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Autore: Matt_Stewartson77    20/08/2013    0 recensioni
come ogni ventenne, Susan Dawson, figlia di una delle più famose famiglie di esploratori, non aspetta altro che un occasione per mettere alla prova le proprie capacità. prende così parte alle spedizione della nave Starlight, alla ricerca di una reliquia spersa nell'Oceano Atlantico. ma qualcosa va storto...
Susan, insieme ai suoi amici, si ritrova naufraga su un'isola non circoscritta sulle cartine, e lì dovrà affrontare le sue paure e combattere contro uomini che vogliano ucciderla. perché la vogliono morta? quale segreto cela l'isola? presto, Susan, imparerà cosa significa davvero la parola "fiducia"
Genere: Avventura, Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Allenamenti


      L’orologio sulla parete segnava le 8:30 AM. Mancavano pochi minuti, e sarebbero arrivati tutti. Per passare il tempo, giocherellai con le posate, come facevo da piccola. Non mi era bastato annoiarmi quella notte, adesso anche la mattina a colazione. Sbuffai sonoramente quando vidi l’orologio segnare le nove, e tutti i posti vuoti, tranne il mio. Ma quando arrivano? Pensai scocciata. Sembrava la giornata della rovescio! Io che mi svegliavo nel cuore della notte, e loro che si svegliavano nel cuore della giornata1
      Ve l’avevo detto che la mia testolina sparava di tutto e di più!
      Finalmente, mamma arrivò. Come mi aspettavo, si sorprese nel vedermi già sveglia e pronta.
      «Come mai già sveglia?» chiese con un sorriso, sedendosi al suo posto, al fianco destro del capotavola, papà.
      «Incubi» dissi. Avevo deciso cos’era, un incubo.
      «Ah!» esclamò sorpresa. In effetti era molto che non ne facevo, e adire la verità, stavo meglio senza «Vuoi raccontarmelo?»
      «No, tranquilla. Una sciocchezza» deviai il discorso ancor prima di cominciarlo. Non mi andava di ricordarlo, e sentirmi di nuovo disorientata. Mamma acconsentì di buon grado.
      Man mano che passava il tempo, il resto della famiglia arrivò. Papà si sedette a capotavola, di fianco a mamma. Poi arrivò nonno, che si sedette al capo opposto. Io preferivo stare al centro, e in modo da guardare la porta che conduceva alla cucina. Volevo tenermi aggiornata, diciamo. La colazione arrivò, e noi finimmo tutto nel giro di una mezz’ora. Nonno e papà andarono nello studio per controllare delle carte, così restammo io e mamma da sole. La stanza fu avvolta dal silenzio più totale. Io e mamma eravamo abituate a lanciarci frecciatine a vicenda, non a conversare amichevolmente. Anche se entrambe sappiamo quando bene ci vogliamo.
      «Allora» iniziò lei, poggiando la sua tazza sul tavolo «Tu e Clark quindi…»
      Oggi era proprio una giornata no! «No mamma» dissi scocciata, alzando gl’occhi al celo.
      «Davvero?» mi chiese ansiosa.
      «Sì mamma, davvero» giocavo con i miei biscotti preferiti, giocavo con tutto quello che mi capitava tra le mani quel giorno.
      «Ma ieri sera…»
      «Ieri sera non è successo niente mamma!» la interruppi.
      «A me sembrava proprio di sì»
      «Uffa, mamma! Ti ho detto che non c’è niente, basta!» non la reggevo più.
      Lei si ammutolì e balbettò un «Se lo dici tu» c’erano due cose che in quel momento mi andava di dirgli: la prima. Lei non poteva entrare ed uscire a piacimento dalla mia camera! Metti che io e Clark stavamo… ok. Adesso la pervertita sono io! La seconda. Non era ugualmente affari suoi su chi volevo frequentare, certo era mia madre e aveva il diritto di saperlo, ma non tormentarmi.
      «È carino» disse senza guardarmi.
      «Sì» acconsentii.
      «Dì la verità» mi puntava come un cane da tartufi che aveva udito l’odore di essi nelle vicinanze «Hai intenzione di…»
      «Mamma!» la rimproverai. Ma cosa diavolo gli era preso a tutti stamattina?! Prima a Clark, poi a Rosie, e adesso anche a mia madre. Lei alzò le mani a mo’ di resa. Finalmente!
      «Forse» mormorai a voce bassa, sperando che non mi sentisse.
      «Lo sapevo!» si era alzata di colpo, facendo finire quasi tutto attera, e provocandomi un mini-infarto «Ah-ah, niente sfugge agl’occhi della mamma! Lo sapevo che ti piaceva Clark, ne ero S-I-C-U-R-A!» la guardavo sempre più sconcertata.
      «Mamma abbassa la voce! Vuoi che lo venga a sapere tutta la servitù?» gli urlai, quando mi ripresi dal mio shock.
      «Lo sapevo!» ripeté «fin dall’inizio. Ai primi tempi non ne volevo sapere perché ero preoccupata che fossi troppo piccola, ma poi, man mano che ho conosciuto più in fondo Clark, ho capito che era davvero un bravo ragazzo. Certo, ci sarà da discutere con tuo padre della sua situazione, ehm… economica, ma a me non importa. L’importante è che tu sia felice con lui» parlava a raffica senza fermarsi nemmeno un millesimo di secondo «ma sai, in fondo credo che anche a tuo padre andrà bene. Te l‘ho detto, ci importa che tu sia felice, nient’altro. Quella sera che gli ho rivelato le mie deduzioni non ci voleva credere, poi ha ceduto e l’ho convinto a…»
      «Tu cosa?!» sbottai «L’hai detto a papà? Senza esserne sicura?»
      «Veramente ne ero più che sicura! Guarda adesso, siete fidanzati!» disse con un sorriso che gli divise la faccia in due.
      «Mamma, non so più come ripetertelo… Non. Siamo. Fidanzati. Chiaro?»
      «Non adesso, ma poi…» mi fece l’occhiolino «Oh, sono sicura che in viaggio vi troverete bene insieme…» si bloccò di colpo, chiudendosi la bocca con la mano destra.
      «Cosa?»
      «Ops. Nulla, fa finta di non avere sentito niente, ok?» fece un sorriso sghembo e scappò letteralmente via dalla stanza, chiudendosi la porta dietro.
      Mi lasciò sola nella sala pranzo, con ancora in testa le sue parole “Sono sicura che in viaggio vi troverete bene insieme”cosa voleva dire? Quale viaggio? Il mio? Impossibile, avrebbe dovuto contattare prima mia zia, e non l’ha fatto. Forse intendeva un futuro viaggio della famiglia? Ma lui che cosa centrava? Non era di famiglia. Forse voleva portarlo con noi? Perché? Per la mia... cotta? Nah, sarebbe da stupidi! Aspetta, stiamo parlando di mia madre!
      Cosa diavolo aveva combinato?! Qualche guaio, sicuro.
      Sbuffai. Ma perché, perché doveva essere sempre così impicciona? La risposta non c’era, non perché non la conoscevo, ma perché non esisteva. Lei era così, e crollasse il mondo, non sarebbe cambiata di una virgola.
      Quando sentii la porta aprirsi, alzai la testa a controllare chi fosse.
      «Oh, sei ancora qui?» Clark era sulla soglia della porta, con una cesta in mano, pronta a sparecchiare.
      «Sì, devo andare?» feci per alzarmi.
      «No, tranquilla. Puoi rimanere se vuoi»
      «Grazie» mi lascia andare di nuovo sulla sedia.
      «Qualcosa non va?» chiese guardando la mia espressione.
      «Sì, tu!» lo guardai in cagnesco.
      «Io?! Che ho fatto?»
      «Mi sconvolgi la vita! Ecco cosa»
      «Anche tu la sconvolgi a me» disse, e iniziò a sparecchiare.
      «Non era una dichiarazione, stupido» lo rimproverai. Mi misi dritta sulla sedia, e gli passai la mia tazza, che lui ripose nella cesta.
      «La mia sì» disse con incuranza. Lo guardai incuriosita. Quando si accorse di come lo stavo guardando disse «Che c’è? Non dirmi che non lo sapevi!»
      «No, certo che lo so, però da ieri sera mi hai sconvolto la vita»
      «Anche tu» ripeté.
      «Piantala! Comunque intendevo che… non lo so, prima l’incubo, poi tutti che escono pazzi!» rabbrividii solo al ricordo di entrambi.
      «Ah, giusto. L’incubo. Ti va di raccontarmelo?» si sedette sulla sedia di fianco a me, e posò il cesto ormai pieno sul tavolo.
      «È stupido, riderai di me» abbassai il capo.
      «Ti prometto di non ridere» si poggiò scherzosamente una mano sul petto.
      Risi «Ok, ma se ridi guai a te! Allora, ero sulla nave, con una persona che non riuscivo a riconoscere, e per qualche strano motivo andava nella cabina di pilotaggio, da mia zia. All’inizio sembrava tutto normale, poi lei mi fissava in modo… strano» rabbrividii al ricordo «poi la nave iniziava a pendere da un lato. Di colpo mi ritrovo in una specie di deserto, o spiaggia, e lì trovo un uomo che… che mi uccide» terminai il racconto con un sospiro.
      Clark, di fianco a me, mi guardavo ancora preso dalla storia «Stupido eh? La mia testolina ha bisogno di un controllo!» dissi ironicamente.
      «È solo un sogno Susy, o meglio, un incubo. Non hanno coerenza, tranquilla. Ok?» annui con il capo. Lui mi sorrise e disse «Beh, adesso vado a portare queste di là» e si alzò, afferrando il cesto ed avviandosi in cucina.
      «Ah» si bloccò, e si voltò a guardarmi con un sorrisetto sulle labbra «La tua testolina è perfetta» si volto, e chiuse la porta.
      Sorrisi.
      Riusciva sempre a tirarmi su’, ma come riusciva a farlo, mi restava sempre ignoto.
      Passai per la porta principale, quella che dava sul salotto, e salii in camera mia.
      Quel giorno passo in modo spaventosamente veloce, ma lo stesso non si poteva dire per gl’altri, noiosi e… noiosi. Par passare il tempo contavo i giorni rimanenti alla partenza per la spedizione con zia Jasmine. Mancava poco che iniziassi a contare anche ore, minuti e secondi.
      Mia madre, sembrava aver superato lo “shock” della mia partenza. Ormai aveva capito che era quello che desideravo, che volevo fare, e non poteva impedirmelo «L’importante è che tu sia felice, e sicura di quello che fai» aveva detto un giorno, ed ero sicura che era quello che volevo. Non potevo disonorare il nome della nostra famiglia, o almeno, non sarei stata io.
      Continuavo a ripetermelo per convincermi che era la cosa giusta da fare, che non c’era altra soluzione se non la partenza. Papà e zia Jasmine era entusiasti della mia scelta. Come potevano non esserlo? Un’altra discendente della famiglia Dawson stava per fare il suo primo passo verso il mondo degli esploratori, il mondo Dawson.
      Rosie si comportava alla stessa maniera di sempre con me, ma sapevo che dentro di lei era triste per la mia scelta. Non ci aravamo mai divise per un lasso di tempo così lungo, massimo una settimana. Stare lontana da me la uccideva, e lo steso valeva per me. I nostri, erano pensieri reciproci: chissà che farà tutto questo tempo senza di me? Come starà? Si sentirà sola? Chi le romperà le scatole?
      Ma anche lei aveva capito che volevo farlo, era una mia scelta che avrei mantenuto fino in fondo!
      Quanto tempo potrei stare lontana da casa? Quanto sarebbe durata la spedizione? Tre mesi? Quattro? Cinque? ... Un anno?
      George, come mamma, aveva accettato l’idea che ero cresciuta, ero responsabile delle conseguenze –qualsiasi fossero- delle mie scelta, che me la sarei cavata, in qualche modo «Assomigli ogni giorno di più a tua nonna Lily, Susan» mi ripeteva quasi ogni giorno. Non so se lo faceva per incoraggiarmi, o per cos’altro. Già, nonna Lily, il fatto del suo ultimo viaggio finito male proprio nella destinazione che avevo scelto io, non mi tranquillizzava molto, ma continuavo a ripetermi che era solo una coincidenza.
      Sì, coincidenza.
      In somma, in questi giorni non facevo altro che tranquillizzare me, e gl’altri. E ci si metteva anche Clark. Ogni giorno mi incitava a non andare, a restare lì, a casa, con i miei parenti, amici, con lui. Era straziante vedere il suo volto carico di malinconia quando lo diceva. Maledetti sentimenti! Perché non poteva essere facile come una gita? Perché ogni cosa era così difficile nella mia vita? Clark era l’unico di tutta la casa che mi incitava a restare. Che fosse un piano di mamma? Nah, improbabile. Quando voleva era malefica, sì, ma non fino a questo punto, fino a spingere Clark a convincermi a restare.
      Comunque sia, io sarei partita, qualsiasi cosa loro avessero fatto.
      A “confortare” i miei giorni, venne una notizia… non so ancora se positiva, o negativa.
 
      «Buongiorno a tutti!» il solito saluto alla servitù in cucina di ogni mattina. Dal giorno dell’incubo, avevo cominciato a svegliarmi molto prima del solito. Verso le sette, e a volte anche più tardi.
      «’Giorno Susy» Clark fu il primo a salutarmi, seguito da George e il resto della servitù. Avevo lasciato Rosie in camera mia, indaffarata a mettere ordine.
      «Come va, capo?» diedi un bacetto sulla guancia rugosa di George.
      «Perché non saluti anche me così?» si intromise Clark, mentre prendeva delle tazze nel ripostiglio di fianco a me.
      «Geloso!» lo insultai, facendogli la linguaccia. Mi fece un sorriso di risposta, e andò a finire di apparecchiare in sala pranzo.
      «Bene, a parte la vecchiaia si intende. Voi?» rispose George, quando gli riportai l’attenzione.
      «Non mi lamento» risposi scherzosamente «Perché non hai mai pensato alla pensione?» gli chiesi afferrando un biscotto dalla cesta di Clark che stava portando di là, meritandomi un’occhiataccia da parte sua.
      «E dopo chi vi sfamerebbe?» esclamò, mentre osservavo il modo in cui mangiavo il biscotto. In effetti ero a dir poco vorace. George era il solito anziano che non pensa alla pensione, ma al suo lavoro. Gli piaceva così tanto che a volte, la sera tardi, doveva andare mamma ad ordinargli di andare a letto. Non riuscivo a capire il suo amore verso quel tipo di lavoro, in somma, era un servo no? Certo, io facevo di tutto per trattarlo nei migliore dei modi, per la sua età e tutto il resto, ma lui a volte, la respingeva addirittura. Quando glielo chiedevo, lui rispondeva sempre allo stesso modo «Mi piace, signorina. Che ci posso fare?» io, ovviamente, non avevo mai ribattuto perché i gusti sono gusti, ma mi suonava sempre strano. E puntualmente, ogni volta lasciavo perdere. George era un libro chiuso con una ventina di lucchetti, e con la copertina talmente vecchia, da non riuscire ad intravedere una lettera del titolo. Papà diceva che soltanto la nonna Lily lo capiva, e logicamente, mio nonno Victor aveva sviluppato una vera e propria antipatia verso di lui, forse la gelosia, chi lo sa!
      Feci spallucce, e mi avviai in sala pranzo, erano già tutti lì. Mi accomodai al mio posto, di fronte alla porta della cucina, e iniziai a sorseggiare il mio caldo cappuccino, con tanto, tanto cacao. Nonno non aveva detto una parola, era tutto preso a leggere un quotidiano, e di tanto in tanto faceva un’espressione schifata verso di esso, o meglio, verso le notizie che riportava. Mamma e papà parlavano di qualcosa che non riuscivo a capire, prima parlarono del mare, dei pesci che lo abitavano, i coralli eccetera, poi di ginnastica. Mi vennero in mente i ricordi della mia infanzia, quando praticavo ginnastica ed aerobica, come tutte credo abbiate ormai capito, mi ci aveva quasi costretto mio padre a praticarlo –ovviamente, nella palestra della casa- ma poi mi ci ero appassionata, e iniziò a piacermi. Arrivata ai 18 anni, smisi di praticarla. Di tanto in tanto, vado in palestra per tenermi allenata quel poco che mi basta.
      «Tesoro» mamma mi distolse dai miei ricordi.
      «Sì, mamma» dissi osservando il centro del tavolo, in cerca di qualcos’altro da sgranocchiare. Afferrai una fetta biscottata, e il barattolo di marmellata di mirtilli.
      «Tesoro, pensavamo di farti ricominciare a praticare o ginnastica, o aerobica. Quello che preferisci» disse papà.
      «Ok» dissi non curante, mentre spalmavo la marmellata. Del tronde, come avevo detto prima, mi piacevano, o l’una o l’altra, era indifferente per me «Perché?» chiesi, addentando finalmente la mia creazione.
      «Per la spedizione, Tesoro» disse mamma, scrutandomi silenziosamente. Probabilmente aspettava una mia reazione, forse di rabbia, ma ormai mi ero arresa.
      «Va bene. Quando inizio?» mi presi un’altra fetta dal cesto.
      «Quando vuoi, Tesoro» disse papà, entusiasta dal mio comportamento «Quale ti pacerebbe praticare?»
      «Posso farli entrambi?»
      «Certo!» esplose di felicità mia madre. Credeva che la ginnastica mi avrebbe aiutata a sopravvivere su una nave. Ma in realtà non c’era scampo, la nave ci avrebbe ucciso tutti! Nessuno escluso! Pff.
      «Vuoi praticare anche armi, o roba simile, tesoro?» domandò ancora papà, meritandosi una gomitata da mamma, e lui si rimangiò subito tutto, mimando con le labbra «Non fa niente» avevo già seguito corsi di armi, almeno se arco e lancia lo erano. L’avevo praticato circa due anni fa, ma poi ho lasciato per noia, ma me la cavavo ancora bene con la mira.
      «Posso iniziare stesso oggi?» se proprio dovevo farlo, mi sarei allenata il prima possibile, per essere in forma –anche se non avrebbe fatto differenza- il giorno della partenza.
      «Oggi? Ehm… aspetta un secondo» disse papà, e poi entrò in cucina.
      In cucina? Che diavolo doveva fare adesso in cucina? Guardai mia madre, incuriosita. Lei face spallucce, come a nascondermi qualcosa. Preferii non costringerla a parlare, avrei soltanto sprecato tempo, quando decideva che qualcosa doveva rimanere segreto, nemmeno a Dio in persona lo riferiva. Continuai a mangiare la mia fetta biscottata, aspettando che mio padre tornasse.
      Rientrò dopo una decina di minuti, con un sorrisetto compiaciuto sul volto «Oggi va bene. Ti faccio trovare la palestra pronta per le cinque. Va bene?» annuii con il capo, e finii la mia colazione.
      Chissà cosa aveva combinato in cucina? Dannazione! Da qualche giorno a questa parte, in questa casa si sono rincoglioniti tutti! ‘unico che era rimasto fedele a se stesso, era mio nonno. Lo guardai mentre lanciava imprecazioni al giornale, roteai gl’occhi e mi alzai dal tavolo, liquidandoli con un «Ci vediamo oggi» passai per la cucina. George era dove l’avevo lasciato, gli altri stavano facendo vari servizi in giro, notai che mancava Clark. Mi guardai interrogativa in giro, in cerca di una chioma color cioccolato in giro, ma non ne vidi nessuna. Feci spallucce, e uscii, dritta in camera mia.
      Dov’è Rosie? Pensai mentre salivo le scale, diretta in camera mia In cucina non c’era entrai nel cori doglio, e a grandi falcate raggiungi la mia camera, aprii la porta e mi ritrovai una furia addosso.
      «TU!» Rosie mi era saltata addosso, e adesso ero diventata una cosa con la porta «COSA DIAVOLO HAI COMBINATO IREI SERA?!» mi urlò, rossa di rabbia in volto. È ancora in camera mia pensai ironica.
      «Perché?» chiesi con fare innocente.
      «Perché?! Guarda tu stessa!» e si scansò, per farmi guardare la mia camera. Era letteralmente sotto-sopra. Non si capiva niente. I comodini tutti aperti, e la roba al loro interno, per terra di fianco a loro. Le anche dell’armadio spalancate con i vestiti stesi per terra. Sul divano, mancavano i cuscini, entrambi ai due opposti della stanza. La sedia che dovrebbe essere alla scrivania con il computer, era alla parte opposta di esso. L’unica cosa in ordine era il letto.
      «Da stamattina alle nove sono riuscita a mettere in ordine solo il letto!» ecco perché «Era… smontato! Cosa diavolo hai combinato stanotte?!»
      Mi sforzai di ricordare cosa avessi combinato la sera prima, ma di certo non avevo dato il via ad una battaglia, poco ma sicuro! Feci spallucce e, con un sorrisetto innocente dissi «Sonnambola?»
      Mi guardò torva «Susan, tu non sei sonnambula!» mi aveva beccato «Aiutami adesso»
      «Certo!» e mi fiondai sul pavimento, a raccogliere la roba contenuta nei cassetti.
      Dopo circa mezz’ora, finimmo. La camera adesso era accettabile.
      «E vedi di non combinare altri casini ok?»
      «Sissignora» dissi, e Rosie uscì dalla mia camera, chiudendosi la porta alle spalle. Ma cosa diavolo avevo combinato lì dentro la sera prima? Che io mi ricordassi, verso le undici mi sono coricata, e prima ancora, ho passato tutto il tempo al computer ad uno stupidissimo gioco per PC.
      «Mah!» esclamai, e mi lanciai di sasso sul divano. Rimasi così per un quarto d’ora, poi mi misi a sistemare gl’abiti nell’armadio –per andare più veloce, li avevo ammucchiati soltanto-
      Arrivato mezzo giorno, scesi in cucina da George ad aspettare l’una per pranzare, la frecciatina da parte di Clark non mancò «Passi più tempo con lui che con me!» disse scherzoso, posando l’ormai nota cesta, sullo scaffale di fianco a dove mi ero seduta io.
      «Certo! Lui è il mio promesso sposo!» scherzai, abbracciando George, che scoppiò in una sonora risata, seguito da me e Clark.
      «Ehi, Clark?» lo richiamai mentre sistemava le posata e bicchieri nella cesta.
      «Dimmi, bellissima!» esclamò lui.
      Lo ignorai «Che fine avevi fatto stamattina, dopo la colazione?»
      «Oh, ero a sistemare delle cose in giro, perché?» mi rivolse uno dei sui ghigni «Ti mancavo?»
      «Non sai quanto!» ressi al gioco.
      «Bene, allora dopo pranzo raggiungimi nello sgabuzzino, ok?» disse noncurante delle sue parole.
      «Clark!» urlammo io e George all’unisono, sconvolti.
      Lui rise di gusto «Stavo scherzando, tranquilli» poi si ricompose «Non ti sarai mica offesa?» mi guardò interrogativo.
      «Nah, ti conosco da troppo tempo per farmi offendere da te, scemo» dissi con un sorriso, per non sembrare troppo dura.
      Appena vidi l’una e un quarto sull’orologio a muro della cucina, mi precipitai al tavolo, stare con loro mi faceva perdere completamente la cognizione del tempo.
      Nonno, come al solito, era infastidito dal mio piccolo ritardo, e teneva il broncio, papà teneva la forchetta in una mano, e il coltello nell’altra. Fu facile capire che aveva fame. Mamma lo guardava, trattenendo una risata, in effetti, era abbastanza divertente, così. Io mi accomodai al mio posto, e aspettai che arrivassero con il pranzo. Egli non tardò ad arrivare.
      Mangia tutto d’un fiato. Stranamente ero affamata, non mi capitava mai di mangiare così, di solito mangiavo poco. Nonno, come al solito, toccò poco e niente, maritandosi le urla da parte di mio padre. Mamma e io restammo impassibili, quasi ogni giorno ci toccava assistere a quella scena.
      Finii il mio pranzo, e mi allontanai dal tavolo. Prima di uscire dalla stanza dissi «Alle cinque, papà» e lui acconsentì con il capo. Passai per la cucina salutando George e Rosie, e facendo una smorfia a Clark, e mi diressi in camera, decisa di schiacciare un pisolino prima delle cinque. Arrivata a destinazione, mi fiondai nella cabina-armadio, in cerca di qualcosa di comodo da usare per l’allenamento.
      Scelsi un panatone da ginnastica che arrivava al ginocchio grigio, una maglietta a bradelle rossa e un paio di scarpe da ginnastica. Poggiai gl’abiti sulla spalliera del divano, e le scarpe ai sui piedi, dopo mi avviai verso il letto e mi stesi, puntai la sveglia alle 4:35 circa, in modo da riprendermi del tutto prima dell’allenamento, e mi appisolai.
      Il suono fischiettante della sveglia era una tortura per le mie orecchie. Alzai la mano più vicina la comodino, e lo palpai, in cerca della dannata sveglia. La feci cadere sul pavimento «Dannazione» esclamai, ancora assonata. Raccolsi la sveglia da terra e la spensi, poi controllai che sul pavimento non ci fosse alcun graffio, Rosie mi avrebbe ucciso, aveva un occhio di falco su queste cose.
      Mi misi seduta sul materasso, e mi strofinai forte gl’occhi. Mi alzai e, barcollando, presi gli indumenti dal divano e mi avviai in bagno.
      «Sei perfetta Susy, come sempre» dissi sarcastica, guardandomi allo specchio. Scrutai il pettine di fianco al lavandino. Pettinare o non pettinare? Questo è il dilemma! Ok, valutiamo le scelte: pettinare, una tortura senza fine che ti strappava ciocche intere senza alcun risultato; non pettinare, meno dolore, e quindi, meno sofferenze per tutti. Picchiettai sul marmo, decidendo sul da farsi.
      «Al diavolo!» esclamai. Aprii uno dei cassetti, e vi presi un elastico. Mi feci una coda di cavallo ben salda, per impedire che mi finissero davanti alla faccia durante l’allenamento, anche se qualche ciocca si era già ribellata. Voglio essere un maschio!
      Mi vestii e uscii dalla mia camera. Ero in perfetto orario. Scesi in salotto dove mamma era intenta a leggere una rivista insieme a Rosie sul giardinaggio. Le salutai, e mi avviai sul retro della casa, dove si trovava la palestra. Il sole era ancora alto in celo, ma faceva ancora un po’ freddino, mi strinsi nelle spalle, e accelerai il passo. I giardinieri, intendi nel loro mestiere, mi salutarono cordialmente; li salutai di rimando e mi precipitai nella palestra.
      «Eccoti, sei un po’ in anticipo tesoro» papà era sul fondo della grande stanza, anche lui vestito sportivo, avrà approfittato dell’uso della palestra per allenarsi anche lui. La stanza era larga e alta. In fondo c’erano gli attrezzi per i muscoli singoli; sollevamento pesi, flessioni; più avanti quelli per aerobica; aste sospese, staccionate.
      «Ho fatto più in fretta del previsto papà, e poi, ero un po’ eccitata. Non faccio seriamente palestra da molto» mi giustificai con un sorriso. Stavo già iniziando ad abituarmi alla calda temperatura della stanza.
      «Sempre volenterosa, eh?» una figura che non avevo notato prima, spuntò da un angolo.
      «Ancora tu?» chiesi scocciata, quando misi a fuoco l’immagine.
      Clark, vestito come papà, fece spallucce e indicò papà «È stato lui a chiedermelo» guardai stizzita mio padre.
      «Tu?! E perché?»
      «Perché durante la spedizione ci sarà anche lui con te» diede una pacca sulla spalla a Clark «e non era giusto nei sui confronti era avvantaggiata»
      «Avvantaggiata?» ripetei «Avvantaggiata per cosa? Stare seduta o camminare su un ponte di una nave?»
      «Non ricominciare, Susy» papà sembrava scocciato dalla mia reazione, e non aveva nessuna ragione di esserlo, anzi, dovevo esserlo il al posto suo. Non solo non mi dice che Clark partirà con me, ma lo invita –sempre alle mie spalle- ad allenarsi con noi inutilmente.
      «No, papà. Non ricominciare tu!» mi avvicinai di qualche passo a loro «Ne avevamo già parlato, se non ricordo, giusto?»
      «Sì» ammise «ma io non ti avevo assicurato niente Susan. Pensavi davvero che ti avrei lasciato partire da sola…»
      «Stranamente sì» sussurrai, fissandolo dritto negl’occhi. Ancora non si fidava di me, e la cosa mi feriva più della sveglia di poco prima. Avevo creduto, mi ero illusa, che quella discussione nel suo ufficio era iniziata e conclusa lì, invece aveva una seconda parte, in palestra, con Clark ad assisterci.
      «… senza nessuno di cui mi fidassi?» continuò, come se io non avessi proprio aperto bocca.
      «E ti fidi di lui?! Di Clark?!» lo indicai, senza degnarlo di uno sguardo. Guardarlo in quel momento, avrebbe scatenato un’altra discussione con lui.
      «Ehi!» esclamò lui, offeso.
      Non lo ascoltammo nemmeno «È l’unico di questa casa che ti è vicino, amico»
      «George, Rosie…» lui in risposta mi lanciò una sguardo Ma ti senti? «Ok, ok forse loro non sono proprio adatte» dissi osservando la sua espressione «Ma… ma zia Jasmine?» lo provocai, puntandogli un dito in pieno petto. L’onore. Il suo punto debole.
      «Tua zia Jas sarà occupata come capitano, Tesoro, non potrà pensare a te» dannazione, aveva pensato proprio a tutto.
      «Ma… ma…» cercai di trovare una scusa, qualsiasi scusa, per partire da sola.
      Partire con qualcuno avrebbe potuto manomettere il mio piano. La gente avrebbe creduto che me la sono “cavata” –che poi, io fatico in quella spedizione, non ce la vedevo nemmeno ad un miglio di distanza- perché c’era lui ad aiutarmi, a sorreggermi, e che non sarei stata io, sola, con le mie forze a cavarmela. Dovevo partire da sola.
      «Non ci sono scuse Tesoro, lui…» indicò con il mento Clark, che si era allontanato per lasciarci discutere «… partirà con te. Punto.»
      «No. Non è punto, papà» ribattei «Zia Jas lo sa?»
      «Sì, l’ho già contattata» sbuffo.
      «Quando?»
      «Quella sera in cui voi due…» non terminò la frase. Lanciai uno sguardo veloce a Clark e subito abbassai lo sguardo per paura di arrossire al ricordo. Allora mamma glielo aveva detto, me la avrebbe pagata «… ricordi che tua madre è venuta a cercarlo» annuii senza parlare «quella sera gli abbiamo parlato, lui ha accettato, e abbiamo contattato zia Jas»
      Sbuffai sonoramente all’idea che, per chissà quanto tempo, saremo stati io e Clark su una nave. Certo, non saremo stati soli, e le uniche persone che conoscevo su quella nave erano lui e zia. E come aveva detto papà, lei era impegnata nei suoi doveri da capitano, e non avevo scelta se non parlare con Clark, o chiudermi nella mia cabina come un’emancipata. La visione del viaggio si presentava come una vera merda.
      Guardai Clark, rossa di rabbia. Lui alzò le mani a mo’ di resa, come per scusarsi. Aveva accettato, poteva benissimo rifiutare invece, ma non lo ha fatto. Potevo capirlo, insomma, lo avevano capito anche i giardinieri che aveva una cotta per me.
      Sbuffai, e mi arresi «Va bene» sussurrai in direzione di Clark. Lui si aprì in un sorriso. Evidentemente non sapeva che una volta sulla nave, le previsioni erano del tutto diverse da come le prevedeva lui, avrei preso le asce di guerra per massacrarlo. Me l’avrebbe pagata cara, molto cara.
      «Perfetto» sintetizzò papà «iniziamo allora»
      Gli allenamenti erano faticosi. Papà ci faceva lavorare sodo, sia a me, che a Clark. Alla fine del primo allenamento, disse che dovevamo vederci tutti i giorni allo stesso orario. Ogni giorno gli allenamenti si facevano sempre più estenuanti. Qualche volta mamma e Rosie venivano a vederci allenare, e per scherzare, facevano il tifo su di noi, come in una gara. Papà prese man mano sempre più confidenza con Clark, adesso si potevano definire amici. Ogni sera uscivamo dalla palestra alle 9, stremati. Parecchie volte, mamma incitava papà a ridurre gli allenamenti perché troppo faticosi, ma lui diceva che il tempo era poco, e noi dovevamo essere pronti per il giorno della partenza.
      Pronti. Pronti per cosa? Non dovevamo andare in giro per la foresta amazzonica o roba del genere, dovevamo restare su una nave, una nave a basta; massimo un’immersione, ma non una corsa contro la sopravvivenza!
      Come papà aveva imparato ad accettare Clark come amico, anche io imparai ad accettare l’idea di averlo con me durante la spedizione. Mi lanciava di continuo frecciatine, e facce buffe; un modo per farmi ride. E ci riusciva bene. Se tutta andava bene, mi sarei anche divertita durante il viaggio con lui.

  
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