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Autore: crimsontriforce    25/02/2008    1 recensioni
Basta una possibilità. Una sola. E il mondo può cambiare.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Dieci anni fa, la stessa strada'
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Vincitrice del concorso “Arché” di True Colors, che aveva come tema il principio e/o una serie di 'archetipi eroici' che simboleggiano la crescita dell'individuo. Io ho trattato il principio e l'intero percorso dell'uomo, secondo un'interpretazione che prevede sei archetipi: in ordine, Innocente, Orfano, Viandante, Guerriero, Martire, Mago.
A voi! (aspirine a carico della casa...)

(Nota: ritraduco spesso e volentieri i nomi specifici causa inveterato disgusto per la resa della versione italiana. Qui, in particolare, ricorre evocatore invece di invocatore, c'è un'evocazione finale invece di suprema, Piana della Calma e non della Bonaccia mentre Bevelle, poveretta, ritorna santa.)





Basta una possibilità. Una sola. E il mondo può cambiare.

Nel cerchio, un inizio



Dieci anni dopo


Il cielo esplode in una miriade di frammenti di luce danzanti e la sua origine è ora, uno, due, tredici, trecentosettantamilaquattrocento giorni prima o mai, perché nell'evocare eterno che è Sin tutto è illusione e realtà e perenne estasi di un istante. Un destino che è già nel nome con cui lontani antenati maledissero questa terra, reso storia dalla furia di una guerra antica.
Si può pensare che la fine del cerchio sia iniziata dal caso, dieci anni prima, da un involontario colpo di coda che oltre alle spoglie rocce del Gagazet spazzate dai venti ha lambito le acque esterne di una città che non dorme mai portando un singolo sogno confuso oltre il risveglio, alla luce del sole. È una verità. Ma considerarla l'unica non renderebbe giustizia alle speranze e all'impresa di tre uomini, fallibili, fragili, opposti nel sostenersi disperatamente l'uno all'altro.



Emozione – inizio – innocente e martire


Zanarkand, si dice, non dorme mai. Jecht lo sa. Da quando il tramonto si spegne sul mare e le luci gialle artificiali risalgono dal porto fino a riversarsi sulle cime più alte dei palazzi, la città vive e pulsa come un unico corpo. Jecht ne è il re, conosce ogni flusso dell'abbagliante città notturna e vi si immerge completamente, disperdendo la sua coscienza frammentata dall'alcool alla ricerca dell'ebbrezza di una festa, dell'adorazione delle folle che lo fanno sentire unico indispensabile e perfetto.
La mattina, come il riflusso della marea, lo riporta stancamente a casa, verso quella che ritiene indifferenza o aperto odio. Non gli importa: fra poche ore uscirà ancora nell'idillio di una vita vuota. Quelle notti, e i giorni passati ad annullarsi nella fisicità pura del blitzball, sono tutto quello che chiede alla sua esistenza.
Da uno degli edifici più alti, la cui architettura sinuosa svetta sul centro e sullo stadio, allunga una mano come a ghermire l'ammasso di luci e colori che si avvicenda al di sotto e quello che vede è una città ideale che esiste unicamente per lui. Chiude il pugno e si sente vivo.

Quando dorme, spesso Jecht sogna se stesso – non se ne sorprende, perché il suo mondo non si compone d'altro che sé e riflessi di sé. Ma ha paura di quello che vede. La pelle marcia cade e si scopre cavaliere in armatura scintillante, pronto a dar battaglia per difendere gli oppressi. Vorrebbe gridarsi di smetterla con quelle stupidaggini, di tornare indietro, ma la gola è secca e può solo stare ad osservare mentre quello strano Jecht si getta nella lotta e viene subito trapassato da innumerevoli spade. Cade in ginocchio e la terra morbida accoglie tutto il suo sangue, lasciandolo grigio, freddo e immobile come una statua.
Spesso si sveglia madido di sudore e si giura di non chiudere più occhio fino a che le forze e i liquori lo sosterranno. Spesso è l'unica promessa cui tiene fede.

Ora invece che è diventato quello e altro, sacrificato – reso sacro, per sua scelta – in Sin, non rimpiange ciò che si è lasciato alle spalle. Ogni fibra del suo nuovo corpo è dolore, ogni senso è dolore, ma nel sogno eterno dell'evocazione il suo sostegno è la consapevolezza che, finché resisterà, la bambina più dolce che abbia mai conosciuto, il cui sguardo diverso e ridente non l'ha più lasciato, potrà andare a dormire ogni sera senza paura che un mostro venga nel buio e la porti via.
La vorrebbe presentare a suo figlio.



Mente – crescita – orfano e guerriero


Auron cammina in silenzio lungo le strade di San Bevelle, al calar della notte. Altre sagome gli sfilano a fianco, indistinte nell'azzurro della sera che si riflette nell'acqua dei canali e nei simboli sacri. I suoi maestri, al Tempio, gli ricordano ogni giorno che proprio l'azzurro è il colore della serenità, della meditazione, quello cui dovrebbe rivolgersi per quietare la rabbia che lo tormenta. Non gli riesce facile né mai vi si è veramente abbandonato: il suo cuore palpita invece per il rosso delle mura sotto il sole abbagliante, quando anche l'Inno che a ogni ora viene intonato nel chiostro riesce a sembrargli un canto di guerra. Dichiarare guerra al creato, questo vorrebbe Auron, che fin da quando ha memoria non ricorda che delusioni. Vedendo morire sotto i suoi occhi ideale dopo ideale, è stato cresciuto da preti corrotti per unirsi alle fila di monaci indifferenti e non passa giorno senza che si ripeta che, con una tale umanità, non c'è speranza che Sin li abbandoni. A volte, quando gli strascichi della distruzione si infrangono contro i bastioni della sua città con la forza di un maremoto, si scopre a pensare che il tempo degli Alti Evocatori è ormai finito e l'unica soluzione sensata sarebbe abbandonarsi alla morte, unica possibile espiazione del comune peccato. E delude se stesso nel pensarlo, ma non può farne a meno e tenta di fare ammenda con preghiere cui fatica ad abbandonarsi. Un'ulteriore amarezza, questo difetto di fede, che già inizia a scavare delle rughe sulla sua fronte giovane.

Idana... no, lei non è una delusione – è, anzi, l'unica gioia che la vita gli abbia riservato e non se la lascerà sfuggire fra le mani. Sta andando da lei stasera, attraverso vicoli e strette strade fino a uno dei luoghi dei loro appuntamenti.
“Un promettente monaco guerriero e la figlia del sacerdote”, gli aveva detto, sognante, qualche giorno dopo essersi scambiati voti di fedeltà: “un'unione perfetta.” Ci credeva, e Auron con lei. Le sue carezze sono per lui gioia, la sua risata ristoro dai pensieri di distruzione. Non troverebbe motivo al mondo per smettere di ammirare i suoi capelli bruni ricadere sciolti sui paramenti da accolita se non il semplice atto di toccarli, sentirli suoi. Ha finalmente qualcosa da proteggere e lo tiene stretto a sé con ogni suo pensiero, che col tempo si tramuta in parole e gesti anche sgarbati, di gelosia. Giusta espressione di un sentimento profondo, si dice per attutire i sensi di colpa.
È solo la sua solitudine che ha preso un'altra forma, ma, con la ragione intorpidita da un piacere sincero, Auron non se ne rende conto.

Solo quando la parola “Pellegrinaggio” entra di prepotenza nella sua vita comprende cosa significhi veramente proteggere, combattere e, nel senso più alto che possa legare due persone, amare.
Idana non capisce. Lui spera solo che un giorno, persa nella quiete familiare cui tanto aspira, saprà che se oggi leva la sua spada non è per debolezza ma per onorare un impegno preso con se stesso e col mondo. Un mondo che ai suoi occhi la conterrà sempre, perché proprio ora che non ha più bisogno di lei può iniziare a volerle veramente bene.
Il suo evocatore parte prima dell'alba, ancora immerso nella foschia azzurrina, e Auron seguendolo sente che una piccola parte di quella serenità è finalmente sua.



Spirito – una conclusione – viandante e mago


La Piana della Calma, verde e fertile, è lontana sotto di lui. Oltre, l'azzurro di Macalania e del Gagazet, le macchie scure che devono essere Remiem e San Bevelle, poi l'isola di sabbia cui tanto deve. Oltre ancora Zanarkand, che può tornare a guardare con serenità.
Braska cammina nel cielo e ride, meravigliandosi di quanto il mondo sia diventato piccolo e splendido ai suoi occhi. Basta tendere una mano per salvarlo – è, in fondo, quello che sta facendo. Tende dunque la mano dentro di sé, senza più esitare, e richiama a sé l'ultimo Eone, chiedendogli di onorare il patto. In quel momento, ogni ansia svanisce e Braska sa di essere al centro del mondo, pronto a iniziarne la rinascita. Quante angosce, quante paure ha affrontato prima di arrivare qui, superandole con la ragione e con la fede che, unite, l'hanno sempre guidato. Quanto sforzo inutile! Nascondeva perfino a se stesso le incertezze, ritenendosi indegno del ruolo che aveva assunto. Solo ora vede la pochezza di un tale comportamento, ma anch'esso a suo modo è stato giusto, perché gli ha permesso di arrivare qui. Non loda e non condanna, sorride e si accetta con lo stesso sentimento che riserva alla sua nemesi e a tutti coloro che l'hanno accompagnato nel viaggio.
La forza pura che lo sta attraversando tutto, scuotendo ogni particella del suo essere, è la sacralità dell'Evocazione Finale che si manifesta con gloria maggiore di quanto avesse sognato, ma quell'attimo dilatato di infinita percezione è suo e solo suo e ringrazia un dio che non chiama Yevon per avergli permesso di essere testimone di un senso più alto della spirale di morte – che pure è giusto combattere. Cammina nel cielo e ride, perché ora sa e non ha ragione di temere.

All'infuori della sua mente, Braska non cammina nel cielo né può tendere la mano all'amico che sta condannando: è solo un uomo stanco, provato dal viaggio, che rischia di spezzarsi sotto il peso di ogni movimento del rito di evocazione. Non risponde più nemmeno al suo nome, sussurrato disperatamente dal guardiano che lo accompagna. Lo sente, certo, nello stato di percezione acuita in cui si trova, come sente già la forza di Sin premere sulla sua concentrazione quando il mostro è ancora distante. Sono entrambe distrazioni cui non dà ascolto, anche se la sofferenza del guardiano arriva a sfiorarlo e vorrebbe dirgli di nuovo addio. Ma, se nulla deve ancorarlo al mondo, che nulla sia. Contempla il tutto che gli si è dispiegato innanzi e vede giustizia nelle azioni che quel dolore genererà: dargli ascolto e lenirlo ora sarebbe ingiusto. L'evocazione è quasi completa e il suo corpo sembra annullarsi in quello dell'Eone che sta nascendo: il senso di libertà che ne deriva gli toglie il fiato.
Si guarda allora alle spalle, trovandovi il sentiero della sua vita. Ne accoglie ogni tappa con tranquillità, le vittorie e gli errori, i dubbi vecchi e quelli nuovi da essi generati.
Un ricordo in particolare risalta, luminoso, in quella scia. Sua moglie è stata sempre, per lui, la fonte del cambiamento; sempre dal suo amore è iniziato il dubbio verso il mondo e ciò che amore non era, ma solo vuota forma e oppressione. Ricorda il giorno in cui l'ha conosciuta e ha fatto vacillare il suo credo. Ricorda un giorno in cui hanno parlato a lungo all'ombra di Casa e il suo equilibrio è tornato, più saldo, e si è sentito pronto a comunicarlo ad altri. Ricorda che non l'hanno ascoltato, ma ha continuato a confrontarsi con lei e sono cresciuti entrambi, anche se di poco, verso la verità.
Ricorda il giorno in cui non è tornata. In quel momento gli è stato chiaro che lo splendido viaggio della mente che avevano svolto insieme era finito, lasciando il passo a un percorso più materiale che avrebbe dovuto compiere da solo, per lei, per Yuna, per Cid, per tutti i volti sconosciuti che continuano a piangere perdite non meno care. È quello che ha fatto. E finisce qui, ora.

Quando torna a voltarsi in avanti il sentiero finisce e Braska cade a terra, morto. E Sin con lui.



Nel cerchio, un inizio


Solo dalla loro sconfitta, sancita sotto lo sguardo impassibile della prima Alta Evocatrice, un genere diverso di speranza è potuto nascere, mettendo esili radici in quel luogo di morte che della speranza illusoria aveva fatto la sua bandiera.
L'inizio della fine non è un punto o un istante ma un cerchio a sua volta, che dall'innocenza cresce e si evolve per poi tornarvi pieno di nuova consapevolezza. Tutto è sacro e tutto è necessario, uno e tre insieme e ogni passo della strada che li ha portati, complementari e completi, fino al lontano Nord, pellegrini della lunga via.

Senza il ricordo di un'utopia perduta cui aggrapparsi, lontana mille anni o un sogno, Sin sarebbe stato completo. Ma, quando anche tutto il resto era stato eroso da Yu Yevon diventando estatica distruzione, quel singolo pensiero era rimasto orgogliosamente, testardamente Jecht, una scommessa azzardata, unico punto debole di umanità in una corazza di fede.
Auron seguì la sua strada a cavallo di due mondi con determinazione incrollabile, ma ci riuscì solo dopo che ebbe rinunciato a tutto in nome della disperazione, in ultimo alla vita stessa. Un gesto duplice, come sempre, in lui, il bambino solo e deluso dal mondo era sopravvissuto nell'ombra del giovane guerriero. Senza un'unica mano a intrecciare i fili di due storie, che ebbero poi l'ardore di chiamarsi “proprie”, nessuno avrebbe mai colto quella scommessa, lasciandola cadere nel nulla.
Ma senza la fiamma che era stato Braska a illuminare il loro cammino – amico, guida, ispirazione – esso non si sarebbe mai compiuto. Né quello di Yuna dopo il loro.

Le loro strade si dividono: dolore cieco per chi ha la forza di contrastarlo, l'agonia di un'osservazione passiva per chi è saggio abbastanza da non venirne accecato, tristezza opprimente per chi rimane intrappolato nel mezzo eppure, risoluto, non abbandona le sue promesse.
Nulla di più simile. Dieci anni di identica condanna li attendono perché ai loro stessi occhi hanno fallito ma non c'è più bisogno di credere in infinite possibilità: sono confluite in una, allo stesso tempo vitale e forte e dolce come una canzone che diventa l'ultimo inizio di Spira, un inizio di vita.


The people and the friends we have lost...
The dreams that have faded...
Never forget them.
   
 
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