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Autore: adaubartol    19/08/2013    5 recensioni
Harry Styles è un ragazzo fuori dal comune con un segreto fuori dal comune.
Louis Tomlinson, al contrario, non è degno di attenzione, ed ha un segreto che vuole nascondere alle attenzioni degli altri.
ma per quanto si può mantenere un segreto, senza essere scoperti?
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Image and video hosting by TinyPic Harry Styles era bello.
No, ricomicio.
Harry Styles era meraviglioso. Bello da togliere il fiato. Bello, bello quanto il primo raggio di sole estivo.
Bello da far sciogliere la neve invernale e ridurla in una pozzanghera di quelle dove gli uccelli vanno a ripulirsi le ali.
Bello, bello da fare invidia anche al più bel fiore mai cresciuto nel giardino dell'Eden.
E Harry, oh Harry lo sapeva.
Sapeva di poter avere ai suoi piedi qualsiasi ragazza della sua miserabile cittadina.
Harry voleva scappare dalla sua miserabile, piccolissima cittadina.
Perché la bellezza di Harry era troppo grande per entrare in una cittadina.
Era troppo grande per qualsiasi città, nazione o continente.
Eppure, il suo cuore era piccolo, piccolo quanto la più piccola formica di quella piccola cittadina.
Molti pensavano che nemmeno lo possedesse, un cuore.
E forse era vero.
Harry poteva avere tutto e tutti ai suoi piedi, ma non sarebbe mai stato capace di apprezzarlo.
Harry voleva di più, Harry aveva sempre voluto di più.
E cosa succede quando Harry Styles vuole qualcosa?
La ottiene.
Perché tutti temono Harry Styles.
Lo amano e lo odiano, ma non possono farne a meno.
Harry Styles era una droga, persino per gli occhi dei passanti che lo osservavano avidamente mentre passeggiava per i vicoletti incolori di Holmes Chapel.
E tutti avrebbero voluto anche solo un minuscolo pezzo di Harry Styles.
Un solo centimetro di quella pelle biancastra.
Una sola scintilla contenuta in quei profondissimi occhi verdi.
Un solo, minuscolo, battito delle sue ciglia, ma che fosse dedicato a loro.
Avrebbero catturato quel battito di ciglia e lo avrebbero messo in bella mostra sopra al loro caminetto di mattoni.
Ma Harry continuava ad ignorare tutte le persone che lo rincorrevano, che gli andavano dietro come belve affamate di un po' d'amore.
Harry non aveva mai provato l'amore.
Erano diciotto anni che Harry non provava amore.
Perché Harry Styles non si poteva di certo accontantare delle ragazze della sua piccola cittadina.
Oh no, Harry aspirava alle grandi città, il mondo che lo circondava era così grande e lui era bloccato.
Fermo tra case piccole, strade piccole e persone piccole. Piccolissime.
Si sentiva un gigante.
Fuori posto, quando il suo posto era quello.
Sapeva di non potersene andare.
Eppure, i grandi occhi verde scuro di Harry erano pieni di speranza. Di voglia di avventura. Forse, anche di un po' di paura.
No, no era ridicolo.
Harry Styles non ha paura di niente.
O forse non era così?
Harry Styles aveva paura di mostrare il vero se stesso.
Tutti avrebbero odiato quell' Harry Styles.
E lo sapeva, lo sapeva benissimo e pensava fosse inutile mostrarsi per quello che era. A meno che non avesse trovato una persona disposta ad accettarlo.
No. Nessuno avrebbe mai accettato quell'Harry Styles.
 
Louis Tomlinson era un comune ragazzo.
Viveva in  una comune cittadina e andava in una comune, comunissima scuola pubblica.
Niente di speciale, penserete.
Perché stiamo concentrando la nostra attenzione su questo niente di speciale?
Penserete, ancora.
E tutti la pensavano così, tutti pensavano che Louis Tomlinson non fosse niente di speciale.
Soprattutto Louis Tomlinson, lo pensava.
Aveva vissuto la sua vita all'ombra di un fratello geniale, ''Il più giovane scienziato del Cheshire!'' ricordava ogni volta sua madre, scompigliando i capelli dell'ormai ventenne Michael Tomlinson.
E Louis, seduto davanti a lui nel grande tavolo circolare della sala da pranzo, guardava attentamente all'interno del suo piatto, intento a prendere una forchettata di purè, per poi ributtarcela dentro.
''Andiamo Lou, mangia qualcosa! Sei pelle e ossa.''
Disse Michael ridendo, spostando il suo sguardo dal suo piatto a quello del fratello.
Louis si limitò ad un sorriso di cortesia e si alzò in piedi, guardando per un ultima volta l'interno del piatto.
''Non ho molta fame. Vado…''
''Sì Louis, fai come vuoi. Mikey, vuoi altra carne?''
Jay Tomlinson congedò Louis con quelle parole di pietra.
''Vado di sopra.''
Finì Louis, sussurrando.
Salì di corsa le grandi scale in legno, per arrivare in camera sua.
Si guardò allo specchio, si guardò per l'ennesima volta allo specchio sollevando la maglietta a maniche lunghe azzurra.
Era dimagrito molto, eppure continuava a vedersi enorme, brutto, di troppo, inutile, un errore.
Perché era sempre stato definito così, ormai quelle parole potevano essere trovate su un dizionario, sotto il nome ''Louis Tomlinson''.
Una lacrima rigò il suo viso, mentre continuava ad osservare scrupolosamente il suo corpo senza maglietta.
Si toccava ossessivamente lo stomaco, le lacrime aumentavano.
Si soffermava su ogni minuscolo, impercettibile difetto.
''Cosa c'è di sbagliato in me?''
Sussurrò trai singhiozzi, continuando ad osservare il ragazzo nello specchio.
Non riusciva a riconoscerlo, chi era?
Non era quel bambino dagli occhi azzurri e il sorriso cristallino ritratto nella foto sul suo comodino.
Aveva una paura tremenda, di quel diciottenne dagli occhi spenti nello specchio.
E lo odiava.
Lo odiava con tutto il cuore perché non era all'altezza delle aspettative degli altri e di se stesso. Ed era enorme, brutto, di troppo, inutile, un errore.
Prese tra le mani la foto del ragazzino, di quel ragazzino che sembrava non conoscere più.
Una lacrima ricadde sul vetro che separava quel pezzo di carta dalla cornice in legno.
E tirò quel ricordo, contro il ragazzo nello specchio.
Rumore di vetri rotti, che non fece allarmare nessuno al piano di sotto, come al solito.
Nessuna scheggia sul pavimento, solo una crepa nel mezzo della superficie riflettente.
Ora ce ne erano due, di quei ragazzi, ed una crepa tra di loro.
Le lacrime continuavano a scendere, Louis si buttò sul letto e affondò la testa nel cuscino bianco.
Si guardò le braccia.
Lì, c'erano le vere scheggie di vetro.
Lì, quel ragazzo dello specchio era stato rotto, rotto da un ricordo.
Rotto, dalle troppe parole cattive.
Rotto, dalla vergogna di mostrarsi in giro.
Rotto, dal fatto di non essere mai abbastanza.
Era rotto, ma non poteva essere riparato con della semplice colla, come quella che si usa per riparare gli specchi rotti.
Oh, no.
Gli serviva amore, gli seriva supporto, gli serviva attenzione.
Ma non era nulla di speciale.
Le lacrime ricaddero sui segni insanguinati che gli ricoprivano i polsi.
Bruciò, bruciò la rabbia dentro di se.
Quelle lacrime bruciavano come fuoco.
Louis strinse i denti e decise che quella sera era troppo stanco per farsi ancora del male, e si addormentò.
 
 
 
***
 
Il rumore assordante della vecchia sveglia di metallo ferì le orecchie di Louis senza preavviso.
Troppo presto.
Troppo presto per affrontare un'altra di quelle giornate.
Una di quelle giornate, in cui avrebbe preferito di gran lunga essere invisibile, come al solito.
A scuola, tutti potevano vederlo, prenderlo di mira, rivolgergli stupidi insulti a cui ormai non faceva nemmeno più caso.
Eppure, sentirli parlare lo infastidiva.
Ed ogni volta che sentiva qualcuno ridere o semplicemente parlare, pensava, anzi, sapeva, di essere l'oggetto della conversazione.
''Guarda, c'è quello strano!''
''Il depresso.''
''Che faccia da morto, Tomlinson! Andiamo, fammi un bel sorriso!''
Louis riconobbe la voce profonda di John Dragley ancora prima di ritrovarselo davanti al volto, pugni stretti e sorriso beffardo.
Louis si abbassò ancora di più le maniche del giacchetto blu scuro, tenendole strette in mano.
''John scusami, io dovrei..''
Sussurrò.
Le sue parole sembravano fare il rumore del vento in una sera d'autunno.
La voce leggera, ancora piena di sonno.
Parole troppo poco significative dette troppo piano.
''Alza la voce, pivello.''
''Devo andare in classe.''
Louis alzò di poco il tono della voce.
Ora quel vento si era fatto più forte.
''Non ti sento.''
Cantilenava odiosamente Dragley.
''Devo andare in classe.''
Urlò.
Il vento si era fatto bufera, i suoi occhi tempesta.
Sguardi fissi su di lui, come al solito.
Fece per incamminarsi, non gli piaceva essere sommerso da quegli occhi cattivi, che si divertivano a vederlo stare male.
Continuava a guardarsi i polsi ossessivamente, voleva scomparire.
Quello era un luogo troppo pericoloso per i ragazzi come lui.
''Se vuoi ti accompagno.''
Un sorriso si era fatto strada trai lineamenti del bullo dai capelli biondi, una strana forza sembrava scorrergli dentro.
I pugni chiusi si aprirono piano, una gamba si sollevò verso l'alto, verso la schiena di Louis.
Lo zaino a terra, i gomiti sbucciati che avevano tentato invano di attutire la caduta, gli occhi chiusi.
Chiusi stretti e chiusi forte, come i bambini, quando si fanno male giocando trai sassi.
Ma Louis non era un bambino e quello non era un gioco.
Le maniche del giacchetto ancora strette trai pugni.
Tremava, tremava di paura e di tristezza.
Un terremoto di emozioni dentro di lui, una catastrofe naturale.
Ma non c'erano urla, né preoccupazione ad accoglierlo, appena si alzò in piedi.
No.
C'erano risate, risate e dita puntate contro di lui.
Louis si sentiva in gabbia, non poteva ribellarsi, non poteva opporsi a quelle risate.
Troppe persone, troppe risate.
Troppe, troppe risate.
Si mise a correre, correre nella sua gabbia tentando di sfuggire a quelle risate, a quegli sguardi, a tutte quelle persone ''diverse''.
Diverse, perché tutte uguali.
Era lui l'unico che si distingueva dalla massa.
L'unico puntino incolore, in quell'arcobaleno di ragazzi.
Si mise a correre, tentando di non dare troppo nell'occhio. Ed eccolo lì, in classe. In ritardo. Come sempre.
''Ben arrivato, Tomlinson.''
Le labbra sottili della professoressa Pincherman si dischiusero leggermente, le rughe increspate le solcavano il volto.
''Mi scusi, prof..''
Louis si sedette cautamente al suo solito posto all'ultimo banco, da solo.
L'ora di scienze durò secoli, come al solito.
E ovviamente, i riferimenti al suo brillante fratello, facevano capolino due volte su tre nei discorsi dell'insopportabile insegnante.
Louis l'aveva soprannominata ''Camaleonte'', perché ogni giorno indossava le stesse cose, ma di un colore diverso.
Quel giorno, la gonna di lana lunga fino alle caviglie era di un bel grigio topo, mentre la solita maglietta a collo alto era colorata di un giallo smorto.
Louis sorrise, pensando a come doveva essere l'armadio di quell'insopportabile donna, più simile a un dinosauro che a un essere umano.
Sorrise.
Si stupì anche lui di quel sorriso, che si era poggiato sul suo volto senza un preavviso.
Eppure, non sembrava disturbarlo.
Lo fece alloggiare per un altro minuto o due sulle sue labbra, finchè l'odioso suono della campanella della seconda ora non se lo portò via, accompagnato dalla professoressa Camaleonte.
 
 
Harry quel giorno aveva deciso di non andare a scuola.
Non c'era un motivo preciso, voleva semplicemente correre trai boschi e dimenticarsi dei problemi.
Harry odiava stare dietro ad un banco, sottostare a delle regole, essere comandato a bacchetta da persone che pensavano di conoscerlo, quando in realtà non sapevano nulla. Nulla.
A Harry piaceva fare di testa sua, sottostare alle proprie regole, perché era lui l'unico capace di stabilirle, era l'unico a conoscersi davvero.
Harry non aveva molte certezze, se non quella di conoscersi meglio di chiunque altro.
Sapeva chi era e cosa voleva diventare, e avrebbe fatto di tutto per riuscirci.
Harry voleva diventare felice.
Voleva esserlo davvero, non come quelle famiglie perfette ritratte sulle scatole dei cereali.
Guardò con disprezzo i bambini sorridenti su quella scatola di cartone, prima di versare un po' del contenuto in una ciotola.
Decise di essere sazio dopo un paio di cucchiaiate, così ributtò i cereali nel lavandino e uscì dalla finestra della cucina per non svegliare i suoi genitori.
E si mise a correre.
Harry amava correre.
C'erano solo lui, il vento e l'erba fresca sotto ai suoi piedi.
Gli scarponi di un blando marrone scuro venivano accarezzati dalla rugiada mattutina, che si era addormentata sui prati di Holmes Chapel.
La canottiera bianca e strappata, macchiata di terra, sangue e sudore, avvolgeva il suo corpo muscoloso, come se fosse stata tatuata su di esso.
I ricci scompigliati correvano insieme a lui e insieme al vento, un sorriso spuntò sulle labbra grandi e carnose.
Lo aveva trovato, lì, appisolato vicino ad una roccia.
Un bellissimo cervo, non molto grande, gli ricordava Bambi.
Si avvicinò con cautela all'animale, che iniziava a tremare sentendo una presenza avvicinarsi a lui.
''Shh, va tutto bene.''
Lo accarezzò, facendolo riaddormentare sereno.
Harry sorrise di nuovo, mostrando i canini affilati, e si sedette piano vicino all'animale.
Continuò ad accarezzarlo piano, dolcemente, finchè non iniziò a fare peso su di lui.
Si diede uno slanciò e conficcò i canini appuntiti nella tenera carne del Bambi, ormai non più addormentato, ma morente.
Le pupille di Harry si dilatarono, nuovo sangue era entrato dentro di se.
Cercava di condurre una vita normale, come i suoi genitori gli avevano sempre imposto, ma quale vampiro preferirebbe degli insulsi cereali a del caldo sangue di cervo?
Si asciugò le grandi labbra sporche di sangue sul braccio e alzò gli occhi al cielo, il sole era riparato dalle chiome degli alberi.
Guardò per un' ultima volta il suo piatto quotidiano, ormai accasciato completamente al suolo.
Un lampo di tristezza attraversò i suoi grandi occhi verdi, si sentiva un assassino, eppure era talmente assetato da non poter smettere.
Tuttavia, non aveva mai bevuto del sangue umano.
Ne riconosceva l'odore da lontano, eppure non aveva il coraggio di trasformare un umano.
Perché dentro, lo era anche lui.
Perché, un tempo, 118 anni fa, lo era stato anche lui.
Era un diciottenne, anche allora, lo è rimasto per cento anni.
Era un diciottenne, dicevo.
Era un diciottenne assurdamente bello e sano per l'epoca, e milioni di ragazze svenivano al solo sentir pronunciare il nome di Harold Edward Styles.
I suoi ''genitori'' erano vampiri, lo avevano adottato perché ci sarebbero stati troppi problemi nel partorirlo.
Gli amici dei suoi genitori, erano vampiri.
I suoi amici, erano vampiri.
Tutti erano vampiri.
Ma lui no, lui era sempre stato diverso.
Eppure, non si sentiva diverso, non sapeva di esserlo.
Nemmeno i suoi amici più cari, gli avevano mai rivelato di essere vampiri.
Nemmeno James.
Dire che James fosse il suo migliore amico, sarebbe un eufemismo.
James era un fratello, un compagno di vita.
E Harry non sapeva cosa provasse per James.
Perché non aveva mai avuto nessun altro fratello, nessun altro compagno di vita.
Sapeva soltanto di provare uno strano brivido alla spina dorsale ogni volta che vedeva il suo meraviglioso sorriso.
E gli piacevano da morire i suoi capelli, di un castano chiaro e vivo, e la sua pelle bianca e candida come la neve.
E i suoi occhi.
Harry continuava a guardarlo negli occhi.
Avevano qualcosa capace di stregarlo, quei meravigliosi occhi azzurri.
Non era un comune azzurro, di quelli profondi e scuri come il fondo dell'oceano, no, lui li avrebbe paragonati al cielo primaverile, libero dalle nuvole. E al ghiaccio, si
I suoi occhi erano il punto preciso in cui i ghiacciai sulle cime delle montagne, sfiorano il cielo azzurro.
A volte si coloravano con una punta di giallo, e tra il ghiaccaio e la volta celeste si sistemava comodamente un raggio di sole.
Un giorno, James si accorse di come gli occhi di Harry si fondessero perfettamente ai suoi.
Sorrise, le sue labbra sottili si posarono contro l'orecchio di Harry.
''Vuoi continuare a guardarmi o preferiresti fare altro?''
Un sorriso malizioso comparve sulle sue labbra.
Harry arrossì, incapace di emettere qualsiasi suono.
James rise e lo baciò.
C'erano solo loro due, nel grande salotto della casa del ragazzo dagli occhi verdi.
Harry rispose al bacio, occhi sbarrati all'inizio, chiusi e rilassati alla fine.
Harry non aveva mai provato quel piacere.
Si sentiva nuovo, pronto a concedersi completamente a suo fratello, al suo compagno di vita.
James sorrise di nuovo, posando le sue labbra nuovamente su quelle di Harry, poggiato contro il muro bianco.
Le labbra di James scesero piano dalla sua bocca al suo collo.
Harry provava brividi di piacere e di desiderio in qualsiasi parte del corpo.
Un bacio caldo e bagnato, sul suo collo.
Le labbra di James continuavano a sfiorare ogni centimetro della sua pelle candida.
Sentì gli incisivi dell'amico, pian piano lacerare il suo collo, imprimervi un marchio che non se ne sarebbe di certo andato facilemnte.
Harry gemette.
Poi, sentì i canini del ragazzo entrare in lui.
In quel preciso momento, Harry si sentiva assurdamente vivo, eppure, morto.
Sentiva scorrere via dalle sue vene la vitalità e la gioia.
La sua pelle si fece più bianca, le sue guance meno rosee, i suoi occhi passarono da un brillante verde chiaro ad un profondo verde foresta.
Il sangue che prima scorreva fluido nelle sue vene, era sui canini di James.
Quest'ultimo si leccò le labbra soddisfatto e lo guardò dritto negli occhi.
''Pensavo.. pensavo tu mi amassi.''
Disse Harry con un filo di voce, lasciandosi cadere al suolo.
''Mai fidarsi di un vampiro, Harold.''
Disse, per poi lasciarlo da solo in quella stanza deserta.
Appena i suoi genitori rientrarono a casa, lo trovarono al suolo, quasi privo di vita.
Dopo poco, gli occhi si riaprirono, accesi da una nuova luce, un cerchi d'oro circondava l'iride di un verde scuro.
Dei canini affilati presero il posto dei denti ben levigati, da umano.
Una forza sovraumana sembrò prendere il sopravvento sul suo corpo.
Da quel giorno, Harry era un vampiro.
Da quel giorno, Harry non si era più innamorato.
Da quel giorno, Harry non si era più fidato di nessuno. Nessuno.
E non era più quel dolce ragazzino ingenuo, no.
Era un nuovo Harry, ed odiava esserlo.
Perché senza James, non c'era Harry.
Ma ormai James se ne era andato, era sparito dalla sua vita.
''Mai fidarsi di un vampiro, Harold''
Ripetette con un filo di voce, continuando a guardare la sua preda.
Decise di passare il resto della giornata in quel bosco.
Per pensare.
No, senza pensare. Per dimenticare, dimenticare e basta.
 
 
 
 
 
La campanella dell'ultima ora finalmente suonò.
Studenti gioiosi si misero a correre in ogni angolo dell'edificio, per poi uscirne tutti insieme come una mandria di bufali.
Era all'uscita, che tutti i personaggi presenti in quella comune, comunissima scuola pubblica si incontravano.
E c'erano tutti, dai secchioni ai superfighi, dalle nullità alle ragazze pon pon, che mettevano in bella mostra la mercanzia sotto ai loro gonnellini succinti, strette alle braccia muscolose dei giocatori di basket.
Mancava solo un nome all'appello, quello di Louis Tomlinson.
Ed eccolo lì, chiuso nel bagno della palestra.
Louis odiava l'ora di ginnastica, odiava dover portare la felpa sopra all'uniforme della squadra di pallacanestro.
Odiava dover inventare una giustificazione diversa ogni volta. E detestava essersela dimeticata, quel giorno.
La palla continuava ad andare contro di lui, fermo ad un estremità del campo.
Non aveva la forza di mostrare un sorriso ed essere come tutti gli altri.
Rimaneva isolato, in un angolo, azzardando un tiro di tanto in tanto, per non far innervosire il professore.
Dopo l'ennesima palla persa, andata nella sua direzione, i suoi compagni decisero di non volerlo più in squadra.
''Possiamo andare in bagno, prof?''
John Dragley pronunciò quelle parole sorridendo, tenendo Louis stretto per un braccio.
Il professor Johnson disse un ''Sì'' sottovoce, continuando a leggere il suo quotidiano.
''Allora Tomlinson, aspettaci qui finchè non finisce la partita.''
''E poi?''
Chiese stupidamente l'altro energuemeno che aveva trascinato il povero ragazzo nella toilette.
''… e poi, beh, se non dovessimo ripassare facci un fischio''
Concluse John, battendo il cinque all'amico.
Fecero per tornare in palestra, quando John si voltò, con un espressione soddisfatta sul volto, e tirò un calcio proprio sul cavallo dei pantaloni di Louis.
''Giusto per assicurarmi che tu stia zitto.''
Con queste parole, chiuse a chiave la porta del bagno, lasciando il povero ragazzo accasciato sul pavimento.
Louis provò a chiamare aiuto, ma la sua voce debole, stanca e sottile, fu udita solamente dalle mosche che continuavano a girare intorno alla tazza del gabinetto.
Si alzò e continuò a tirare pugni contro il legno pitturato di azzurrino smorto della porta del bagno.
''Aiuto! Aiuto!''
Si sforzò nuovamente di gridare, ma non c'era nessuno ad ascoltarlo.
La campanella suonò.
Nessuno.
Era da solo, da solo ed in trappola.
In trappola con se stesso.
Ed era la trappola peggiore che ci fosse, per Louis.
Perché era quando era da solo, che si metteva a pensare.
Si metteva a pensare al passato e al presente, e a come tutto facesse tremendamente schifo.
Era quando era da solo che Louis trasportava quei problemi e quei brutti pensieri sui suoi polsi.
Si tolse la felpa e la buttò sul pavimento, sedendosi con la schiena appoggiata contro la porta.
Sentiva le lacrime riempirgli gli occhi, eppure non pianse.
Sollevò il viso e deglutì, fissando la luce al neon sul soffitto.
Abbassò lo sguardo e osservò le sue braccia.
Quei tagli erano i segni del suo dolore, erano la proiezione delle sue insicurezze, degli insulti, delle cattiverie.
Sembrava assurdo, eppure, quando sentiva il sangue fuoriuscire, si sentiva vivo.
Si sentiva, per un attimo, in pace con se stesso e con il mondo.
Doveva scappare, quei pensieri non dovevano continuare ad attraversare la sua mente.
Voleva smettere di farlo, ma in fondo, che importanza aveva?
A chi sarebbe importato, se lui fosse rimasto in vita?
Non trovando una risposta alla sua stessa domanda, decise di prendere aria.
Si, ma come?
Solo dopo alcuni minuti, notò una piccola finestra, a circa mezzo metro dal gabinetto.
Si arrampicò su di esso e riuscì ad aprirla, per poi scoprire che quella parte della scuola si affacciava sui boschi aridi della cittadina.
Un sospirò di sollievo lasciò le sue labbra, quando finalmente riuscì a scavalcare il davanzale della finestrella.
In poco tempo, si ritrovò al suolo, ma poco importava.
Era stata una giornata già abbastanza dolorosa.
Perché doveva essere così?
Perché non poteva, almeno per una volta, passare un giorno tranquillo?
Non voleva essere felice, nemmeno rispettato, solamente lasciato in pace.
Si mise a camminare nei boschi, pensando.
Pensando alla domanda che si era posto prima nel bagno.
'A chi sarebbe importato?'
Si sedette, la schiena premuta contro il tronco di un albero, una lacrima sulla sua guancia candida.
A nessuno.
Sentì la testa esplodere, voleva urlare, urlare e liberarsi.
Eppure non lo fece.
Pianse in silenzio, come ogni giorno.
Estrasse il temperino dallo zaino e chiuse gli occhi, come ogni giorno.
Incise piano una riga, senza guardare, non ne aveva il coraggio.
Perché sapeva che non era la cosa giusta da fare, ma a chi importava?
A nessuno.
Un altro taglio.
Basta basta basta.
Aprì gli occhi di botto e vide sangue.
Sangue, rigargli il braccio, macchiare la pelle bianca come una penna rotta macchia un foglio pronto per essere scritto.
Si accarezzò piano la ferita, sangue sulle sue dita affusolate.
E continuava a piangere, a piangere e a sanguinare.
Ma a chi importava?
A nessuno.
 
 
 
Harry era lì, seduto sul prato.
Aveva appena finito di correre, non sapeva nemmeno lui dove e quanto avesse corso, ma aveva corso, aveva corso tanto per dimenticare tutto.
E aveva dimenticato?
No, un bel niente.
Non aveva dimenticato, era impossibile dimenticare.
Era arrabbiato, stanco e assetato.
E ricordava, ricordava tutto.
I suoi pensieri erano annebbiati dalla stancezza e dalla voglia di sangue, finchè non sbarrò gli occhi di colpo.
L'anello dorato che circondava la sua iride era illuminato dal sole pomeridiano, alto nel cielo come una bandiera bianca che gridava alle nuvole di arrendersi davanti a lui.
Harry sorrise.
Odore di sangue.
Ma di cosa poteva essere?
Cervo?
Coniglio?
Poco importava, l'istinto animale di Harry stava prendendo il sopravvento su di lui, la bocca rossa spalancata, in cerca di cibo.
Corse.
Corse velocissimo fino ad arrivare a pochi metri dalla fonte di quell'odore di sangue così pungente.
Solo in quel momento lo riconobbe, sangue umano.
Si sentì mancare, ripensando al sangue che fuoriusciva dalle sue vene, alla vitalità che abbandonva il suo corpo, agli occhi di James.
Cadde a terra, per poi ritrovarsi quegli occhi davanti.
No, non proprio davanti, a qualche metro di distanza, lo scrutavano, ne carpivano ogni dettaglio, dalla testa ai piedi.
No, non potevano essere i suoi occhi.
Eppure, erano così tremendamente simili.
No, questi erano più belli, perché c'era anche una punta di verde.
Era come se la avessero rubata agli occhi di Harry, come se loro due fossero stati incatenati.
Quegli occhi si erano trovati a fissare i suoi.
Subito, il possessore di quelle meravigliose iridi colorate distolse lo sguardo.
C'era un principio di tristezza in quegli occhi.
E c'era un forte, fortissimo odore di sangue umano.
Harry non capiva.
''T-tutto bene?''
Azzardò il ragazzo appoggiato contro il tronco, con voce sottile.
Gli ricordava James in modo impressionante, eppure era più bello, più fragile, semprava un fiore, posato in quel prato.
Harry sorrise.
Qualcosa in Louis si mosse quando vide quel sorriso.
Sembravano essersi fusi, i loro occhi, i loro pensieri, le loro voci che pronunciarono insieme le stesse parole.
''Ehm.. cioè..''
Entrambi si misero a ridere imbarazzati.
Il riccio sorrise di nuovo.
''Prima tu.''
Louis rabbrividì al suono di quella voce roca e profonda.
Non riusciva a rispondere alle parole pronunciate con voce ferma da quel ragazzo.
Louis non aveva mai visto nulla di più bello.
Gli occhi di un verde selvaggio e profondo erano incatenati ai suoi, probabilmente in cerca di una risposta.
''Ehm.. n-nulla, ti ho visto cadere e pensavo..''
Louis deglutì in preda al nervosismo e nascose le braccia dietro alla schiena, tremando.
Quegli occhi, quel meraviglioso sorriso, scatenavano nuovi brividi dentro di lui.
Non era il solito terremoto di emozioni, di rabbia e di paura. No.
Erano brividi piacevoli, come quelli che si sentono da piccoli, appena usciti dalla vasca da bagno.
Louis prese un respiro profondo e guardò a terra, per poi spostare il suo sguardo su Harry.
''..tutto bene?''
Quello sguardo.
Quello sguardo trafisse il cuore di Harry come mille lame, lo lasciò lì, sanguinante, ma non spezzato.
Sembrava avesse, di nuovo, un cuore.
E sorrise.
Sorrise fissando il ragazzo dagli occhi azzurri, per un attimo dimenticandosi della domanda che gli aveva rivotlo.
''Va tutto bene, ero solo molto stanco.''
Harry si schiarì la voce, poggiando un braccio contro l'albero sotto al quale Louis era seduto.
''Tu invece? Cioè, ho sentito odore di sangue e…''
Gli occhi di Louis si spalancarono di botto, erano tornati quei brividi di terrore.
Nessuno doveva scoprire il suo segreto, nessuno.
Non voleva essere aiutato, non voleva dover smettere perché forzato da qualcuno.
Eppure, sarebbe significato che quel qualcuno teneva a lui.
Oh, che stupidaggine, nessuno teneva a lui.
Pensa Louis, pensa.
''Oh, mi sono solo fatto male ad un.. braccio.''
Una lacrima stava per abbandonare gli occhi di Louis, ma la trattenne dentro, implorandola di non mostrarsi a quel ragazzo.
Voleva apparire forte ai suoi occhi.
Ma Louis non era forte, non era forte affatto.
Non riusciva nemmeno a posare quella lametta, a imporsi di sorridere o di andare avanti.
Ormai Louis era in balia di se stesso e degli insulti che gli venivano rivolti.
Delle mancate attenzioni e dei pugni ricevuti.
Harry lo guardò dritto negli occhi e lo vide tremare.
''Sicuro che vada tutto bene? Dai, fammi vedere.''
Harry non sapeva se si sarebbe riuscito a controllare, davanti a del sangue umano.
Oh, ma certo che poteva.
Credeva in se stesso, si fidava di se stesso.
Mai fidarsi di un vampiro.
''No davvero, non c'è bisogno che..''
Harry si sedette accanto a Louis e prese con forza il suo braccio prima che potesse obbiettare.
Lo vide.
Sangue, sangue ricopriva quel candido braccio.
Ma non era il sangue di una caduta, erano tagli.
Quelli che aveva visto su una ragazzina in uno show televisivo.
Solo che quelli erano veri, veri e sanguinanti.
Gli occhi di Louis vennero annebbiati dalle lacrime, metre tirava il suo braccio via da Harry, che continuava a guardarlo senza saoere cosa pensare.
''O-ora penserai che io sia un cretino depresso, e forse hai ragione.. e scusami non volevo che tu vedessi..''
Le parole di Louis erano interrotte da lacrime sfuggite e singhiozzi, cercava di frenare il pianto, ma era inutile.
Si sentiva vuoto, scoperto, denudato.
Harry vide quelle lacrime rigargli il volto, i suoi meravigliosi occhi farsi più lucidi e puliti.
Harry accarezzò piano il braccio di Louis, riportandolo verso di se, e baciò quei tagli.
Non per la sete, non per il bellissimo color rosso scuro che aveva il sangue di Louis, che gli faceva venire l'acquolina in bocca. No.
Per dimostrargli che lui c'era.
Che lui voleva aiutarlo.
Un bacio, un piccolo gesto, che poteva anche sembrare stupido, per Louis era tutto.
Harry si leccò soddisfatto le labbra, e sorrise.
''Va tutto bene, ok? Io sono Harry.''
Louis sorrise, asciugandosi le lacrime strofinando gli occhi contro il suo braccio.
''E'.. è assurdo.''
Non riusciva a smettere di sorridere, era tutto asssurdamente meraviglioso in quel momento.
''Chi è assurdo? Io sono Harry. E tu?''
Un altro sorriso fece capolino sull labbra del riccio.
''L-Louis.''
Il castano sorrise, con le lacrime che continuavano a riempirgli gli occhi celesti.
''Sono Louis e… s-sono felice di averti conosciuto.''
''Non dovresti esserlo. Non mi conosci ancora, se vuoi potremmo approfondire la conoscenza, Louis.''
Harry si sentiva un idiota, quelle parole gli ricordavano tremendamente quelle di James, in quel fatidico giorno.
Eppure lui continuava a ripeterselo, a ripetersi che non avrebbe mai fatto nulla del genere.
Harry era assetato, troppo assetato per controllarsi.
Louis arrossì.
''Come.. come vuoi.''
''Benissimo.''
Harry prese il braccio di Louis, avvicinandolo a se.
Louis sentiva i tagli bruciare, il braccio stretto troppo forte sotto la presa del riccio.
''No Harry scusa io..''
La voce di Louis si fece più leggera e più spaventata, mentre Harry posava le labbra carnose sulle sue labbra sottili.
Pian piano, allentò la presa sul braccio di Louis, facendosi trasportare dal piacere di quel braccio.
Era assurdo, quanto quella scena gli ricordasse di lui e James.
Ma i ruoli si erano invertiti.
No.
Non poteva, non voleva, non doveva.
Harry aprì gli occhi e si staccò di botto, lasciando Louis sull'erba, steso sotto di lui.
''Scusami.''
''No no, non era male.''
Harry sorrise.
''Mi ricorda tanto il passato, Louis.''
''Non ti piace ricordare il passato, Harry?''
''Neache un po'.''
''Nemmeno a me, eppure ero felice, in passsato. Lo sai?''
''Io sto meglio ora.''
''E perché?''
Harry prese un respiro profondo.
''…Mi giudicheresti mai, Louis?''
''Non ti conosco, non posso giudicarti.''
''E se mi conoscessi?''
''Sarei sicuramente innamorato di te.''
Louis lo disse a bassa voce, guardando il suolo, senza aspettarsi una risposta da parte di Harry.
''Conoscimi allora.''
Louis arrossì furiosamente, guardando Harry dritto negli occhi.
E parlarono, parlarono del passato che entrambi odiavano ricordare, parlarono dei problemi che entrambi erano costretti ad affrontare.
Parlarono degli amori, che entrambi dovevano ancora sperimentare.
Le loro mani si toccarono, mentre erano distesi sotto la luce della luna.
Louis fece per tirare la sua indietro, ma Harry la bloccò, e baciò di nuovo quei polsi insanguinati.
Ad ogni bacio, un taglio sembrava divetare cicatrice, un insulto, un'insicurezza, sembrava lasciare la pelle di Louis.
Harry lasciava baci umidi, senza curarsi del sangue.
E non aveva più sete, aveva solo voglia d'amore.
Louis si girò verso Harry e sorrise.
''E così..sei un vampiro.''
''Non mi giudicherai per questo?''
gli occhi di Harry si riempirono di preoccupazione, laciò il braccio di Louis e si mise seduto, continuando a guardare il corpo steso del ragazzo, di cui si era innamorato fin dal primo istante.
''Mordimi.''
Disse Louis con voce ferma, sedendosi anche lui, contiuando a guardare Harry negli occhi.
''Non posso, io..''
''Fallo Harry, fallo. Non potrei più farmi del male, non mi importerebbe più di quegli insulti, non capisci? E poi sarei morto, morto per tutti, ma a nessuno importerebbe! A nessuno importa, Harry.''
''A me importa.''
Louis smise di guardarlo negli occhi per un secondo, e sospirò.
''Infatti, io rimarrò con te.''
Harry sentì il suo cuore battere.
Batteva, batteva come il cuore degli umani.
E sentiva qualcosa scorrere in lui, non sangue, non rabbia, amore.
Era stato sommerso dall'amore di Louis e per Louis.
E ora aveva sete, si, sete di quell'amore.
Sorrise e lo baciò.
Si mise sopra di lui, su quel prato e lo baciò.
Le sue labbra non riuscivano a fare a meno della labbra succose di Louis, lo baciò  e lo ribaciò, e ancora, e ancora e ancora, finchè non ebbe più baci da dare.
Infine, lo guardò negli occhi un'ultima volta.
Sapeva che i suoi occhi non sarebbero stati gli stessi, che forse anche lui sarebbe cambiato.
Ma rendeva Louis felice, Harry era felice.
Ciò che era sempre voluto essere, felice.
I suoi canini affilati entrarono nella pelle morbida e tappezzata di brividi del ragazzo dagli occhi azzurri, succhiando via ogni millilitro di quel sangue, che era stato fin troppo sprecato.
Sentiva venir via dal corpo di Louis la sua anima e la sua vitalità, sentiva tutte le emozioni che aveva provato lui stesso, le vedeva di nuovo sul viso di Louis.
E vide pian piano scompaire quei tagli insanguinati sulle sue braccia, vide il corpo del suo amore, steso tralle sue braccia.
Staccò le labbra dal suo collo, osservando i segni del suo morso, ancora sanguinanti.
Baciò le sue labbra e si addormentò accanto a lui, consapevole che il mattino seguente, ci sarebbero stati solo lui e un nuovo Louis.
Ed era felice.
  
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