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Autore: becca25    19/08/2013    1 recensioni
Forse aveva solo bisogno di sapere che il suo miracolo poteva ancora avverarsi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Signs
 

http://www.youtube.com/watch?v=TooEjrCnUWw
 
Per N.
 
Two ravens in the old oak tree
And one for you and one for me
And bluebells in the late December
I see signs now all the time

 
[Due corvi nella vecchia quercia
E uno per te e uno per me
E campanule a fine dicembre
Adesso vedo segnali ogni momento]

 
 
John si rannicchiò ai piedi della lapide tremando, osservando con occhi sgranati dalla meraviglia la pietra lucida solcata da eleganti linee dorate riportanti il Suo nome..
Ma per una volta, la prima da quando si recava a far visita a quella tomba, quella del suo migliore amico, del suo amante, dell’uomo che rappresentava tutta la sua vita, non si soffermò su quel nome, ma su quell’unico fiore, una campanula candida che aveva deciso, ignorando il freddo e il gelo di dicembre, di crescere e sbocciare proprio lì, su quella lapida, la sua tra tutte.
Con mano insicura, andò a scostare la neve che in parte la copriva, sgualcendone la corolla, il respiro rotto e il cuore che gli martellava nel petto tanto forte da far quasi male.
“Non è possibile…” soffiò John, accarezzando con dita già rosse per il freddo il fiore, come fosse il più prezioso tra i tesori, il più incredibile tra i miracoli.
“Non è possibile…” ripetè con un sospiro, pensando che per forza doveva esserci una spiegazione, una motivazione che spiegasse quell’evento, perché fiori delicati come quello non potevano germogliare in pieno inverno sotto quasi un metro di neve.
Non era possibile, doveva esserci una spiegazione…
Se lui fosse qui, la saprebbe…
Si disse, ringhiando contro quella sua stessa riflessione, rabbioso, frustrato dalla sua inutilità, dalla sua incapacità di trovare un senso davanti a tutti quei fenomeni, quei segni, che da quel giorno lo perseguitavano.
“Perché?” domandò John, avvicinandosi ulteriormente alla lapide, la mano che si stringeva sopra quel fiore fino a circondarlo completamente tra le proprie dita in una stretta forte ma delicata, attenta a non rovinare la campanula.
John sollevò lo sguardo, accarezzando per un istante ciò che teneva nel palmo, quando un rumore roco lo distrasse dai propri pensieri costringendolo a voltarsi verso destra, in direzione degli abeti che dividevano orizzontalmente il cimitero.
Un corvo, anzi no, due, scavavano con i becchi affilati nella neve, alla ricerca di qualcosa da mangiare, gracchiando verso il cielo di tanto in tanto, i becchi appena schiusi, le lisce piume nere che cozzavano contro il candore che aleggiava su ogni cosa; e prima che John potesse impedirselo, l’immagine, il ricordo, dei suoi capelli corvini gli invase la mente, i suoi ricci scuri, tra cui, in inverno, la neve era solita incastrarsi, rimanendo integra per un istante, un secondo, prima di sciogliersi languidamente.
Scuotendo appena il capo, John si affrettò a distogliere lo sguardo dagli animali, puntandolo ad alcuni metri di distanza, dove la vegetazione si faceva più fitta e lì, nascosto tra i tronchi degli abeti, scorse una figura che lo stava osservando.
Un uomo, alto, longilineo, con un lungo cappotto, il colletto rialzato e folti capelli scuri.
Un uomo che lo scrutava con insistenza, un uomo che John non aveva mai visto prima al cimitero, ma che avrebbe potuto riconoscere fra tutti.
Si rimise in piedi con uno scatto fulmineo, gli occhi rapiti da quell’ombra, il cuore che batteva con rabbia nel petto e il respiro sempre più frammentato che gli si spezzava in gola.
 “Sherlock” soffiò con voce acuta, facendo un passo nella sua direzione nello stesso istante in cui la figura ne fece uno indietro e John non riuscì nemmeno a rendersene conto, che l’uomo era già sparito tra gli alberi, dissolto nel nulla, quasi fosse stato solo un ricordo, un sogno, un incubo…
Ma non lo era.
John lo sapeva, ne era sicuro, lo aveva visto, lo aveva riconosciuto! Era lui, Sherlock! Il suo amore, il suo miracolo!
E prima ancora di riflettere su come agire John si era ritrovato a correre verso il luogo dove lui si trovava, affrettandosi con tutte le sue forze, le sue energie, come se ne dipendesse della sua stessa vita, perché infondo era così, perché Sherlock era la sua vita.
E continuò a correre, lo sguardo che vagava sul terreno innevato, alla ricerca di Sherlock, la campanula, che ancora stringeva in mano, che velocemente appassiva e si sfaldava sotto quella stretta ferrea.
Aveva quasi perso le speranze, quando come un ombra lo intravide allontanarsi velocemente verso il cancello d’ingresso e subito si lanciò all’inseguimento di quell’uomo, di Sherlock, si disse, perché sapeva che era lui, lo sentiva.
Aumentando leggermente l’andatura, John seguì l’uomo fuori dal cimitero, continuando a chiamarlo con quanto fiato aveva in gola, chiedendosi perché non si fermasse, perché non volesse aspettarlo.
Ma non importava, perché sarebbe stato lui a raggiungerlo e poi non gli avrebbe mai più permesso di andarsene, di lasciarlo solo, mai, per nessun motivo…
Varcando la cancellata arrugginita, John si trovò travolto dalla folla di persone che si affrettavano lungo la via, lo sguardo che vagava disperato su ognuno di essi, il cuore che, se possibile, picchiava con maggiore insistenza nel petto e un solo pensiero nella mente…
Non posso averlo perso, non di nuovo…
 
 

The last time we slept together
There was something that was not there
You never wanted to alarm me
But I’m the one that’s drowning now

 
[L’ultima volta che abbiamo dormito insieme
C’era qualcosa che mancava
Non hai mai voluto allarmarmi
Ma sono io quello che sta affondando ora]

 
 
“John?” la voce pacata di Ella lo riportò alla realtà, facendolo sussultare, costringendolo ad incrociare i propri occhi con quelli severi di lei.
Perché ancora continuava la terapia davvero non riusciva a capirlo.
A che scopo si trovava lì? Tanto nemmeno quel giorno sarebbe riuscito a parlare, a confidarle nulla, ad essere sincero con quella donna di cui, nonostante ce la mettesse tutta, davvero non riusciva a fidarsi, almeno non abbastanza per aprire totalmente il suo cuore, non abbastanza per ammettere con lei ciò che lo turbava, ciò che lo teneva incatenato in quell’inferno in cui era precipitato, senza dargli la possibilità di andare avanti.
“John a cosa stava pensando, proprio ora?” insistette Ella sistemandosi meglio sulla propria poltrona, la penna stretta in una mano, il taccuino degli appunti nell’altra.
John li osservò, restando in silenzio, chiedendosi per un secondo cosa la donna appuntasse, dal momento che durante quegli incontri da quaranta minuti a mala pena apriva bocca.
“John, se lei si rifiuta di parlare con me, io non potrò aiutarla” insistette Ella stizzita “mi dica, lei vuole essere aiutato?” domandò dopo un secondo di esitazione e nuovamente John riportò gli occhi sui suoi, sorpreso da quella domanda.
“Cosa significa?” balbettò incredulo, stringendo appena le mani a pugno “certamente”
“Sa invece cosa credo io? Che lei stia facendo resistenza di proposito, così da impedirmi di aiutarla, così da essere sicuro di non poter star meglio”
“E perché mai dovrei fare una cosa del genere?” sbottò John con più foga di quanto avrebbe voluto, innervosendosi.
“Io credo che lei si senta responsabile per la morte del suo compagno e impedendo a me di aiutarla, punisce se stesso per quello che è accaduto”
“È una sciocchezza” replicò prontamente John, distogliendo lo sguardo per puntarlo sul giardino innevato che si intravedeva dalla finestra.
“Quindi non è stata colpa sua se Sherlock è morto? Non crede che avrebbe potuto salvarlo in qualche modo?”
“Si è gettato dal tetto di un palazzo” ringhiò John, irrigidendosi “cosa cazzo avrei potuto fare io? Prenderlo al volo?” gridò, gli occhi traboccanti di rabbia e rancore fermi in quelli imperscrutabili della donna, che rimase in silenzio, in attesa.
“Io non avrei potuto fare nulla” continuò John, respirando a fatica “non è stata colpa mia se è morto! Si è gettato da un palazzo, cosa avrei potuto fare?” ripetè, questa volta in sussurro flebile, quasi stesse parlando con se stesso.
“Cosa avrebbe potuto fare, John?” chiese in un soffio Ella, chinandosi verso il suo paziente, continuando a studiarlo finchè lui non distolse lo sguardo, gli occhi all’improvviso lucidi, il respiro spezzato; scuotendo con forza il capo, John nascose il volto tra le mani, boccheggiando nel tentativo di parlare.
“Cosa avrebbe potuto fare, John?” domandò nuovamente Ella e, questa volta, John si arrese.
Iniziò a piangere sommessamente, chinandosi in avanti sulla sedia, il capo sorretto da mani tremanti.
 “Avrei dovuto fermarlo, avrei dovuto capire ciò che voleva fare… non gli sono stato vicino quando ne ha avuto bisogno, io…” John rabbrividì “io lo sapevo, quanto fosse turbato, quanto stesse soffrendo per ciò che Moriarty gli aveva fatto, ma non sono stato capace di stargli accanto come avrei dovuto, non gli ho dato ciò di cui aveva bisogno, l’ho lasciato morire, non sono riuscito a prendermi cura di lui”
“John”
“L’ho spinto io da quel tetto…”
“John, lei non avrebbe potuto fare nulla, non è stata colpa sua se Sherlock è morto”
“Sì, invece”
“No”
“Io sapevo già da giorni” soffiò John, cercando di placare il tremore della voce e di limitare i singhiozzi “l’ultima volta che siamo stati insieme” continuò, tremando davanti a quel ricordo “era stato così diverso, qualcosa non andava, qualcosa mancava”
“E cosa ha fatto, John?”
“Io gli ho chiesto cosa lo turbasse, l’ho pregato di confidarsi con me, di parlare con me, ma lui non ha voluto…”
“Non voleva allarmarla, perché l’amava”
“No” soffiò John, riportando finalmente lo sguardo in quello della dottoressa, gli occhi umidi ma decisi “lui non si fidava di me, perché io non ero abbastanza”
“John, sa che questo non è vero”
“Invece è lei a non sapere!” scattò John, balzando in piedi “lei non lo conosceva, io sì!” ringhiò, puntando l’indice contro Ella, il volto una maschera di rabbia “lui non si è fidato di me, lui ha preferito gettarsi da un palazzo piuttosto che credere in me, ma sono io quello che ora deve affrontare tutto questo!” esclamò, allargando le braccia in un gesto ampio, indicando ciò che lo circondava “sono io quello intrappolato in questo inferno che lui ha creato!”
“John…”
“No!” tuonò John, afferrando con uno scatto la giacca che aveva abbandonato sulla poltrona, voltandosi verso l’ingresso.
“John, la seduta non è finita!” lo richiamò Ella, alzandosi dalla poltroncina su cui era seduta, ma non riuscì nemmeno a fare un passo, che l’uomo si era già richiuso la porta alle spalle.
 
Voleva tornare a casa. La sua vera casa.
 
    

I could sleep forever these days
‘Cause in my dreams I see you again
But this time fleshed out fuller faced
In your confirmation dress

 
[Potrei dormire sempre in questi giorni
Perché nei miei sogni ti rivedo
Ma questa volta arricchita con un viso più pieno
Nell’abito della Cresima]

 
 
John camminò velocemente lungo le strade affollate, il capo chino e le mani serrate in due pugni ferrei, pregando di raggiungere presto il 221B di Backer Strett, senza incontrare più nessuno.
Voleva solo un po’ di pace. Voleva solo potersene stare un po’ da solo, nella loro casa, ad aspettarlo, seduto sulla sua poltrona, l’orecchio teso per captare il rumore del portone d’ingresso che si apriva per poi essere richiuso e poi i suoi passi frettolosi sui diciassette gradini che li dividevano, il sorriso che già aveva iniziato ad increspargli le labbra nell’attesa, che poi esplodeva, suo malgrado, vedendolo.
Voleva vederlo.
John avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo rivedere, anche solo una volta, una soltanto.
Ma non dietro il volto di sconosciuti che incontrava per strada o nei strani segni che lo tormentavano, non come l’ombra sfocata che aveva scorto quella stessa mattina al cimitero, avrebbe voluto rivederlo chiaramente, poterlo sfiorare con una carezza, perdersi ad ammirarne ogni dettaglio, trattenendo il fiato, sentire ancora la sua voce, percepire nuovamente la sensazione dei suoi capelli sotto le dita, bearsi nuovamente delle sue labbra carnose premute contro le proprie, di quegli occhi così intensi, così incredibili da riuscire a mozzargli il fiato…
Dopo pochi giorni dalla sua scomparsa, John aveva scoperto che un modo per poterlo fare, per poterlo avere ancora vicino a sé esisteva.
Perché quando chiudeva gli occhi, quando si abbandonava a Morfeo, ai suoi sogni, lui tornava ad esistere e quelli erano semplicemente i momenti migliori.
Era come se il tempo si consentiva di fare un passo indietro, a prima della caduta, a prima della sua morte, per concedere loro un momento in più, ancora qualche semplice istante di quotidianità, di pura estasi, in cui perdersi e tutto tornava ad essere giusto, finalmente.
Solo loro due, insieme, ancora una volta, questa volta per sempre, i casi, i litigi, le colazioni consumate insieme, gli inseguimenti per Londra, le gambe incrociate sotto il tavolo, gli omicidi, le serate trascorse nella pace di Backer Street e quelle fatte di sangue, sparatorie e polizia.
E poi le carezze regalate fra le lenzuola, i baci rubati, i sospiri, i gemiti e l’amore…
L’amore che ancora li univa, che mai avrebbe potuto essere spezzato, che nemmeno la morte era riuscito a scalfire e che risorgeva per John ogni qual volta chiudeva gli occhi, desiderando di sentirlo di nuovo al suo fianco.
Perché nei suoi sogni, non c’era il tetto del Barts, non c’erano tuffi nel vuoto, biglietti d’addio, parole sbagliate che non avrebbe mai voluto sentire e volti diafani tinti di cremisi.
Capelli neri bagnati di sangue.
Labbra schiuse senza più respiro.
E quegli occhi, quegli occhi così intensi, così incredibili che un tempo riuscivano a mozzargli il fiato, vuoti, spettrali, senza vita.
Ed era stato buffo per uno come lui, abituato da sempre a combattere contro incubi orribili, riuscire a trovare un po’ di pace solo con durante sonno, riuscire a sentirsi di nuovo vivo, solo dopo aver abbandonato la propria coscienza.
Ma forse quella volta era diverso, i suoi sogni erano diversi, solo perché la realtà era divenuta l’incubo che doveva essere combattuto.
 
 
 

It was so like you to visit me
To let me know you were ok
It was so like you to visit me
Always worried about someone else

[Era come se mi facessi visita
Per farmi sapere che stavi bene
Era come se mi facessi visita
Sempre preoccupata per qualcun altro]

 
 
Quando John raggiunse Backer Strett, ringraziò il cielo di non trovarvi Mrs Hudson.
Non che non la volesse vedere, ma semplicemente era troppo stanco per farlo.
In realtà, da quel giorno, era troppo stanco di vedere chiunque. Perché non erano mai gli occhi giusti quelli che incrociava con i suoi, non era mai la voce che voleva sentire quella che gli parlava, le mani che tanto agognava, quelle che confortanti lo sfioravano.
Con cautela, John iniziò a salire i diciassette gradini che lo separavano dal suo, dal loro, appartamento, come già mille volte aveva fatto in precedenza, facendosi titubante solo qualche secondo, prima di decidersi a girare la chiave nella toppa della porta d’ingresso ed entrare.
Immediatamente, una sensazione di nostalgia lo invase, una strana e malinconica pace che lo fece rabbrividire, mentre spostava lo sguardo su quella casa, dove tutto era iniziato, ancora uguale ad un tempo, ancora sistemata come quando loro ci vivevano, nulla era cambiato, niente era stato toccato, come se il tempo lì dentro si fosse fermato a quel giorno, sotto uno spesso strato di polvere, come se quel luogo stesse solo attendendo il ritorno dei suoi proprietari, prima di poter riprendere a vivere.
Esattamente come lui.
Sospeso in un limbo senza tempo, in eterna attesa solo del Suo ritorno.
E John più volte, durante i suoi sogni, aveva pregato Sherlock di tornare, questa volta per sempre, di restituirgli nuovamente la vita, perché davvero era stanco di restare sospeso in quel limbo, davvero desiderava ricominciare a respirare, a vedere, a parlare, a vivere.
E Sherlock glielo aveva promesso; gli aveva detto che un giorno sarebbe stato di nuovo al suo fianco, con lui, ma ci voleva il suo tempo, perché ora si stava occupando della sua sicurezza, per lui soltanto, come sempre aveva fatto, per la loro realtà, per la loro vita…
“Non è vero, Sherlock” sospirò John con voce rotta, richiudendo l’ingresso alle proprie spalle “tu non ti sei mai preoccupato di nessuno al di fuori di te stesso…”
 
 

At your funeral, I was so upset
So, so upset
In your life you were larger than this
Statuesque

 
[Al tuo funerale, ero così sconvolto
Così, così sconvolto
In vita eri più grande di così
Statuaria]

 

 
Non era la prima volta che tornava.
In quell’appartamento, in quella stanza, in quel letto.
Più volte si era rifugiato in quel nido, lontano da tutti, lontano dal mondo, lontano dalla sua vita.
Se poi si poteva ancora definire tale.
Semplicemente, si abbandonava su quel letto rifatto, sedendosi sopra le coperte beige, sistemando la schiena sulla testiera, lo sguardo rivolto davanti a sé, a quella stanza ancora ammobiliata, ancora con i suoi oggetti, con i suoi vestiti, gli occhi rivolti alla finestra chiusa, la mente ferma a un solo pensiero.
Sherlock.
E quel giorno non era differente dagli altri.
Con cautela, socchiuse l’ingresso della camera, come a voler controllare che non ci fosse nessuno, che non ci fosse lui, magari intento a dormire o a prepararsi, prima di dirigersi a passo sicuro verso il suo letto, sedendosi sopra con attenzione, rendendosi conto, all’improvviso, che era dal giorno del suo funerale che non tornava in quel luogo.
Il suo funerale…
Lo ricordava con tanta chiarezza che sarebbero potute essere trascorse solo poche ore dalla fine della cerimonia.
Certamente non mesi.
John ricordava tutto e niente.
Ricordava di essersi trovato al cimitero senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato, ricordava i volti tristi e sofferenti delle poche persone che gli stavano vicino, anche se non era riuscito a riconoscere nessuno di loro, gli sembravano tutti sconosciuti e per un attimo si era chiesto se fosse nel posto giusto, se era quello il funerale del suo migliore amico, del suo amore, non capendo perché intorno a lui ci fossero solo ombre senza volto, estranei che lo scrutavano con tristezza, con malinconia.
Non ricordava nemmeno Mrs Hudson; lei doveva esserci, di sicuro si era presentata al suo funerale, di certo era lì, da qualche parte e dovevano esserci anche Mycroft, Lestrade, forse Molly, eppure, se anche erano presenti lui non era riusciti a vederli.
E poi, semplicemente, aveva smesso di cercarli, aveva smesso di preoccuparsi e di farsi domande,  quando i suoi occhi avevano incrociato la lucida bara di legno scuro che troneggiava davanti a lui, semplicemente aveva smesso di pensare.
E tutto, ogni cosa, ogni persona, ogni particolare della realtà che lo circondava si era dissolta, lasciandolo solo con quella bara.
Niente Mycroft, Lestrade o Mrs Hudson, niente realtà a circondarlo, niente alberi, prato, sole, terra o aria, semplicemente lui, Sherlock.
Ma quella volta qualcosa era differente, quella volta qualcosa non andava, perché Sherlock era morto ed il suo cadavere era dentro quella cassa che lentamente stavano facendo calare nella terra e all’improvviso, l’intera mente di John venne invasa da un solo pensiero, da una sola domanda.
Non poteva essere vero! Come avrebbe potuto? Come poteva Sherlock, il suo Sherlock, la sua aria, la sua terra, il suo cielo, la sua ragione di vita, il suo mondo, essere dentro quella bara?
 Come si potevano fare entrare un intero mondo in una bara?
 
 

I see signs now all the time
That you’re not dead, you’re sleeping
I believe in anything that brings you back home to me

 
[Adesso vedo segni ogni momento
Che tu non sei morta, stai dormendo
Credo in qualunque cosa ti riporti a casa da me]

 

E così com’era arrivato, John si alzò nuovamente, con un sospiro, senza alcuna espressione, alcun sentimento sul volto, negli occhi.
Con sicurezza lisciò le coperte, passandoci sopra diverse volte le mani, tirandole con decisione ai bordi per eliminare ogni piega, deciso a sistemarlo in modo perfetto per quando sarebbe tornato.
Si fermò solo quando fu certo di averlo rifatto alla perfezione e rivolgendo un’ultima occhiata nostalgica a quel luogo, si avvicinò alla porta.
Aveva appena poggiato la mano sulla maniglia, quando il suo sguardo fu catturato dal violino di Sherlock, abbandonato ai piedi della scrivania.
Aggrottando la fronte gli si avvicinò, osservandolo con attenzione e serietà, dicendosi che non era lì che doveva stare, che non era lì che lo aveva sistemato quasi tre mesi prima.
“Forse è stata Mrs Hudson” si disse con incertezza, allungando le dita fino a sfiorarne la superficie liscia e fredda, scartando quella conclusione con un gesto del capo.
Non era possibile, lei non lo avrebbe mai fatto, lei non lo avrebbe mai toccato.
Ma allora, chi…?
E in un secondo John era alla finestra, affacciato sulla strada affollata di Backer Strett, lo sguardo che si spostava su ogni passante, su ogni persona, perché da qualche parte doveva esserci anche lui!
Era stato lui, John lo sapeva, ne era certo! Lui si era introdotto in quella stanza, nella sua stanza e aveva spostato il violino. Forse lo aveva suonato, magari aveva solo carezzato le corde per non farsi sentire e poi lo aveva dimenticato lì.
No, non dimenticato; Sherlock non avrebbe mai fatto un passo falso del genere, era troppo furbo, troppo attento. Lo aveva lasciato lì di proposito, come indizio, come segno.
Un segno per lui, per fargli sapere che lui era ancora lì, al suo fianco, vivo.
Era davvero possibile, vero?
John rimase affacciato a quella finestra per lunghi minuti ancora, ignorando l’ombra che si nascondeva tra le pieghe delle spesse tende nell’appartamento di fronte, decidendosi a ritirarsi solo quando percepì il cuore calmarsi, il respiro farsi più regolare e l’adrenalina che lo aveva animato solo pochi minuti prima, scemare. Una nuova domanda, anzi antica, a tormentarlo.
Era davvero possibile?
Era plausibile che fosse stato Sherlock? Era pensabile che tutti quei segni che vedeva di continuo durante il giorno fossero opera sua? Oppure, voleva solo crederci?
Credere a qualunque cosa lo avrebbe riporto a casa da lui, credere in ogni gesto, in ogni segno che gli permetteva di illudersi ancora, di immaginarlo di nuovo vivo, vivo accanto a lui, come un tempo, come prima.
Forse aveva solo bisogno di sapere che il suo miracolo poteva ancora avverarsi.
“Ricordi Sherlock?” bisbigliò John, rivolto alla strada, a nessuno in particolare, a una sola persona fra tutte “un ultima richiesta, un ultimo miracolo Sherlock, per me….

… Non essere morto”. 

  
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