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Autore: elisa27_99    19/08/2013    0 recensioni
"E se ci fosse anche per me, il lieto fine? Se ad un bel momento comparisse un punto alla mia storia e tutto potesse filare liscio... per sempre?" pensieri come questi fluivano liberi nella sua mente nascondendo e spesso oscurando quelli tristi e quelli felici, lasciando posto al dubbio del mistero, all'angoscia della paura. Quel «per sempre» a volte riecheggiava tutta la notte nella sua testa, insinuandosi nei sogni e trasformandoli in incubi.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era piccola, invisibile. Sarebbe potuta passare per una foglia se si fosse sdraiata a terra. Era semplice, trascurabile. Avrebbe potuto non parlare per giorni, nascondersi al polo nord e nessuno si sarebbe accorto della sua mancanza.
A scuola sembrava andare tutto male. Nonostante i bei voti e i buoni amici qualcosa nella sua vita mancava. Si guardava intorno e si sentiva fuori luogo, catturata da una sensazione di smarrimento. Era come se le sue gambe potessero prendere vita e portarla in un qualche luogo lontano, chissà dove. Lottava contro questa sua irrefrenabile voglia di scappare, fuggire e ritirarsi per sempre. Più che spesso avrebbe voluto scomparire, rifugiarsi sotto il mantello dell'invisibilità di Harry Potter e dimenticarsi di tutto il resto. Oh, si, le sarebbe piaciuto entrare in uno di quei fantasy che tanto amava e leggeva, immettersi in quei mondi fantastici, fuggire tra le mille parole di qualche favola e sapere che sempre e comunque la fine arriverà, i malintesi saranno risolti e i dispiaceri si frantumeranno dietro i baci del principe azzurro o sotto il mantello di un supereroe. "e se ci fosse anche per me, il lieto fine? Se ad un bel momento comparisse un punto alla mia storia e tutto potesse filare liscio... per sempre?" pensieri come questi fluivano liberi nella sua mente nascondendo e spesso oscurando quelli tristi e quelli felici, lasciando posto al dubbio del mistero, all'angoscia della paura. Quel «per sempre» a volte riecheggiava tutta la notte nella sua testa, insinuandosi nei sogni e trasformandoli in incubi.

Aprì gli occhi dopo 7 ore e mezza di sonno tormentato. I sensi inebriati e i muscoli stirati le impedirono di scattare in piedi. Una nebbia grigio intenso sfumò nei sui occhi fino a mettere a fuoco un piccolo lampadario pendente che le sembrò potersi staccare dal soffitto e caderle addosso. Era così che si sentiva, pensò, come se i tanti piccoli vetri che lo adornavano e penzolavano sotto la lampadina le si fossero conficcati nella pelle. Le pareti verdi le fecero venire il voltastomaco e tutto sembrò rimpicciolirsi con la stanza stessa e girarle intorno in un vortice di oggetti d'arredamento di cattivo gusto, con i muri che parevano schiacciarla nel suo scomodo materasso sotto i mille piumoni.
Con grande sforzo si portò una mano alla testa e si massaggiò la fronte, corrugando e distendendo profonde rughe. La sua mente sembrava ricoperta di uno strato di ghiaccio ed una morsa di gelido freddo le ricopriva i pensieri. Per non parlare della memoria che sembrava non essere mai esistita ed ogni tentativo di riferimento a momenti passati sembrava fallire. Arricciò il naso due o tre volte. Fuoco. Odore di bruciato.
«Oh!» dal bagno uscì un sussulto «la pancetta!»
«Terryyyyyy, cos'è questo odore?»
«Tutto a posto maaaaaamma!»
Sembravano parlarsi da due capi opposti del mondo, invadendo ogni stanza della casa con le loro grida. Agata avrebbe voluto gridare loro di stare zitte, ma anche la sua voce sembrava essere scomparsa. Piano piano si tirò in piedi, desiderando di avere uno di quei bastoni del nonno che la supportasse. Sentì i muscoli delle gambe chiedere pietà quando fece un passo, i muscoli che si stiravano in una spinta di dolore. I piedi ancora addormentati diedero al suo portamento un aria da andicappata mentre attraversava le stanze della villetta tenendo le mani e a volte la testa appoggiate al muro. Passate le scale e dopo un viaggio che sembrò infinito arrivò finalmente nel soggiorno. Seduta al tavolo apparecchiato con tazze, cucchiaini, teiere e biscotti c'era sua sorella Terry, mentre sua madre Annie trafficava con stoviglie e spugne nel cucinotto.
«Ah. Eccoti finalmente» annunciò quasi scocciata Annie vedendola arrivare, tutta stordita.
«Che ore sono?» balbettò Agata passandosi una mano nei capelli arruffati.
«Le 11 e 40»
Agata cercò di elaborare l'informazione. Le ci volle un po', per comprendere che era tardi. «E voi da quanto siete sveglie?»
«Abbastanza da aver già fatto colazione, un po' di spesa e portato fuori la spazzatura», rispose Annie. Fece una pausa, lasciò nel lavello le pentole e si diresse verso Agata con uno sguardo di rimprovero. «Due sacchi pieni di tutte le mie bottiglie di vino e qualche birra di Joe vuote, più molti sacchetti di patatine e cartoni della pizza.»
Agata abbassò lo sguardo cercando di tenere a freno i vaghi lampi di ricordi della sera prima che ora cominciavano ad affiorare. Saltavano a galla e le causavano un gran mal di testa. Ad un tratto si sentì pervadere da un gran senso di colpa. «Mi dispiace» mormorò prendendo posto a tavola, sbilanciandosi nel sedersi.
«insomma si può sapere cos'è successo?» Terry alzò finalmente gli occhi dall'unghia che stava accuratamente limando.
Non aveva voglia di rispondere. Sentiva già nella sua mente i commenti e i rimproveri di entrambe. "Che idiota!", "ma sei impazzita?", "sei proprio un'irresponsabile.", "cosa credevi di fare?"... No, avrebbe mangiato, mettendo a fuoco le immagini e scegliendo accuratamente le parole, poi avrebbe parlato. «Ho molta fame.»
«Sì, sì, mangia, mangia.» disse la sorella sbattendole il cartone del latte davanti al naso. E così tornò al suo intenso lavoro di manicure.
Agata impucciò svogliatamente qualche biscotto nel latte ed infine bevve gli ultimi rimasugli di quella poltiglia, desiderando un po' di alcol da mischiarci dentro. Sprofondò la testa nelle mani cercando invano di tenere aperti gli occhi.

«Insomma?...» Terry la guardava, in attesa.
Agata sbuffò. «Avevo chiamato Berry ed Eva»
«Ma c'era anche quel ragazzo, Pete, quando sono tornata» intervenne la madre.
Pete. Si era completamente dimenticata di lui, ma face finta di averlo sempre saputo. «Un attimo». Era esausta. «Le avevo chiamate per invitarle da me, dato che non avevo passato una giornata molto tranquilla e avevo voglia di stare con le mie amiche. Ma ho scoperto che lo stesso era stato per loro. Quando ci siamo accorte di starci deprimendo a vicenda, abbiamo deciso che ci serviva una persona sana tra di noi ed Eva ha chiamato il suo amico. La situazione ci è sfuggita quando qualcuno di loro ha trovato il vino e poi abbiamo guardando un film alzando un po' il gomito. Tutto qui.» Aveva deciso di tagliare un po' di parti, per sdrammatizzare, ma in questo momento ricordava tutto. Almeno, le parti importanti.
«Mmh.» Annie non sembrava convinta.
Il campanello suonò, con due piccoli squilli che nella testa di Agata si amplificarono fino a rimbombarle nelle vene. Non riuscì a pensare per qualche secondo.
«Vado io.» disse Annie alzandosi. Con quel vestito estivo aveva un'aria davvero giovanile.
Dall'ingresso sentì una voce maschile, ma non riuscì a distinguere nessuna parola. Probabilmente se fosse stata sobria avrebbe capito tutto il discorso. Si rendeva conto solo ora di quanti sbagli aveva commesso in un'unica serata. Annie tornò in soggiorno con in mano una pila di lettere e volantini.
«Era il postino», spiegò.
«Quel tipo lì ha proprio una gran bella cotta per te mamma» ridacchiò Terry, facendola arrossire.
«Smettila Terry, è venuto dentro solo perché aveva un messaggio da Peter per te», posò le carte sul tavolo, sparpagliandole sulla tovaglia.
«Dice che vorrebbe vederti in biblioteca alle 3 e 20 e che ti ama.» Mamma sorrise.
«Non è dolcissimo?» Terry sbattè più volte le ciglia, guardando verso l'alto. Era davvero dolce, pensò Agata. Le piaceva Peter, anche se spesso trovava disgustoso vedere come amoreggiava con sua sorella. Cominciavano a formicolarle le mani quando si baciavano, come tanti piccoli pizzicotti. Lei lo chiavava 'imbarazzo', quando le chiedevano cosa non andava, vedendola salire in camera facendo gli scalini due a due. Ma lei per prima sapeva cos'era. Apriva il suo quaderno ad anelle di Dragon Ball e cominciava a scarabocchiare un'altra pagina: sul foglio a righe, prendevano vita mille parole accompagnate da diversi scarabocchi. I teschi e i cuoricini spesso si trovavano a combattere una guerra ad esclusione di colpi per impossessarsi della maggioranza sul foglio. Alla fine si sdraiava sul letto, sfinita, il corpo ancora indolenzito per la gelosia.
«Sarà meglio che tu ti metta subito a ripulire la casa, cara» disse la madre diretta verso Agata, agitando un dito nell'aria. La prese per un braccio e l'accompagnò nel salotto. Oddio. Annie sentì le braccia della secondogenita cadere e sprofondare in un mare di delusione.
«Ma mamma...»
«Niente ma. Cominciare a tirar su da terra le cartacce, signorinella.»
Agata strattonò il braccio e si divincolò dalla sua presa. Si guardò intorno ruotando su se stessa. Oddio. Si avvicinò al divano e passò un dito sullo strappo che si era formato. Dal buco grosso quanto un pugno si poteva osservare la spugna gialla che lo imbottiva. Raggiunse il comodino dal capo opposto del divano, su cui solitamente si trovava la lampada africana. Ora poteva osservarne un pezzo ai suoi piedi e l'altro davanti alla tv. Infine, raccolse la lampadina caduta sul cuscino della poltrona. Cominciò a montare ogni pezzo, sollevata dal fatto che nulla fosse gravemente rotto. Finito il lavoro, rimise la bajaur al suo posto. Si gettò a sedere.
«Non così in fretta cara.» Annie agitò un dito e chiuse gli occhi scuotendo la testa. «Il lavoro è molto lungo.» Tese verso Agata scopa, spolverino e straccio. Agata si alzò sempre più svogliatamente e li prese con uno strattone. «Ah, giusto.» Tornò nel cucinotto ed estrasse un grosso sacco della spazzatura scuro che lasciò su un tavolino, accanto al vaso di fiori che ora si trovava riverso sul marmo freddo. «A te tutto il lavoro.» E detto questo si dileguò lasciando Agata sola in quel salotto simile ad una discarica.
Furono ore di duro lavoro quelle che seguirono. Cominciò a tirare su ogni cartaccia e rimasuglio di pizza e a gettarli nel sacco, il quale li inghiottiva trasportandoli nel suo tunnel di spazzatura che pareva poter contenere un camion. Le faceva male la schiena ed aveva dal gomito alle punte delle dita sporco di cibo. Seguirono momenti di tensione in cui tirando su gli oggetti caduti sperava che nulla si fosse rotto o rovinato. Non che le importasse molto dell'arredamento di quella casa, ma sapeva che i soldi delle riparazioni li avrebbe scuciti lei. Passò lo straccio qua e là, immergendo di volta in volta gli oggetti nei lunghi peli dello spolverino.
All'una e 47 poteva dire di aver finito il lavoro. Sbuffò, dirigendosi in soggiorno. Il tavolo ora aveva tutt'un altro aspetto: le tazzine e i cucchiaini avevano ceduto il posto a piatti e forchette, i biscotti e le merendine a pasta e cotolette. I piatti di Terry ed Annie erano già stati svuotati ed ora ospitavano briciole e resti di carne.
«Finalmente! Allora hai finito?» disse Annie fissandola.
«Si mamma.» Non la guardò neanche negli occhi ed il suo tono sconsolato si disperse nell'aria tramutandolo in un sussurro. «Cosa c'è da mangiare?»
«Pasta al pesto con cotolette e purè. Spero non ti dispiaccia se non ti abbiamo aspettato.»
'Perché avrebbero dovuto pensare a me?' pensò Agata. «No» il suo tono freddo strisciò nell'aria fino ad insinuarsi nelle orecchie di Annie.
«Mi dispiace tesoro. Devo uscire tra poco e vado a cambiarmi. Scusami se non posso farti compagnia. Quando torno parleremo meglio di quello che è successo ieri, okay?»
Non era okay. «D'accordo mamma.»
«Ciao a tutti, ci vediaaaaaamo!» saltò su Terry, agitando la chiavi e chiudendosi la porta alle spalle.
Agata mangiò in fretta e non finì neppure ciò che aveva nel piatto: aspettò che la casa si svuotasse per sparecchiare e chiudersi in camera sua. Doveva uscire. Doveva vederlo. Gli mancava da morire e non riusciva più a non pensargli, a chiudere gli occhi e non sognarlo, ad uscire e non cercarlo.
Il cuore prendeva a battergli vorticosamente ogni volta che lo trovava in linea su Facebook. "Scrivimi, ti prego, salutami, fa qualcosa" pensava. Una fitta allo stomaco costante tormentava i suoi pensieri quando decideva di dare uno sguardo al passato: apriva la sua chat e navigava tra i vecchi messaggi, di quel periodo così bello della sua vita. Scorreva, scorreva, scorreva, fino a quando il dito cominciava a pulsarle freneticamente. La faceva stare male, ma allo stesso tempo la faceva stare bene.
Si alzò dal letto. Sapeva di non doverlo fare ma si guardò allo specchio. Osservò il viso. Due occhi terribilmente sproporzionati al resto del corpo la fissavano, spalancati, mostrando una pupilla completamente nera che pareva quella di un vampiro. La scrutarono per un po' poi passarono al naso che nella sua mediocrità lasciava parlare le mille imperfezioni. Oh, quanto avrebbe voluto spremerselo fino a far scomparire ogni singolo punto nero! Aprì la bocca in un sorriso maligno. I denti sporgenti credette potessero uscire dallo specchio e rigare il vetro. Voleva piangere. Continuava a fissare quella faccina scarna ed esile, smorta. Dove avrebbero dovuto esserci due belle gote rosse giovani prendevano posizione profonde fosse rientranti che le risucchiarono tutta la bellezza. Era a mezzo passo dallo specchio. I capelli rossi, unti, lunghi e lisci le rigarono il volto quando inclinò il capo. E pensare che lei aveva sempre desiderato i capelli d'un biondo quasi bianco, mossi o anche ricci spumeggianti. Come Cenerentola. In quell'istante avrebbe voluto strapparsi ogni capello. Tirare corda per corda i suoi capelli e rimanere pelata. Non voleva andare oltre. Non voleva abbassare lo sguardo e fissare per l'ennesima volta quel corpo gobbo, ricurvo e striminzito, piatto ed esile come un rametto facilmente spezzabile.
Sospirò, sul punto di scoppiare in una crisi isterica.
Si infilò nei soliti vestiti da bambina che aveva dalla 5ª elementare e si truccò lievemente notando che la matita nera sotto gli occhi non faceva che ingigantirli mostruosamente, dandogli un'aria da pagliaccio maniaco. Sospirò nuovamente, sull'orlo di un precipizio di depressione. Non si sentiva affatto bene.
Scese le scale inciampando varie volte sulle sue scarpe col piccolo tacco. La cinghia sul tallone le stritolava terribilmente la carne, stringendosi al piede in una morsa di dolore e facendo spuntare tagliettini e vescichine. Ma non le importava, o almeno, non poteva importarle perché era il suo unico paio di scarpe decenti. Con molta fatica raggiunse la porta davanti alla quale il suo bel gattino la attendeva. Strofinò varie volte il dorso della mano in cui teneva le chiavi sulla testina del micio che ricambiò l'affetto con fusa e miagolii di gioia. Lo prese in braccio. Un vero, dolce, sincero sorriso si aprì gradualmente sul suo volto. In quel momento sapeva che l'unica cosa davvero in grado di farla felice era il suo gatto.
  
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