solo dopo di essere io.

Cado in ginocchio, cullando il capo di mio fratello, piangendo per l'orrore e la rabbia e il dolore che mi morde il petto, mentre prego un dio in cui non credo che i suoi occhi si aprano ancora.


Era una mattina chiara, uno di quei primi giorni di primavera in cui l'aria è fragrante e tiepida come un biscotto. Io non avevo il turno in biblioteca, così abbiamo organizzato un picnic sul tetto del nostro condominio: qualche panino al tonno, una tovaglia a quadri distesa sul cemento, una caraffa di limonata; un piccolo tributo alla luce che scaccia i freddi dell'inverno, una piccola sfida per ricordare al destino che, nonostante tutto quello che è successo, possiamo ancora divertirci. Un vento fresco gonfiava i tovaglioli impilati sotto i piatti.Io ero raggomitolata contro un bocchettone dell'aria, un romanzo dagli angoli arricciati posato sulle ginocchia. Poco lontano, Leonard e James giocavano alla lotta, tra i grugniti e le risate che gli uomini emettono in queste occasioni. Leonard aveva atterrato il suo avversario, e ora mi guardava, un sorriso luminoso di sole sulle labbra. A quattordici anni, mio fratello è quasi più alto di me, il corpo snello e guizzante come una cavalletta; alla luce, i suoi occhi nocciola avevano riflessi verdi, le guance arrossate dalla fatica. Io ho risposto al sorriso. -Coraggio, Bia- mi ha chiamato, agitando le mani -non startene sempre con il naso spiaccicato tra i libri. Vieni, giuro che con te combatterò con una mano sola.-

Logicamente, non gli ho creduto neppure per un attimo. -Certo, e io sono una giraffa. Sappi che non mi muoverò di qui.-

Ha sospirato. -D'accordo, se insisti..il divertimento te lo perdi tutto tu.-

Ho riso, tornando a immergermi nelle nebbie piene di segreti della Londra ottocentesca.

Con un salto, mio fratello è balzato sul cornicione, bilanciandosi con le braccia e canticchiando a mezza voce un motivetto.

Una puntura di preoccupazione. -Len, stai attento. Non vorrei raccoglierti con il cucchiaino.-

-Aah, non fare la chioccia, Bianca- ha risposto, rivolgendomi una linguaccia -non ti s'addice per niente.-

La brezza mormorava, portando l'odore di vetro e asfalto della città, il profumo denso del gelsomino nel cortile. Faccio una smorfia. -Va bene, ma tu fai attenzione comunque.-.

Un passo sul cornicione, due. -Okay, sorellona. -Un piccolo salto, una piroetta -starò bravo. Bravissimo.-

-Bene, è quello che dovrebbe dire un bravo fratel..-.

È stato un istante. Il vento ha rinforzato improvvisamente, sollevando distrattamente una lingua d'aria. Leonard oscillava, sbilanciato dal soffio. Per un attimo, per un lungo terribile attimo, ho incontrato il suo sguardo, e ho capito che questa volta non sarei riuscita a salvarlo. -No...- ho mormorato, alzandomi, il tempo torpido come un paesaggio sottomarino -...no!-

-Oh- ha mormorato mio fratello, e un istante dopo, è scomparso oltre il tetto.


Stringo la mano di Leonard, gli occhi che bruciano di lacrime. La camera è tranquilla e candida, pulita come ogni ospedale. Tende chiare pendono dalla finestra affacciata sul giardino; oltre il vetro, intravedo il verde delle prime gemme sui rami grigi degli alberi. Leonard è un guscio scarno e rotto, il volto, striato di bende e graffi, un mosaico di bianco e scarlatto: un occhio è ferito, e spicca come una rosa rossa sul pallore del viso.

È qui da tre giorni, e non si è ancora svegliato. Le dita nelle mie sono fredde e immobili, fragili come ossa d'uccello.

I medici dicono che è effetto della commozione cerebrale dovuta alla caduta, e che non si sa quando potrebbe risvegliarsi. Le loro parole sono ragionevoli e confortanti, ma gli occhi indugiano su di me un istante di troppo, la loro preoccupazione appena troppo delicata, come se temesse di far male. Sono una scrittrice, so leggere i cuori degli uomini. E so che cosa vogliono dire questi segni.

Il pensiero di perderlo non mi colpisce neanche come una paura. È piuttosto una morsa allo stomaco, come se qualcuno mi strappasse il sangue dalle vene. Non può essere, penso, non deve essere. Coraggio, Len. Ti prego, torna da me.

Senza volerlo, il desiderio di sentire la carezza ruvida di mia madre mi colpisce allo sterno, improvviso e spietato. Sono passati sei mesi dal giorno in cui ho salutato per l'ultima volta i nostri genitori, in cui ho visto la mia vita andare in frantumi e ho dovuto cominciare a raccoglierne i pezzi. Alcuni non hanno ancora trovato il loro posto; alcuni continuano a tagliarmi la pelle. Ricordo quando ero una studentessa di Storia al primo anno di college, le giornate di lezioni e scoperte, le discussioni a tavola con mio padre su ogni argomento dall'astronomia alle religioni misteriche. Se mi concentro, posso sentire ancora il profumo di rosmarino della loro camera da letto, rivedere lo sguardo agguerrito che mi fissava in quei giorni dallo specchio. Mi guardo nel riflesso del comodino di plastica accanto al letto, le trecce sfatte di capelli scuri, gli occhi troppo grandi e tenebrosi, il maglione bianco sformato. Che cosa è successo alla ragazza che credevo di essere? Come si è trasformata in questa schiva bibliotecaria dal viso segnato? Ho sempre saputo che dentro di me turbinavano ombre profonde, brividi nascosti sotto la superficie; ma finora, mia madre e mio padre avevano saputo arginarle. Da quando sono morti, quella responsabilità, che lo voglia o no, ricade sui miei fratelli, e soprattutto su Leonard. Leonard, con i suoi scherzi e il suo coraggio, la sua fiducia e la sua mente lucida, il suo sorriso capace di accogliere insieme la luce e il buio.

Ti prego, Len. Torna da me.

Il fruscio della porta che si apre mi fa sobbalzare. Mi raddrizzo, aspettandomi lo sguardo pietoso del dottore o il tondo volto buono dell'infermiera Richards; invece, scorgo un uomo alto, avviluppato in un impermeabile color cammello. Quando avanza nel bagliore del pomeriggio, scorgo un groviglio di ciocche d'argento, un paio di lenti orlate d'oro;, e gli occhi più stupefacenti che abbia mai visto, di un azzurro così denso e ricco da sfiorare l'indaco.

L'aspetto è quasi dimesso; ma in lui colgo una forza nascosta, la forza di chi ha dovuto imparare a camminare da solo su sentieri difficili. La stessa che ho iniziato a riconoscere tra le linee del mio viso.

Per un attimo, ci fissiamo in silenzio.

-Salve. Lei è la signorina Bianca Glowfable, giusto?- la sua voce è chiara e nitida come vetro.

Impiego qualche secondo a rispondere, troppo stupefatta per reagire. -S-sì, sono io. Ma lei chi è? E come ha fatto ad entrare?-.

-Molto piacere. Io sono il signor Greenhope, avvocato e amico del defunto Mister Silverbeam.- L'uomo sorride appena, forse per gentilezza, forse per divertimento.

-Io non conosco nessuno con questo nome. Chi è Mister Silverbeam?-

-Diciamo che si tratta di un suo...-si interrompe, cercando le parole adatte -...sì, di un suo collega. Un uomo piuttosto facoltoso che amava i libri e i sogni, e ha cercato per tutta la vita di realizzare i suoi e quelli degli altri.-

Mi incupisco. -Se è uno scherzo, non è affatto diverten...-

-Mi creda, signorina, nulla è più lontano dalle mie intenzioni.- replica, e la sua voce ha uno schiocco fiero che, per qualche motivo, mi piace. -Le giuro che tutto le sarà chiaro, in un tempo non remoto.-

Gli rivolgo un cenno. -Va bene, mi scusi. Ma non capisco che cosa c'entri quest'uomo con me.-

-È proprio ciò che sono venuto a spiegarle.- Scivola avanti, accomodandosi su una delle scomode sedie di plastica e accavallando le lunghe gambe. -Posso sedermi, vero?-.

-Non mi ha spiegato come è arrivato qui.-

-Vero, vero- conferma, pronto -ma ciò non ha al momento molta importanza. È assolutamente prioritario invece che le spieghi perché io sia venuto.- si ferma un istante, raddrizzando gli occhiali scivolati sul naso aquilino -Sono qui per farle una proposta. Una proposta che, nelle sue attuali condizioni, potrebbe trovare molto interessante.-

Sollevo le sopracciglia, incerta: il suo tono è caldo e deciso, e mi accarezza più di tutta la compassione del mondo. Per questo, almeno, devo stare ad ascoltarlo. -E quale sarebbe questa proposta.-

L'avvocato sospira. -Il mio cliente era disposto, per lascito testamentario, a cedere a lei la proprietà della sua casa di Willow Road e l'utile del suo patrimonio, che potrebbe facilmente soddisfare le richieste economiche dell'ospedale.In cambio, chiede solo una cosa.-

Il respiro mi si ferma nella gola; il sangue pulsa tanto forte da farmi girare la testa. Patrimonio. Proprietà. Forse sto sfiorando la soluzione a tutti i problemi.

Forse posso ancora prendermi cura di voi, ragazzi.

Deglutisco. -E quale sarebbe questa cosa?-

Greenhope congiunge le punta delle dita di fronte al volto, e i suoi occhi catturano i miei come una stretta, abbastanza lenta da lasciarmi respirare, abbastanza forte da impedirmi di fuggire. -Lei potrà avere tutto, a patto che accetti di divenire la proprietaria e riaprire il negozio di giocattoli di Mister Silverbeam-.

Sbatto le palpebre.-Un negozio di giocattoli?.-

-Il Gilded Corner, il miglior negozio di giocattoli di tutta San Francisco- la sua voce si tinge di un'ombra, sottile come carta – almeno fino a qualche anno fa.-

Abbasso il volto, massaggiandomi la fronte. Un carosello di ricordi e speranze e paure mi turbina nella testa, una giostra impazzita di colori, sussurri, promesse. E poi c'è quel richiamo, l'unico a cui abbia sempre ceduto nella mia vita, e che sa donarmi la gioia più sottile e più splendente di tutte: il richiamo di una bella storia, che mi aspetta per essere raccontata.

Prendo un respiro profondo. Devo essere razionale, per Leonard, per noi tutti. -Signore, apprezzo la generosità dell'offerta; ma, se permette, è una pura follia. Perchè un uomo tanto ricco dovrebbe lasciare tutto, compresa la gestione di un negozio, ad una bibliotecaria ventenne? Io non ho alcuna esperienza professionale, non saprei neppure da dove cominciare.-

-Eppure Mister Silverbeam ha deciso così.-

-Allora Mister Silverbeam era un pazzo.-

Il signor Greenhope annuisce, imperturbabile -è stato spesso definito così, sì. Ma ciò non cambia la mia proposta.-

-Ma perché..- ingoio le parole, tentando di concentrarmi -Bè, mi spieghi almeno perché ha scelto proprio me, tra tutte le ragazze di San Francisco.-

L'avvocato sorride, un sorriso segreto da gatto. -Lei vuole sempre capire tutto, vero, signorina Glowfable?-

-Mi è stato detto piuttosto spesso. Allora?-

Il vecchio annuisce, per nulla offeso dal mio tono. Scioglie le gambe, chinandosi verso di me, i gomiti premuti sulle ginocchia; ha mani callose, ora lo vedo, chiazzate di acidi e bruciature. -Bene, allora glielo dirò. Lei è stata scelta perché possiede un dono ormai divenuto troppo raro: sa raccontare storie.-

Per la seconda volta in mezz'ora, mi ritrovo a sbattere le palpebre, allibita. Sono parole bizzarre, ma pronunciate con una solennità da profezia, o da formula magica. Per un attimo, mi pare che l'aria risplenda di scintille d'argento.

-Perché so raccontare storie? Ma andiamo, non ha senso. Tutti sanno raccontare storie. Io lo faccio da quando ero piccola, ma di certo anche le altre perso...-.

Il signor Greenhope scuote la testa, e per la prima volta lo vedo abbandonare la sua flemma. -No, non è così. Mi creda, la sua è una capacità sempre più rara, che sta svanendo dal mondo degli uomini ad una velocità allarmante. Ormai non rimane che una manciata di raccontastorie.-

-Ma tutti gli scrittori, tutti i romanzieri...-.

Mi rivolge un sorriso triste. -Non tutti quelli che scrivono sono capaci di raccontare storie, signorina Glowfable. Io sto parlando di coloro che hanno mondi e mari racchiusi nel petto, che hanno menti popolate da centinaia di voci, che sanno infondere sangue e vita ai volti e alle avventure che premono sotto la loro pelle. Sto parlando di quelli come lei, Bianca.- tende la mano, stringendo un momento la mia – e nessuno si merita di più quest'occasione.-

Rimango così, le dita della sinistra in quelle di Leonard, quelle della destra nella presa di Greenhope. Che cosa significa questo discorso? Dovrebbe sembrarmi ridicolo; invece le parole mi crepitano nella carne, fino a risvegliare una parte di me, una parte di me che giaceva impolverata e offuscata dal tempo. Con un po' di timore e un po' di eccitazione, mi rendo conto che si tratta del mio coraggio. -Io...- balbetto -...io devo rifletterci un poco.-

L'avvocato mi lascia la mano, gentilmente. -Certo, posso capirlo. Ma mi raccomando, non ci impieghi troppo. Il testamento sarà letto tra pochi giorni, e lei avrà solo questa possibilità.-

Solo una possibilità. Una possibilità per saltare nel buio. Verso cosa? Verso il mio destino? Verso la mia rovina? Non posso saperlo. -Va bene, grazie. Come...come posso contattarla?-.

-Oh, è facile- spiega, sollevandosi in piedi con sorprendente agilità -Lei si limiti a scrivere la risposta in un foglio, e a lasciarlo sotto la porta quando sorge la luna. Del resto mi occuperò io.- si tocca la tesa del cappello -Arrivederci, signorina Glowfable.-.

Un istante dopo la porta si richiude con un fruscio, e sono di nuovo sola, nel silenzio bianco dell'ospedale. E con quel luccichio appena al di là dello sguardo.


Apro la finestra, godendo del fresco vento buio che soffia nella stanza. È sera, e ho appena cenato con James: due panini al salmone e una bottiglia di Coca Cola, ma mi conosce abbastanza da non pretendere altro. Penso a Leonard, all'espressione comicamente affranta con cui avrebbe accolto il mio magro pasto. Riesco quasi a sentirlo :-Bianca, perchè ci odi fino a questo punto?-.

Mi mordo il labbro, trattenendo le lacrime. Siamo tornati dall'ospedale per cambiarci e dormire un poco, ma non riesco a chiudere gli occhi. Non è grave: la cucina ora è così accogliente, immersa in una penombra tiepida che accarezza come un abbraccio. Sulla cerata del tavolo, un plico di buste bianche. Sono le bollette, e i primi conti dell'ospedale. Oggi ho chiamato il lavoro per chiedere un anticipo, ma è già molto se non mi hanno licenziata.

Ho appena un decimo del necessario.

Avevo molti programmi, prima dell'incidente: tinteggiare di nuovo le camere, comprare uno stereo decente, riprendere a scrivere la sera senza cadere addormentata dopo i doppi turni: tanti piccoli sogni, slavati e importanti come vecchie fotografie. Ora invece, non posso che chiedere un altro prestito, e cercare un secondo lavoro.

Oppure.

Uno scintillio attira il mio sguardo, un ricamo d'argento che trema un momento nell'aria; quando mi volto, vedo solo un foglio di carta spessa, una stilografica posata al di sopra. Ovviamente, non ricordo affatto di averli sistemati lì, né tantomeno di aver aperto la penna.

Ma se scrivere insegna qualcosa, insegna a riconoscere la saggezza delle cose, e a rispettare la trama di simboli che intesse il mondo. Piano, mi siedo al tavolo, sollevo il pennino. A lettere grandi e nervose, scrivo:”Accetto il patto. Per Leonard.” Basta, solo questo.

Piego il foglio, cercando di trattenere il tremito alle mani; raggiungo la porta e infilo l'involto sotto l'uscio, il fruscio della carta che schiocca nel corridoio come un colpo di pistola.

Ecco, ormai è fatta. La ruota gira, e non posso più fermarla.

Il giorno dopo, nella luce pallida e pastosa dell'alba, di fronte all'appartamento trovo un astuccio verde con una chiave di bronzo, e il biglietto di un indirizzo.


  
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