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Autore: Rebs Herondale    19/08/2013    1 recensioni
Isabella ed Emmett sono i gemelli Swan, appena tornati nella loro città natale: Chicago."Ancora non posso credere di essere qui!...Mi fa un certo effetto totnare nella Windy City dopo tutto questo tempo. Dopo tutto quello che è successo...". La morte di una persona cara li aveva costretti ad andarsene, ma il destino ha deciso di farli tornare dove tutto è cominciato, dove finalmente potranno ricominciare.
Sarà proprio a Chicago che i due fratelli potranno trovare il modo di continuare la loro passione: il basket.
"...quando giocavamo, quello che avevamo intorno spariva, il tempo era irrilevante, c'eravamo solo noi e la palla."Sarà sul campo che faranno gli incontri che li cambieranno la vita.
"Era troppo lontano perchè potessi distinguerlo, ma una cosa la vedevo benissimo. I suoi occhi verdi, tanto profondi che avrei potuto annegarci..."
Ma tutto ha una prezzo,e se il destino gli aveva fatto un favore, ora era tempo di riscuotere.
Litigi. Incomprensioni. Sorprese.
Può la passione per uno sport unire due persone?
Questa è la mia prima storia, spero vi piaccia.
I pesonaggi non sono miei ma di Stephenie Meyer. La storia non è scritta a scopo di lucro.
Rebs
Genere: Romantico, Sentimentale, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Un po' tutti | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Emmett/Rosalie
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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IO e TE.
         DUE CUORI.
  Una
        PASSIONE.



1.A NEW BEGINNING
Scesi dall’auto e non appena misi i piedi sul marciapiedi venni investita da una folata di vento.
Chiusi gli occhi e inspirai profondamente, sorridendo, mentre venivo invasa dai rumori caotici tipici delle grandi città.
Mi chiamo Isabella Swan, ho diciassette anni e mi sono appena trasferita con la mia famiglia a Chicago, dopo essere stati a New York. Ancora non posso credere di essere qui!
Non fraintendetemi, l’emozione non è tanto per l’essermi ritrovata in una nuova città, a quello ci sono abituata. Il mio entusiasmo è tutto per il fatto che sono di nuovo nella Windy City. La città in cui sono nata, piena dei miei primi ricordi. Insomma, mi fa un certo effetto tornarci dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che è successo.
Poi, Chicago è la patria dei miei grandi idoli: i Chicago Bulls…
-Allora, cosa ne pensate?- la voce di mia madre mi riportò alla realtà e mi tolse, spero, la faccia da ebete che, di sicuro, avevo assunto.
Guardai nella direzione che mi indicava e non potei fare a meno di sorridere.
Davanti a me c’era una grande villa di mattoni rossi, a tre piani, con tante finestre e un giardino ben curato, come doveva essere anche quello sul retro. Era tipica di mia madre. Grande, spaziosa, probabilmente molto costosa, ma niente di eccessivo o troppo sfarzoso. L’amavo già.
Con una sorriso a trentadue denti, mi girai verso Emmett e gli sussurrai: - Il gusto di mamma ha colpito ancora-.
Lui mi lanciò uno sguardo complice e ridacchiò.
Emmett Swan è il mio gemello, anche se forse non si direbbe. Ci assomigliamo poco, per quanto riguarda l’aspetto, abbiamo in comune solo il colore dei capelli, la pelle diafana e il sorriso con le fossette che è il nostro marchio di fabbrica. Per il resto, siamo agli antipodi. Lui occhi azzurri, io cioccolato. Lui è alto 1,90 m, io sono nella media, direi, tocco il metro e settanta. Lui è tutto muscoli, io sono magra ed esile, anche se con tutte le forme al posto giusto .
Ma chiunque passi con noi più di dieci minuti non può dubitare della nostra parentela, lo si capisce da ogni nostro comportamento. Quelle stupide differenze fisiche non cambiano niente, non ci interessano, non mi impediscono di amarlo alla follia.
Emmett è la mia anima gemella, il mio sole. Ci è sempre stato per me ed io per lui. Non so cosa farei senza. È tutto, per me: mio fratello, il mio migliore amico, a volte anche un padre.
Lui era sempre lì quando cadevo, pronto a farmi rialzare, a fare il suo dovere da buon fratello maggiore, per quanto il fatto che sia nato due minuti prima possa definire lui il “maggiore”…
Ho sempre adorato il nostro rapporto, è quello che la gente definirebbe “classico comportamento da gemelli”: ci leggevamo nel pensiero, non c’era bisogno di parole per capirci, bastava uno sguardo; dovunque era lui, c’ero anch’io; poi c’era quello strano senso di malessere quando all’altro succedeva qualcosa… Eravamo legati da un filo invisibile ed indissolubile.
E poi, ci univa ancora di più la nostra passione per il…
- Ragazzi…?Allora? Non vi piace?- mamma ci fissava con aria interrogativa e negli occhi le si leggeva una punta di delusione.
- Scherzi mamma?! È fantastica, l’adoro già! - dicemmo insieme io ed Emmett, sorridendoci poi per il coretto che ormai era un’abitudine.
Mamma sospirò piano poi ci guardò piena di felicità. - Bene, perché da ora sarà la nostra nuova casa!- ed entusiasta, ci guidò dentro.
L’interno era semplicemente meraviglioso. L’elemento chiave era uno: il legno. Dai pavimenti, ai mobili, ai rivestimenti di porte e finestre, tutto era interamente di legno, scuro e chiaro.
Le pareti dai colori tenui e la vasta presenza di finestre davano l’idea di un posto sempre illuminato e solare. Era molto accogliente e spaziosa.
-Wow mamma, complimenti, dentro è ancora meglio che da fuori!- non potei evitare di esclamare, a bocca aperta.
Lei mi sorrise decisamente compiaciuta e con tono beffardo disse –Beh, modestamente, me ne intendo di queste cose…-.
Io ed Emmett sbuffammo divertiti, alzando gli occhi al cielo, ma non replicammo, meglio non dire niente di compromettente. Eravamo appena arrivati, c’era tempo per farla arrabbiare e farci mettere in punizione.
-Bene, mi dispiace dirvelo così presto, ma dovete andare a scaricare le valigie. Prima sistemiamo tutto, prima potremo goderci appieno la casa- disse mamma, battendo le mani tranquilla.
Io la guardai stranita. –Che cosa significa dovete?! Dobbiamo fare tutto noi? E tu?-
Lei mi guardò fingendosi scandalizzata, mettendosi addirittura una mano sul cuore. A volte era decisamente teatrale. La mia vena melodrammatica l’avevo presa da lei.
-Ma come, Bella?! Io ho guidato fin qui, devo riposare un po’, no?-
- Mamma, il tragitto dall’aeroporto fino a qui sarà stato di mezz’ora…- le fece notare Emmett scettico, con un sopracciglio alzato.
Lei gli lanciò un’occhiataccia e sbuffò incrociando le braccia al petto, facendomi sorridere. Sembrava una bambina.
-Beh, merito comunque una giornata di relax, visto che inizio già da domani a lavorare, non credi?-
Emmett alzò le mani in segno di resa e uscì per andare a prendere le valigie. Io sospirai e scossi la testa, ma non dissi niente e lo seguì. Non ora, Bella. Siete appena arrivati. Visita almeno un po’ la città prima di farti segregare in casa per aver contraddetto il ‘capo’…
Alla fine, quando tutti bagagli e scatoloni furono in casa, ce li dividemmo e iniziammo a sistemare il loro contenuto.

Stavo portando i vari libri, che mi ero portata dietro da New York, in salotto, quando inciampai in qualcosa e caddi a terra, rovesciando tutto quello che avevo in mano.
Imprecando, mi risollevai e guardai su cosa ero inciampata. Era uno dei tanti scatoloni e sopra c’era scritto: per la scuola.
Come al solito, la scuola è sempre tra i piedi. Feci un piccolo sbuffo e lo sollevai, per poi andare in cucina, dove mamma stava sistemando i piatti e le posate.
-Mamma, questo lo devo disfare?- le chiesi, indecisa se svuotarlo ora o se potessi aspettare.
Lei guardò di cosa si trattasse. –Si, tesoro, bisogna disfarlo subito, stavolta…a proposito, EMMET!- gridò e lui arrivò subito, tutto trafelato.
-Sì, che c’è?! State bene?- poveretto, l’urlo di mamma doveva averlo spaventato.
-Sì, tranquillo Emm, siamo tutte intere - lo rassicurai. A volte era un po’ troppo paranoico, soprattutto se si trattava delle sue donne. Mi fa tenerezza quando fa così, pensai sorridendo dolcemente.
- Ragazzi- ci richiamò la voce della mamma – Sentite, so che non è l’argomento che preferite, ma devo dirvelo. Domani comincerete la scuola. So che non è il massimo farlo quando ormai è iniziata da due settimane, ma non posso farci niente, sapete che non avevo altra scelta se non il trasferimento, quindi…-
-Tranquilla mamma, ci siamo abituati. Non è la prima volta.- dissi, con una punta di amarezza nella voce. Il cambiare continuamente scuola e conoscenze era una delle cose che odiavo del fatto di trasferirci. Ma, come ho detto, ci sono abituata.
Renèe, mia madre, è uno dei più importanti avvocati degli Stati Uniti e a causa del suo lavoro, eravamo costretti a trasferirci spesso. Se all’inizio lo trovavo divertente ed entusiasmante viaggiare e vedere nuove città, dopo un po’ divenne stancante e motivo di tristezza e irritazione. Insomma, a dieci anni bisogna avere l’opportunità di instaurare delle amicizie, non iniziare ad affezionarsi a qualcuno per poi lasciarlo e ricominciare da capo! Dopo un po’ ci fai l’abitudine, all’idea di non avere mai radici, di non potersi permettere di sentirsi a casa, di non poter avere degli amici perché poi saresti costretto ad abbandonarli, ma all’inizio fa male e se per tutto quel tempo non avessi avuto Emmett al mio fianco, non so quanto avrei resistito. Per otto anni, io e lui siamo stati l’uno il punto fermo dell’altro, l’unico posto in cui potersi sentire veramente a casa e capace di dare sicurezza.
Ma tutto questo, il spostarsi da un posto all‘altro come se fossimo dei pacchi postali, non è sempre stato necessario. È iniziato tutto quando avevamo nove anni. Ed è stato a causa di un solo evento scatenante, che non potrò mai dimenticare.
La morte di papà.
Charlie Swan era un grande giocatore dell’NBA e la sua squadra era proprio Chicago. Lui e mamma si sono conosciuti ad una sua partita, è sul campo che è sbocciato il loro amore. Lui, uno dei più grandi giocatori del momento; lei, un avvocato in salita, non ancora conosciuto.
Non so bene tutta la storia, a mamma fa ancora male raccontarla, ma so che si sposarono a vent’anni e che un anno dopo ricevettero due meravigliosi regali, come definivano loro. Io ed Emmett.
Papà era entusiasta, questo lo ricordo bene, così come ricordo gli occhi che gli luccicavano tutte le volte che ci raccontava della nostra nascita.
- I miei due miracoli - ci diceva con le lacrime agli occhi, prima di abbracciarci. Quei momenti sono impressi a fuoco nella mia memoria.
Col passare degli anni, noi crescevamo e le trasferte di papà diventavano sempre più scomode, e nonostante mamma ce la facesse da sola, si vedeva che soffriva per quella situazione.
Quello che poi fece papà…non so se io ne sarei stata capace.
Abbandonò il basket. O almeno, quello agonistico. Rinunciò ai suoi sogni per noi.
Riuscì a trovare un posto come coach in un liceo vicino a casa e iniziò ad insegnare lì. Ancora oggi, non so se quello che fece fu un gesto bellissimo o una gran cavolata…
Da piccola, ogni volta che gli chiedevo – Papi, perché lo hai fatto? Non era il tuo sogno più grande giocare a basket? - lui mi guardava con tenerezza e mi diceva – No, tesoro. Il mio sogno più grande ce l’ho davanti. - e mi dava un bacio sulla fronte.
Quando io ed Emmett compimmo cinque anni, papà ci fece un regalo particolare: ci promise che ci avrebbe insegnato la pallacanestro, che saremmo diventati più bravi di lui, “i giocatori più forti della storia”.
A nove anni, poco prima che se ne andasse, sapevamo già fare delle cose avanzate per la nostra età, eravamo come dei “piccoli prodigi”.
È a lui che dobbiamo la nostra passione per il basket, è solo merito suo se siamo così bravi.
Eppure, nonostante lo insegnasse a scuola ed anche a noi, nonostante la sua vita fosse ancora immersa in quello sport, sapevo che gli mancava. Lo si capiva dai suoi occhi tutte le volte che ci faceva fare qualcosa di nuovo, lo si scorgeva dietro l’orgoglio ogni volta che io o Emm facevamo dei progressi o delle belle azioni.
Per questo otto anni fa prese la decisione che cambiò tutto.
Un’ultima partita. Una sola partita, prima di dire definitivamente ciao alla carriera agonistica. L’avrebbe giocata in un campionato europeo, insieme ad altri giocatori dell’NBA.
Inutile dire che questo fu motivo di entusiasmo per giornalisti e tifosi. - Charlie Swan, grande giocatore, ritorna in campo straniero dopo aver abbandonato il basket, per fare un ultima partita prima di dire del tutto addio a questo sport -.
La mamma non ebbe nulla da ridire. Non era entusiasta della sua partenza, ma anche lei aveva notato che ultimamente era triste.
Ricordo ancora il giorno della sua partenza, non potrei mai dimenticarlo…

Otto anni prima
Sentii la porta chiudersi piano e dei passi avvicinarsi. Qualcosa di caldo mi si posò sulla fronte, facendomi schiudere gli occhi.
- Ciao, tesoro. Mi mancherai tantissimo, ma ci rivedremo presto, stai tranquilla. - disse accarezzandomi una guancia.
A quel punto aprii del tutto gli occhi e chiesi con voce impastata - Papà?-.
Lui, accortosi probabilmente solo in quel momento che ero sveglia, mi sorrise.- Dimmi tesoro.-
-Vai via?- chiesi un po’ impaurita della risposta.
Lui sospirò. – Sì, Bells, vado via, ma torno presto, tanto presto che non ti accorgerai neanche che me ne sono andato.-
Io, un po’ più sollevata, chiesi comunque: - Promesso? -
- Promesso. - mi rispose sorridendo e dandomi un altro bacio sulla fronte.
- E per non farti sentire la mia mancanza, ho una cosa per te.- disse, tirando fuori qualcosa dalla tasca dei jeans. Io lo presi con mani tremanti e guardai cosa fosse.
Una collana d’argento con un ciondolo a forma di cuore che al centro aveva incisa una B.
Con gli occhi umidi, tirai su il viso e buttai le braccia intorno al suo collo.
- Grazie, papà, è bellissima.- dissi nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.
- E non hai ancora visto la parte migliore. - mi rispose, staccandosi un po’ da me e prendendo in mano la collana. Io lo guardai confusa ed incuriosita, per poi spalancare gli occhi quando la girò per farmi vedere la parte dietro.
C’era un’incisione.


Tu verrai sempre per prima nel mio cuore.
Ti amo, Bells.
Papà.

E a quel punto le lacrime che avevo trattenuto, cominciarono a rigarmi il viso mentre riabbracciavo papà.
- Grazie, grazie, grazie! Ti voglio bene anch’io. - dissi commossa, riempiendogli il viso di baci.
Lui rise e poi m risistemò a letto.- Sono felice di sentirlo, ma ora tu devi tornare a letto ed io devo sbrigarmi se no perderò il volo.- e dicendo questo, mi ribaciò la fronte e si alzò.
Io chiusi gli occhi, felice.
- Buona notte, Bells. - sussurrò papà, sulla soglia della porta, per poi uscire.
Quella notte, mi addormentai con il sorriso sulle labbra, non sapendo che presto mi sarebbe stato tolto…


Quella fu l’ultima volta che lo vidi.
Morì mentre stava andando insieme a un paio di amici alla partita. Un pirata della strada è andato addosso alla sua macchina, uccidendo papà, un suo amico e ferendo gravemente un altro presente nella vettura. Papà morì e quello squilibrato rimediò qualche graffietto. Alla fine lo presero e lo sbatterono in cella per guida in stato di ebbrezza e omicidio.
Non posso dire che fossi contenta di quello che subì lui, perché in confronto a quello che ricevetti io non era niente. Il fatto che “la giustizia avesse vinto” non mi ridava indietro mio padre.
Non ricordo molto di quel periodo, solo dolore e lacrime, che andavo a consumare nell’abbraccio di Emmett. Quel maledetto giorno è morta una parte di noi. E come se non bastasse, arrivarono anche i commenti dei giornalisti sullo scandalo, le domande asfissianti, gli appostamenti sotto casa nostra. In quei momenti avrei voluto solo urlare – Abbiamo appena perso una delle persone più importanti della nostra vita, come credete che si sentiamo?! Smettetela, lasciateci in pace con il nostro dolore! - ma loro continuavano. E poi gli sguardi pieni di compassione che ci riservavano i nostri compagni a scuola. Alla fine, mamma non ha retto e ha deciso di cambiare città, stava incominciando a diventare famosa e farsi conoscere anche in altri posti avrebbe aiutato. Nonostante anch’io non ne potessi più, non posso dire che fossi felice di lasciare Chicago. Andarmene fu come lasciare papà un’altra volta. Dopotutto, quella era la sua città…
Per questo, sono felice di essere tornata. Perché nonostante rievochi i ricordi dolorosi, essere qui è come essere di nuovo con papà. Lui amava la sua città e per quanto dolore io abbia provato qui, non potrei mai odiarla. È testimone dei miei primi momenti felici…
- Sì, Bella, lo so che ormai è diventata un’abitudine, ma questo non vuol dire che a me non dispiaccia o che a voi non faccia male…- disse mamma sospirando e poggiandomi una mano sulla spalla, togliendomi dai ricordi.
- Sentite, lo so, è dura, ma forse questa volta è quella buona, mi hanno detto che sarò necessaria un po’ di più stavolta, probabilmente un paio d’anni, il tempo che voi andiate al college e poi non ci sarà più questo tipo di problema…- la sua voce si fece rotta e senza neanche il bisogno di guardare Emm, la abbracciammo insieme, stringendola forte.
Non le piaceva l’argomento college, perché anche se lei voleva che noi ci andassimo, sapeva che questo significava che ci dovremo separare da lei e noi siamo le uniche cose che ha, la sua famiglia. Non importa se a causa del suo lavoro non era sempre presente, le vogliamo bene comunque. La mamma è sempre la mamma.
-Stai tranquilla, mamma, sai che non te ne facciamo una colpa per questo. E per quanto riguarda il college, beh, andremo solo a studiare, non in guerra, potremo venire da te quando vorremo…- le disse Emmet, stritolandola nel suo abbraccio. Io non potei fare a meno di sorridere. Il mio orso…gli baciai una guancia e poi mi rivolsi alla mamma.
- Già, mami. E poi, dai, come hai detto tu, chi lo sa, magari questa è la volta buona, perciò smettila di colpevolizzarti e sorridi, che se no piango anch’io. - e le feci l’occhiolino sorridendole. Lei mi sorrise, asciugandosi le lacrime per poi borbottare – è assurdo, a volte sembrate voi i genitori ed io la figlia…-
Io sorrisi divertita. - Già, non me ne parlare…- dissi scuotendo la testa con finta aria sconsolata.
Lei si staccò dall’abbraccio di Emmett, per poi darmi un scapellotto.
- Ahi! Che ho fatto?! - dissi guardandola scandalizzata, proteggendomi per evitare altri eventuali colpi.
- Cosa stavi insinuando, signorina?- ok, a volte sapeva essere decisamente minacciosa, soprattutto quando ti guardava con quello sguardo omicida e le mani sui fianchi.
- Ehm, niente!...- dissi sorridendo innocentemente, mentre Emmett dietro di lei sghignazzava. Io lo implorai con lo sguardo e lui, dopo aver alzato un sopracciglio divertito, mi salvò dall’ira funesta della “belva”.
- Ok, ragazze, direi che è meglio muoverci, se no non finiremo mai di sistemare.- la mamma subito riprese un espressione normale.
- Certo, Emm, hai ragione. Muoviamoci!- e tornò a sistemare le posate. Una volta che mi diede le spalle, io mimai a Emmett un grazie, a cui rispose con un sorriso e l’occhiolino.

Stavo finendo di sistemare la mia stanza, che dovevo dire, era davvero niente male, quando una montagna si precipitò in camera.
- Ehi Bella, sai cosa ho trovato su internet?- mi disse Emmet, entusiasta per chissà cosa.
In risposta alzai un sopracciglio.
- Wow, attenta, contieni l’entusiasmo, se no ti verrà un infarto…- disse sarcastico sbuffando. Alzai gli occhi al cielo ma non dissi niente.
- Beh, sono riuscito a collegare il computer e sono andato a vedere una cartina di Chicago, sai, per saper orientarmi, e ho scoperto una cosa che ci sarà molto comoda. Indovina cosa c’è poco distante da qui? Un campetto da basket! - e mi sorrise, pronto a vedere la mia reazione, che non tardò ad arrivare.
Feci un sorriso a trentadue denti e alla velocità della luce misi la mia tenuta da allenamento e presi le scarpe da gioco. Lo guardai sempre sorridendo, prendendo il pallone. –Beh, cosa stiamo aspettando, allora? Andiamo a inaugurarlo! - e mi precipitai fuori dalla porta. Aspettai che Emm si cambiasse poi correndo fuori urlammo – Mamma, noi andiamo a fare un giro di perlustrazione. Torniamo presto! -
E scappammo via prima che lei avesse qualcosa da ridire. Prendemmo la mega Jeep dell’orso e partimmo. In neanche due minuti eravamo già lì a ispezionare il campo.
- Beh, non è male. Non è il Madison Square Garden, ma direi che ci si possa giocare.- dissi poi voltandomi verso Emmett, che annuì.
Giocammo per un’ora e mezza senza neanche accorgercene, quando giocavamo quello che avevamo intorno spariva, il tempo era irrilevante, c’eravamo solo noi e la palla. I movimenti erano fluidi, la padronanza della palla ottima, ormai non ci facevo neanche più caso quando palleggiavo, era come se la palla fosse il prolungamento del mio braccio ed io potessi farle fare quello che volevo, farla andare dove volevo senza pensarci. Proprio come ci aveva insegnato papà.
Facendo un cambio di mano dietro la schiena, riuscì a scartare Emmett che, sbilanciandosi, non riuscì a fermarmi mentre correvo palleggiando verso il canestro. Mi fermai poco dopo l’area dei tre punti e tirai.
Braccio disteso, polso spezzato, parabola perfetta. La palla entrò sfiorando a malapena la rete e producendo uno swish. Canestro netto.
Movimento perfetto. Esattamente come avrebbe voluto papà.
Mi girai sorridendo verso Emmett, il quale mi si stava avvicinando con finta aria rammaricata.
- Me l’hai fatta di nuovo, scheggia. Non c’è niente da fare, non riuscirò mai a rubarti la palla quando palleggi. - e sospirò fingendosi sconsolato.
Io risi. - Beh, Emm, guarda il lato positivo: tu non riuscirai a rubarmi la palla, ma io non riesco di sicuro a stopparti! - e lo abbracciai.
- Dai, è meglio andare ora, se no mamma chi la sente…-
Ed andai a recuperare il pallone, ma non mi sfuggì il suo – Con tutti gli urli che farà, io la sentirò di sicuro…-. Ridacchiai scuotendo la testa e sollevai la palla.
Stavo per dirigermi verso la macchina, quando vidi con la coda dell’occhio le prime luci che illuminavano la sera. Guardai la città oltre la recinzione del campetto e un sorriso mi nacque sulle labbra.
Chicago. La città dove è iniziato tutto. Dove tutto è andato a rotoli. Dove, forse, tutto si risistemerà.
Forse mamma ha ragione, forse questa è la volta buona.
E mentre mi giravo per tornare alla macchina, non potevo che esserne sempre più convinta.
-Bella? Dai, muoviti!-
-Sì, eccomi- e partimmo per tornare a casa. Casa, sorrisi pensando che, forse, potevo finalmente sentirmi così.
Volevo che la mia vita cambiasse. E volevo che lo facesse qui.
Un nuovo inizio, pensai mentre oltre il finestrino scorreva silenziosa Chicago, completamente illuminata.

Angolo della pazza

Ehilà, ragazze! *prende un respiro profondo*Alloora...ecco la storia! Spero vi piaccia, è la prima che faccio, perciò se dovesse esserci qualcosa che non vi piace o convince, ditemelo subito e cercherò di rimediare!
Mi è venuta in mente mentre facevo zapping alla tv. Stavo pensando
"per trovare ispirazione per una storia bisogna pensare a qualcosa che c'entri con la propria vita..." ed è saltato fuori questo! Io ADORO il basket, mi piace l'emozione che senti prima dell'inizio di una partita, la soddisfazione ogni volta che fai canestro. So che probabilmente molte di voi non condividono questo pensiero, ma quando i versi mi si sono riversati in testa mi sono detta: perchè no?
La storia sulla morte di Charlie non l'ho inventata io, è successo davvero. Un'altra vittima della strada...
Beh, direi che per ora è tutto.Incrocio le dita!

Spero recensiate in molti  e mi raccomando, ditemi cosa ne pensate, acolterò ogni consiglio o critica che sia.

A presto,
Rebs

p.s. questo è il sito con le foto e la descrizione della casa:


http://it.luxuryestate.com/P7181021-Villa_in_vendita-chicago


  
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